CAPITOLO 47 - ALONYTHA, NOI

Attraversarono il portale in silenzio, camminando uno accanto all'altro. Naya si voltò un'ultima volta a guardare il bosco alle sue spalle, prima di passare il primo piede al di là del varco. Nonostante tutto, quel Regno meritava di essere salvato, avrebbe combattuto per i suoi abitanti e soprattutto per Hektrien.

Lei e Nemiah camminarono per ore, senza rivolgersi la parola, ognuno perso nei suoi pensieri, mentre il paesaggio cambiava sotto i loro occhi. Il ragazzo avanzava con passo più deciso, spiandola ogni tanto con la coda dell'occhio, mentre il passo di Naya era più lento, così come il suo sguardo che indugiava su ogni dettaglio.

Il vento era leggero, dal tepore quasi primaverile, nonostante la stagione fosse ancora invernale. In quella regione, che non doveva essere situata così lontana dal mare, il clima sembrava essere mite.

Il sole si stava facendo alto in quel cielo limpido e tutto brillava sotto la sua luce intensa. La ragazza si guardava intorno estasiata da tanta bellezza. Era la prima volta che vedeva il Regno di cui un giorno sarebbe stata Regina. Non sapeva se avrebbe avuto tutto le qualità necessarie per ricoprire quel ruolo, ma di certo non sarebbe stata codarda come suo fratello Tadeker. Era certa che un giorno le loro strade si sarebbero incrociate di nuovo e avrebbe avuto il coraggio di affrontare argomenti scomodi.

Era primo pomeriggio quando il paesaggio si fece più aperto e l'aria dolciastra. C'erano campi fioriti a perdita d'occhio, una distesa color arcobaleno. Le montagne dalla cima innevata si stagliavano alla loro destra, ma loro sembravano diretti verso sud.

All'improvviso Nemiah si acquattò, facendo segno a Naya di fare lo stesso. Nel prato davanti a loro c'era un branco di cavalli selvaggi, bestie magnifiche, intento a pascolare e godersi i caldi raggi del sole. Il ragazzo si portò l'indice davanti alle labbra, intimandole l'assoluto silenzio. Aveva in mente qualcosa.

Iniziò ad avanzare verso di loro, muovendosi rapido e silenzioso in mezzo all'erba alta.

Il cuore della ragazza batteva forte.

Arrivò a pochi metri da uno stallone dal pelo marrone e la coda e la criniera color miele e balzò come un predatore su di lui, riuscendo a saltargli in groppa al primo tentativo. Il cavallo si imbizzarrì, ma Nemiah era deciso a domarlo.

Dopo interminabili minuti di lotta fu lui a vincere. Serrando le cosce e aggrappandosi alla sua criniera con forza, mentre questo cercava di disarcionarlo, alzandosi sulle zampe posteriori.

Finalmente il cavallo si calmò e iniziò a obbedire ai suoi comandi. I due fecero una lunga cavalcata. Il ragazzo aveva i capelli al vento e il sorriso sulle labbra e il cavallo era bello e fiero. Divennero un tutt'uno, un riflesso ipnotico e fuori dal tempo della potenza della natura.

«Avrebbe potuto ucciderti» urlò lei, rimanendo a distanza.

Quello rise e le fece cenno di avvicinarsi.

«Preferisci andare a piedi?».

«Preferisco non rischiare l'osso del collo».

«Come desidera, Principessa» disse lui, abbassando il capo in segno di rispetto, per prendersi gioco di lei.

Il cavallo iniziò ad avanzare lentamente, così la ragazza si avvicinò ancora.

«Sei proprio imprudente» lo rimproverò quella.

«Hai paura che mi faccia del male?» chiese lui, ammiccando.

«Certo» rispose lei. Nemiah sorrise e scese da cavallo, lasciandosi scivolare agilmente dalla sua groppa e la guardò con uno sguardo interrogativo. «Perchè non lo sapevi che tengo a te?».

«No» rispose lui serio, facendo una carezza sulla criniera dell'animale.

Pronunciando quella frase, Naya si rese conto di quanto davvero tenesse a lui, più di quanto potesse immaginare, più di quanto le parole potessero esprimere. Quel legame si faceva illogicamente sempre più forte.

L'alfa la guardava incantato. Nessuno gli aveva mai detto qualcosa del genere prima di allora, si sentì pervaso da un sentimento nuovo, la paura di deluderla ancora. Era consapevole della propria instabilità emotiva, però quando lei gli era accanto quella burrasca sembrava placarsi, quel poco da illuderlo di non essere un caso senza speranza.

Diede una pacca sul dorso del cavallo e questo partì per raggiungere il suo branco.

«Credevo che non volessi camminare» disse lei.

«Siamo quasi arrivati. Volevo solo...» iniziò, senza staccarle gli occhi di dosso, mentre lei lo guardava con sguardo interrogativo. «Lascia stare».

Quella frase rimase sospesa nel vuoto. La ragazza abbassò gli occhi e annuì senza chiedere ulteriori spiegazioni.

«Naya» disse lui, lei lo guardò. «Chi arriva ultimo è un barbagianni».

I due attraversarono di corsa un immenso campo di fiori gialli, facendosi avvolgere dalla luce dorata di tutti quei petali. L'erba le solleticava la pelle e non poteva fare a meno di sorridere.

A un certo punto Nemiah sparì dalla sua vista e la ragazza si bloccò, iniziando a chiamare a gran voce il suo nome, iniziando ad avere paura che gli fosse successo qualcosa, quando quello, sbucando alle sue spalle, la cinse stretta stretta. Rotolarono al suolo insieme.

«Mi hai fatto morire di paura, animale».

Quello emise un suono gutturale e mostrò i denti, incombendo su di lei proprio come un lupo con la sua preda.

Il ciondolo con le due spirali penzolava a pochi centimetri dal suo naso.

«Ti credevo impavida, ragazzina. Con una missione da compiere, pietre da cercare e vite da salvare» disse ironico.

Lei lo guardò, sentendosi colpevole del segreto che aveva tenuto per sé fino a quel momento e tutta la spensieratezza svanì nel nulla. Zia Emma le aveva detto che avrebbe dovuto rivelargli il contenuto della maledizione, quando l'avesse ritenuto pronto a sapere la verità, ma non esisteva il momento giusto per dire a qualcuno che forse era condannato a morte.

La storia della pietra passava in secondo piano, rispetto all'ennesimo tradimento da parte di sua madre.

Nemiah mostrò ancora una volta i canini, ringhiò e puntò alla sua giugulare visibile e pulsante sotto la sua pelle chiara, sembrava pronto ad attaccare, ma in realtà avrebbe solo voluto baciarla. Le sfiorò appena appena la pelle con le labbra, facendola rabbrividire. Lei rotolò su un fianco sottraendosi a quella presa, facendosi seria.

«Sono in grado di controllarmi» disse lui, pensando di averla spaventata.

Quella aprì bocca senza riflettere.

«Esiste una possibilità di salvare i due Regni» iniziò, mettendosi seduta, mentre lui alzava un sopracciglio. «Prima che io ti riveli tutto devi farmi una promessa».

«La prossima spetta a te» ribatté lui.

La ragazza frugò nel borsello, il pesciolino era scivolato in fondo. Si inginocchiò a terra e iniziò a cercare. Le sue dita trovarono immediatamente qualcosa che non doveva essere lì dentro. Sembrava una pergamena, sbirciò. Era ingiallita e ruvida al tatto.

Intravide quattro lettere. Iris.

Inspirò forte, poi afferrò il pesciolino e chiuse il borsello. Qualunque cosa fosse avrebbe aspettato.

«Ti prometto pazienza» disse lei, porgendogli il pesciolino, sotto il suo sguardo incuriosito. «Insomma, non puoi negare di essere spesso insopportabile» aggiunse per sdrammatizzare.

Il ragazzo sembrò riflettere a quella frase. Fece una smorfia.

«Ti prometto...» iniziò. « Allora?» la incalzò.

Naya si trovò in difficoltà, sentiva che la sua voce avrebbe tremato non appena avesse aperto bocca. Inspirò, doveva essere sincera.

«Vorrei che tu mi facessi una promessa che forse va contro ogni tua convinzione. Promettimi che farai tutto ciò che è in tuo potere per trovare una soluzione pacifica a questa guerra e aiutare anche gli abitanti del Regno di Tenebra» disse tutti d'un fiato.

Nemiah scoppiò in una fragorosa risata e gettò il capo all'indietro.

«Potresti usare la tua rabbia in modo costruttivo, senza bisogno sterminare un popolo innocente».

«Hai forse perso la testa?».

«Potremmo costruire un futuro migliore per tutti. Luce e buio possono convivere in armonia, hanno bisogno l'uno dell'altro per esistere. Non c'è bisogno di commettere l'irreparabile».

«Vedo che sei ancora sotto la sua cattiva influenza» disse scrollando la testa e allontanandosi, in mezzo all'erba alta.

«Prometti» disse alzandosi a sua volta.

«Farò del mio meglio, perchè nessuno sappia che hai fraternizzato con il nemico o peggio.. che forse hai già ceduto a tentazioni oscure» disse severo.

Si riferiva senza dubbio alla lunga notte trascorsa con Hektrien.

«Prometti» ribatté senza cedere alla sua provocazione.

«No» disse secco.

Quel Nemiah non sembrava l'eroe di cui aveva bisogno.

«Sei forse tu il morto che cammina» gridò. Ebbe finalmente l'attenzione del ragazzo, che si voltò finalmente verso di lei, mentre lei si avvicinava «Esiste una maledizione...».

Lo sguardo del ragazzo cambiò. Qualcosa saettò nelle sue iridi.

«Il tramonto del Tiranno dipenderà dal sangue di mia madre. Una sua goccia versata sancirà il declino del suo Regno e la sua sconfitta definitiva» recitò quasi a memoria, facendo a sua volta qualche passo verso di lei.

Naya si immobilizzò.

«Non voglio che tu muoia» disse quella prendendogli entrambe le mani e stringendole forte. «Sono disposta a qualunque cosa, perché ciò non accada, per questo devi ascoltarmi».

«Sei disposta a qualunque cosa per salvare Hektrien» la corresse quello. «In fondo non è male avere un fratellastro, ho una possibilità su due di sopravvivere allo scontro finale».

«Tu e lui siete la mia famiglia» rispose lei. «Posso salvarvi entrambi, esiste una pietra che potrebbe uccidere Ulktor, ridurlo in cenere grazie al potere del sole, senza bisogno di spargimento di sangue, tantomeno il vostro. È un'arma pericolosa, se affidata alla persona sbagliata. Dobbiamo trovarla e usarla per il bene di tutti. Voglio dare una possibilità al Regno di Tenebra e a chi combatte per esso. Lo sapevi che esiste una resistenza anche tra gli herkeniani? Combattono nell'ombra per darsi una possibilità, proprio come te».

«Andiamo» disse lui.

«Quella pietra è la nostra unica speranza».

«Una possibilità su due mi è sufficiente» tagliò corto lui.

Naya abbassò il capo, sarebbe tornata all'attacco in un secondo momento, non avrebbe rinunciato a farlo ragionare. Ormai lo conosceva abbastanza da sapere quanto fosse testardo. Avrebbe aspettato il momento giusto.

Camminarono circa un'ora in mezzo a quel campo di fiori gialli. La ragazza rifletteva al modo per convincerlo a seguirla in quella assurda avventura, senza però degnarlo di attenzione.

«Non cambierò mai, vero?» chiese quello all'improvviso, voltandosi verso di lei. Teneva un fiore giallo tra le dita e glielo stava porgendo con un sorriso triste dipinto sulle labbra. «Farabutto e maledetto».

«Possiamo cambiare le cose, tu e io» disse lei con voce ferma. Ci credeva veramente, ma sapeva che non sarebbe stato facile. «Alonytha».

«Noi» la corresse quello.

Nemiah le soffiò i petali sul naso, poi la afferrò e la issò sulla sua spalla, iniziando a correre in mezzo al campo, mentre lei scalciava, pregandolo di metterla a terra. Era felice di essere con lui, nonostante tutto.

Trascorsero ore di risate e chiacchiere, fermandosi solo per mettere qualcosa sotto i denti.

Naya aveva l'impressione di sentire l'odore salmastro del mare, ma non osava chiedere se fossero diretti verso la costa, per paura di rimanere delusa. Quando iniziarono a salire un pendio roccioso, si convinse definitivamente che si stavano allontanando dal suo sogno.

Giunsero finalmente sulla cima. In mezzo a un prato rigoglioso, c'era una piccola baracca di legno, isolata da tutto, con il tetto di paglia intrecciata, mista ad argilla per resistere alle intemperie. Non era messa poi così male a prima vista.

«Era la casa di mio padre» disse quello.

Aveva gli occhi lucidi.

Risalirono un vialetto fatto di ghiaia bianca, tanto simile a quello che attraversava il giardino di Devon ed entrarono all'interno.

Passarono una serata tranquilla, mangiando qualcosa che Nemiah aveva cacciato nel bosco poco distante. L'ambiente era semplice, con il mobilio ridotto all'essenziale, ma estremamente accogliente, nonostante l'abbandono. La giovane si guardava attorno e stentava a credere ai suoi occhi. Era tutto troppo pulito, senza alcun segno di trascuratezza.

«Da quanti anni è abbandonata?».

«Nessuno ci vive da circa vent'anni» rispose lui nostalgico. «Torno spesso, perché in nessun posto sento mio padre vicino come tra queste quattro mura. Tenere tutto in ordine è il mio modo di chiedergli perdono».

Naya non riuscì a comprendere quella frase, ma Nemiah aveva portato lo sguardo altrove e non sembrava voler approfondire quel discorso, ma era chiaro che qualcosa lo tormentasse.

«Dovremmo riposare» terminò.

Si diresse al bracere e ravvivò il fuocherello che si stava spegnendo. Si guardò i palmi delle mani, poi li passò ancora sulle fiamme, indugiando a lungo. Dolorosi ricordi sembravano riaffiorare alla memoria, mentre un insopportabile calore gli penetrava nelle ossa.

«Nemiah» lo chiamò lei.

Quello lo raggiunse, ma il suo sguardo era assente. Si sedette sul grande letto dove l'amica aveva già preso posto. Assorto nei suoi pensieri, teneva le due mani sul bordo del letto, come per sorreggersi e fissava intensamente il fuoco. La ragazza lo osservava attentamente e intravedeva un dolore bruciante, una tempesta appena visibile sotto quella superficie di nostalgia.

Non voleva essere invadente, così si limitò a stringergli la mano, offrendogli il suo sostegno silenzioso.

«Ho sempre saputo di dover morire» disse all'improvviso, sorridendole debolmente. «Quando ero bambino abitavamo in riva al mare, mio padre trovava che era più sano per un bambino vivace come me vivere sulla spiaggia, piuttosto che in un luogo sperduto come questo. Però mi parlava sempre di questa capanna e di come proprio lungo il sentiero che abbiamo percorso avesse conosciuto mia madre. Divenne pescatore e amava quella vita, aveva sempre il sorriso stampato sul volto. Vivevamo di cose semplici, seguendo il ritmo delle stagioni e i capricci del mare. Le giornate iniziavano e terminavano presto. Trascorrevo le mie giornate guardando le onde, arrampicandomi sulle rocce e rincorrendo i gabbiani. Crescendo, mio padre iniziò a portarmi con lui in barca e a insegnarmi cose nuove, come riparare una rete o riconoscere i pesci. Era un momento solo per noi, ogni uscita in mare era un'avventura».

Naya gli sorrise, sembrava l'inizio di una favola.

«Mia madre però viveva nella costante paura di perderci, stava ore sulla spiaggia a fissare l'orizzonte, aspettando il nostro ritorno. Le discussioni si fecero via via più frequenti, diceva che il mare aperto non era posto per un bambino. Tornavamo sempre con un regalo per lei, una pietra colorata o una conchiglia, per farle tornare il buon umore, ma era difficile strapparle un sorriso. Una notte mi svegliai di soprassalto e mi accorsi che stavano litigando per l'ennesima volta, così mi alzai per origliare. Mio padre era seduto a tavola, si teneva la testa con entrambe le mani. Era invecchiato di colpo, scrollava la testa nervosamente. Fu così che venni a conoscenza della maledizione, mia madre stava dicendo che dovevo stare lontano dal mare, perché se mai fossi morto tra le onde tutto sarebbe stato vano. La mia morte doveva essere utile per una causa più importante e non per uno stupido passatempo».

Quella storia aveva dell'incredibile.

«Ero così spaventato, che mi sembrò di soffocare, così corsi fuori in cerca d'aria, nel tentativo infantile di sfuggire a quella maledizione. Non avevo ben chiaro di cosa parlasse mia madre, ma avevo capito che dovevo morire. Quelle parole  risuonavano nella mia mente, mentre correvo».

La giovane comprese che non avrebbe potuto fare o dire nulla per lenire un tale dolore. Rimase in silenzio.

«Mio padre giunse sulla spiaggia poco dopo per schiarirsi le idee, mi vide e si sedette accanto a me sulla riva, passandomi un braccio attorno alle spalle. Gli era bastato un solo sguardo per capire che avevo sentito tutto. Lo supplicai di portarmi lontano da lei, ma lui rifiutò, dicendo che avevo frainteso le sue parole e che non era bene origliare. Vedevo la paura nei suoi occhi, non era bravo a nascondere le sue emozioni. Mi baciò la fronte e mi ordinò di tornare a casa e io non ebbi altra scelta che obbedire. Passai dalla finestra, senza che mia madre se ne accorgesse e rimasi lì a osservarlo. Passeggiò a lungo avanti e indietro sulla spiaggia, poi spinse la sua barca in acqua e prese il largo. Guardai il cielo, un temporale si stava avvicinando. Ebbi paura, poi fui sopraffatto dalla rabbia, sentivo che avrebbe dovuto portarmi con lui. Lo attesi per ore, finché mi addormentai con la testa poggiata al davanzale. Due giorni dopo ritrovammo i resti dell'imbarcazione, completamente bruciata. Diedi a lungo la colpa a mia madre per quella scomparsa, fino a quando, anni dopo, mi resi conto che quando ero arrabbiato potevo creare fiamme o addirittura appiccare incendi a distanza».

Naya rabbrividì.

«Potrei aver commesso qualcosa di imperdonabile» disse in un sussurro.

«Ci sono cose che non possiamo controllare, deve essere stato un incidente. Una lanterna che si è rovesciata a causa del mare grosso o un maledetto fulmine. A volte accadono cose imprevedibili».

«Mia madre si ostinò ad aspettarlo, con gli occhi fissi all'orizzonte, ma era chiaro che non sarebbe mai più tornato. Da allora ho cercato a tutti i costi una ragione affrontare la vita e solo la rabbia mi ha dato la forza di reagire» continuò lui.

Nemiah si asciugò le lacrime che iniziavano a rigargli il volto, poi si accoccolò sulle gambe della ragazza.

«Non hai mai voluto fargli del male» disse carezzandogli i riccioli biondi. «Non puoi punirti in eterno».

«La rabbia mi ha tenuto in vita fino a ora».

«Lasciala andare».

«Non posso, voglio vivere».

«Guardami» gli intimò.

Il ragazzo si voltò, guardandola dal basso verso l'alto. Il sul volto era segnato dalla sofferenza, bagnato di lacrime. Non era la prima volta che lo vedeva piangere, amava come non gli importasse di mostrarsi vulnerabile.

«Meriti di essere felice, lasciala andare» aggiunse.

«Non so come fare».

«E se trovassimo un modo insieme?».

«Dopo quella notte ho sempre temuto che il tempo non mi sarebbe mai bastato, ma tu mi allunghi la vita senza nemmeno accorgertene».

La ragazza si irrigidì, sentendosi avvolta da quelle parole così potenti. Smise di accarezzargli i capelli, incerta su come reagire.

«Non smettere, ti prego».

Nemiah chiuse gli occhi, mentre lei ricominciava a giocare con i suoi riccioli biondi. Si sentì inspiegabilmente leggero dopo tanto tempo, come se un enorme peso si fosse dissolto nel nulla, sotto il tocco leggero di quella ragazza.

«Ti aiuterò a trovare quella pietra, perché non sopporto quando scappi via da me».

Si addormentò rapidamente, lasciandosi avvolgere dal sonno, grato per quel sostegno silenzioso.

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