CAPITOLO 49 - IL VUOTO

Nemiah si alzò in piedi.

«Acqua, mi vuoi? Eccomi, io ti sfido» urlò togliendosi la casacca azzurra e gettandola sulla sabbia.

La ragazza trasalì e allungò la mano verso di lui, nel tentativo di farlo sedere. Non capiva cosa lo spingesse a comportarsi in quel modo così infantile, prendendo il suo ammonimento alla leggera.

Quello ignorò la sua mano e le sorrise beffardo. Percorse di corsa i pochi metri che lo separavano dalla riva e si gettò in mare. Naya osservò la superficie dell'acqua incresparsi, trattenendo il fiato, nell'attesa di vederlo riemergere.

Non accadde, il tempo parve dilatarsi. Cercò per interminabili secondi un segno, ma era come se fosse stato inghiottito dal blu.

Senza pensarci due volte si sfilò il vestito e corse in acqua per soccorrerlo. Si immerse e lo cercò invano per lunghi minuti, poi a corto di fiato riemerse in panico. Si guardò intorno e gridò a gran voce il suo nome.

Nemiah comparve inaspettatamente alle sue spalle, passando sotto le sue gambe divaricate e lei si ritrovò in una frazione di secondo spinta verso l'alto, fuori dall'acqua, seduta a cavalcioni sulle sue spalle, spaventata a morte.

La mano del ragazzo premeva sulla sua coscia, nel punto esatto dove si erano posate le dita di Hektrien. Quel ricordò le fece girare la testa, scrollò il capo per scacciare quella sensazione dolorosa e sentì la rabbia offuscarle i sensi.

«Non azzardarti più a fare una cosa del genere» protestò lei, afferrandogli i capelli con forza. «Mettimi giù».

Lui piegò il capo all'indietro e le sorrise ancora. Poi la fece cadere all'indietro, scrollandosela di dosso. Quella annaspò qualche secondo, prima di tornare a galla.

«Sei odioso» esclamò, senza voltarsi, dirigendosi verso la riva.

La sua sottoveste bianca aderiva perfettamente al suo corpo, rivelando ogni forma, rimasta nascosta fino a quel momento.

«Stiamo litigando veramente?» chiese lui, allargando le braccia.

La rabbia di Naya aumentò, strinse i pugni e lo guardò dritto negli occhi.

Lesse qualcosa di sbagliato in quelle iridi azzurrine. Le sue pupille erano dilatate e fisse su di lei, come quelle di un predatore. Non c'era semplice desiderio, ma voglia di dominio. Si coprì rapidamente il seno con le braccia, cercando di sfuggire a quello sguardo. Si sentiva nuda e vulnerabile, in trappola.

Lo vuoi morto?

Naya si guardò attorno, smarrita. Rabbrividì.

Non permettere che ti manchi di rispetto.

La ragazza inspirò profondamente, strinse i denti, poi si avvicinò a Nemiah.

Si sfilò il medaglione e glielo mise al collo.

«Questa volta posso considerarlo un regalo?» chiese lui sfiorandolo.

«No, lo indosserai ogni volta in cui ti avvicinerai all'acqua, razza di incosciente» tuonò, puntandogli un dito contro. Si rese immediatamente conto che stava iniziando a utilizzare le stesse parole di zia Emma. «Cerco solo di proteggerti, non posso permettermi di perdere anche te» aggiunse cercando di restare calma

Quello la guardò, il suo sorriso scomparve.

«Non hai bisogno di fare l'imbecille, perchè io te lo dica ogni volta. Lo sai» aggiunse poggiando con forza l'indice sul suo petto nudo, proprio all'altezza del suo cuore. «Lo sai» concluse con un groppo alla gola.

Nemiah poggiò il palmo della sua mano su quella di lei e la strinse debolmente.

«Ti immagini se tutto questo fosse per sempre».

Naya si incupì. Scrollò il capo e tornò a riva. Lui la seguì un silenzio. Si distesero l'uno accanto all'altro sulla sabbia.

La giovane non riusciva a immaginare un futuro, tanto meno un per sempre e il fatto di non poterlo condividere con Hektrien. Si aggrappava istintivamente al suo dolore, unica cosa che lo legava ancora a lui, per trattenerne il ricordo, ricacciando le lacrime, per non sentirsi sciocca agli occhi dell'amico, ma sentendo che solo il dolore l'avrebbe salvata da un'apatia che non avrebbe reso giustizia a tutti i momenti profondi che aveva condiviso con il Principe. Continuare la sua vita come se nulla fosse avrebbe significato tradirlo.

Non sarebbe mai stata in grado di rinunciare alla magia di un'alba o di un tramonto, per vivere nell'ombra insieme a lui. Ne era certa, aveva bisogno di godere delle bellezze del mondo. Fissava il cielo con gli occhi tristi, era incredibile come di colpo le mancasse tutto di Hektrien. I suoi occhi scuri, la sua pelle fredda, quel sorriso che cercava spesso di nascondere, le spalle dritte e il mento appena sollevato, quell'espressione fiera che aveva quando la sua mano sfiorava la sua spada. Se chiudeva gli occhi rivedeva senza sosta il suo primo sorriso luminoso, nella grotta a Eiowa, quando aveva ritratto le mani.

"Le mani di un soldato". Così aveva detto.

Però c'era quella frase, che tornava senza sosta a tormentarla, nonostante cercasse di scacciarla.

"Sposami, Iris".

Una sorta di allucinazione, un assurdo e crudele scherzo della sua mente, qualcosa che aveva tentato di dimenticare, negando a sé stessa di essere stata in grado di udire una frase simile. Quel pensiero però non l'abbandonava mai. Iris forse avrebbe accettato una proposta simile, pur di non perderlo, ma lei non era Iris. Era ormai Naya, libera, orgogliosa e fedele a sé stessa.

Nemiah era stato in silenzio a lungo, come se avesse compreso quel suo bisogno di estraniarsi dal mondo.

Il lento e costante suono della risacca la cullava e la avvolgeva, lenendo quel dolore, rendendolo sopportabile, mentre tanti ricordi riaffioravano in superficie. Quella dolce melodia aveva rilassato il suo corpo, ma non c'era nulla che potesse fare con la sua mente in fermento, quei ricordi stavano per sommergerla. Ebbe un singulto come se stesse per andare in apnea, trascinata sul fondo dall'intensità di quel sentimento, così nuovo e così ingestibile per qualcuno della sua età, davanti alla sua prima grande delusione.

«Riesci a vedere il nostro castello?» chiese l'alfa all'improvviso, indicando le nuvole. La ragazza si voltò verso di lui, completamente smarrita, come se si fosse appena risvegliata da un sogno. «Ricordi il nostro gioco? Guardavamo il cielo e ci inventavamo delle storie».

Quel senso di oppressione si fece più leggero, iniziò a respirare normalmente.

Quel ragazzo era proprio come il mare, imprevedibile e capriccioso, impossibile da domare, ma aveva lo straordinario potere di calmarla con la sua voce rassicurante e avvolgente come un'onda.

«Ti raccontavo che nessuno avrebbe potuto farti del male in quel castello fatto di nuvole» aggiunse.

Quanto avrebbe voluto che un luogo simile esistesse. Fissò il cielo, portandosi una mano sugli occhi per proteggerli dalla luce del sole, sforzandosi di intravederne la forma, ma la sua immaginazione era intorpidita, almeno quanto lei.

Il ragazzo si avvicinò a lei, quel tanto che le permise di sentire il calore del suo corpo. Il suo braccio le sfiorò la spalla nuda, facendola irrigidire. Poggiò la sua testa piena di riccioli contro la sua e le sollevò il braccio, dirigendolo verso l'alto.

«Eccolo lì».

«Ho ben pochi ricordi di quel tempo» tagliò corto lei, ritraendo il braccio.

«Non credo di essere mai stato deluso in vita mia come quella sera in cui non mi hai riconosciuto» confessò lui, poggiando il suo palmo sul dorso della sua mano, distesa ormai sulla sabbia. «Forse non dovrei dirlo ad alta voce».

Naya ebbe un fremito.

«Il mio corpo ti ha riconosciuto».

Quella frase uscì spontaneamente dalle sue labbra e con essa una presa di coscienza.

«Che vuoi dire?».

Ricordava bene la sensazione che l'aveva attraversata dalla testa ai piedi, quando aveva incrociato il suo sguardo glaciale nel salotto di casa. Una pura scarica elettrica, un misto di paura ed eccitazione, forse addirittura una punta di desiderio. Da allora aveva fatto di tutto per scuotersi di dosso quella sensazione così scomoda, ma non appena lui posava i suoi occhi su di lei, eccola lì marchiare di nuovo a fuoco la sua pelle.

«Possiamo tornare alla capanna?» chiese lei, mettendosi seduta.

La ragazza asciugò una lacrima all'angolo dell'occhio, prima che cadesse sulla guancia.

Non si era mai sentita così persa in vita sua.

«Naya, stai tremando» disse lui carezzandole il viso.

«Sento freddo».

Quello annuì, fingendo di crederci e le poggiò la coperta sulle spalle.

Salirono su per la scogliera in silenzio, prendendo un cammino ancora più ripido del precedente, che li avrebbe condotti più velocemente alla capanna. Arrivati in cima la giovane si voltò per dare un'ultima occhiata al mare. Quella notte a causa dell'oscurità non si era resa conto di quanto fossero in alto, la vista sulla costa in quel momento, da lassù, era spettacolare. Alla luce del sole tutto appariva selvaggio e maestoso, non aveva mai visto erba così verde o cielo più azzurro, parevano quasi irreali.

Non era riuscita a godersi appieno quel momento tanto atteso. Avrebbe voluto che tante cose fossero andate in modo diverso.

«Torneremo» disse lui, leggendole nei pensieri.

Arrivarono alla capanna. Era primo pomeriggio di una giornata soleggiata, ma ventosa.

«In quel baule restano alcune cose di mia madre, prendi ciò che vuoi. Mangia qualcosa e riposati. Sarò di ritorno tra qualche ora» disse lui, chiudendosi la porta alle spalle.

Naya esitò a lungo prima di aprirlo, la zia era sempre stata gelosissima delle sue cose. Nel baule restava ben poco del suo passato, alcuni abiti meravigliosi, cuciti a mano, un sacchetto di stoffa pieno di bracciali, spille e perline, poi pettini di legno, aghi da cucito, oggetti semplici sbucati dal passato, riposti con cura, che le strapparono un malinconico sorriso.

Indossò un vecchio abito verde smeraldo, leggero, stretto sotto il seno con le maniche larghe e pieno di meravigliosi ricami dorati.

Si distese a letto e si addormentò sfinita. Fu un sonno pesante e senza sogni. Trascorsero ore prima del ritorno di Nemiah. Dormiva così profondamente che nemmeno lo udì rincasare.

Il sole stava tramontando, una luce aranciata dai riflessi viola filtrava dalla finestra. La ragazza si alzò e guardò fuori, stropicciandosi gli occhi con le dita.

Nemiah stava carezzando il cavallo dal manto marrone che aveva cavalcato il giorno prima. L'ultima luce della sera lo avvolgeva, colorando il suo viso di tinte calde, dipingendo i suoi riccioli perfetti della sfumatura dell'oro più puro. Splendeva.

Rimase incantata a guardarlo un po' troppo a lungo, mentre quello si prendeva cura dell'animale. Il ragazzo se ne accorse e le fece cenno con la mano di raggiungerlo, regalandole uno dei suoi radiosi sorrisi.

Naya indietreggiò, non sarebbe uscita. Fu l'altro a raggiungerla, comparendo sulla soglia.

«Il ritorno al campo base sarà un poco più confortevole» disse indicando una sella, poggiata in un angolo all'ingresso. Quella annuì. «Ho detto o fatto qualcosa di sbagliato? Sei silenziosa da quando abbiamo lasciato la spiaggia. Abbiamo tutta la serata per noi, partiamo domani se ti va. Non ti benderò questa volta».

Lei annuì ancora una volta, sentendosi avvolgere dall'apatia. Avrebbe voluto rannicchiarsi nel buio e restare immobile fino all'alba, godendosi quella sensazione di vuoto. Non avrebbe lottato contro quel torpore, non quella sera.

«Ottima scelta» disse lui, squadrandola dalla testa ai piedi con il suo nuovo abito.

Quello sguardo era ancora una volta senza filtri e senza ritegno.

Naya si voltò e andò alla finestra, intravide il suo riflesso e si passò per l'ennesima volta la mano tra i capelli. Lo aveva fatto spesso in quei giorni e ogni volta era quasi come se si aspettasse che fossero ancora lunghi come prima. Doveva accettare il cambiamento e quelle ciocche ribelli che le si arricciavano sulle tempie, facendola apparire a suo avviso ridicola.

Nemiah la osservava, con il sangue che gli pulsava veloce nelle vene. Non aveva occhi che per lei.

«Ricresceranno» disse quello, poggiandole le mani sulle spalle.

«Ti prego di non toccarmi» rispose a denti stretti, scostandosi. Quello ritrasse le mani. «Vorrei rimanere sola».

Quelle parole lo ferirono, mentre il suo tono così freddo gli trapassava il cuore. Inspirò profondamente, poi trattenne il fiato per qualche secondo, deglutì e lasciò la capanna senza dire una parola.

Quella sera Naya non toccò cibo, rimase un poco a letto, poi si mise davanti alla finestra a spiare il ragazzo, seduto per terra, a osservare il cielo, proprio come accadeva a Eiowa.

Le venne in mente una frase che lui le aveva detto una sera a Devon.

"Ti ho aspettata ogni notte".

Era illogico preoccuparsene, ma questa volta non l'avrebbe deluso. Si passò una mano sul viso e prese il coraggio di uscire per affrontarlo. Colse un fiore giallo dal cespuglio che cresceva selvaggio proprio accanto alla porta.

«Mi dispiace» disse lei sedendosi accanto a lui sull'erba e porgendogli il suo dono. «Ci sono cose che non riesco proprio a gestire, sono un completo disastro, un controsenso vivente».

Nemiah rimase in silenzio, ma accettò il fiore, come gesto di pace. Capiva benissimo quella sensazione e non ce l'aveva affatto con lei. Erano fatti così, litigavano per sciocchezze e poi si chiedevano scusa. Era un meccanismo infantile, ma autentico, che li metteva al riparo dal rimanere arrabbiati troppo a lungo.

«Non c'è nulla che non vada in te, proprio nulla. Dovresti vederti attraverso i miei occhi, solo allora capiresti che ..».

«Torna dentro» lo interruppe lei.

Quello tirò un profondo sospiro e si lasciò sfuggire una risata. La ragazza sembrava farlo apposta, interrompendolo sul più bello.

«Lasciati attraversare da ciò che senti» continuò lui.

«Solo vuoto».

«Accettalo, abbraccialo, fallo tuo e soprattutto non avere fretta di colmarlo» aggiunse. Lei lo guardò, per quanto potesse apparire contorto il suo discorso aveva un senso. Aveva bisogno di tempo per elaborare ogni delusione e ogni dolore che aveva vissuto dal momento in cui aveva attraversato quel portale. «Un giorno però accadrà, sarai pronta a riempirlo di cose nuove. Quando avrai compiuto il tuo viaggio, mi troverai ancora qui. Non importa quanto tempo passerà, so essere paziente anche io. È una promessa. Una promessa vera di quelle a cui credo veramente» concluse lui, tirando fuori il pesciolino di legno dalla tasca.

Ne seguì uno scambio di sguardi intenso e un silenzio davvero troppo lungo, in cui il ragazzo cercò di capire cosa passasse per la testa dell'amica. Aveva fatto centro ancora una volta, il suo linguaggio del corpo così impacciato parlava chiaro. Naya però non avrebbe dato alcun seguito a quelle sue allusioni tutt'altro che velate, era ben decisa a farle cadere nel vuoto per proteggersi.

«Torna dentro» lo incalzò lei una seconda volta, accettandolo.

«Se davvero insisti» disse ironico alzandosi e porgendole la mano per aiutarla a mettersi in piedi. «Spero che il pavimento sia comodo».

«Non è necessario che dormi a terra».

«Parlavo per te, questa rimane pur sempre casa mia» disse con una scintilla di finta perfidia nello sguardo.

Naya sorrise, scuotendo la testa. Stringeva ancora nel palmo della mano il simbolo di quella promessa che in fondo una parte di lei sperava si sarebbe avverata, anche se in quel preciso momento per lei vuoto significava solo uno spazio per nuove delusioni.

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