CAPITOLO 31 - LA MALEDIZIONE
Solstizio d'inverno.
Quel giorno sembrava che la sorveglianza di Iris fosse triplicata. L'atmosfera era pervasa da un misto di paura e speranza. Gabor continuava a rassicurarla che sarebbe andato tutto bene, il che era davvero poco tranquillizzante, perché aveva un sorrisetto forzato stampato sul suo volto florido, che stonava con il velo di angoscia che la giovane riusciva a intravedere davanti ai suoi occhi.
Quella sera Zia Emma entrò nella stanza carica di vestiti tra le braccia, la giovane era distesa nel buio a fissare la sua lampada da ore, cercando di scacciare i pensieri negativi che la tormentavano. Si sentiva intrappolata, proprio come quel liquido blu che saliva e scendeva senza sosta. Presto qualcuno avrebbe bussato alla sua porta per condurla lontano da tutto ciò che conosceva. Aveva ricevuto l'ordine di farsi trovare pronta a partire, senza alcun bagaglio, così attendeva senza fiatare. Non provava più curiosità, tantomeno paura, le pareva semplicemente di aspettare l'inevitabile.
Aveva sognato di avventure tutta la vita, ma la sua realtà andava oltre la sua più fervida immaginazione. Aveva lentamente accettato il suo destino, perché grazie al diario e alle parole della zia aveva iniziato a sentirsi sempre più vicina a quella famiglia di cui non aveva un ricordo diretto, non li aveva mai sentiti così vivi come in quel momento. Spesso i loro volti, il loro coraggio e le loro parole così potenti facevano capolino nei suoi sogni agitati, rendendola fiera e conscia dell'importanza delle sue radici. Era suo dovere fare la sua parte e rendergli onore, ma non avrebbe rinunciato a giocare un ruolo attivo, varcato il portale non sarebbe stata un semplice burattino nelle mani dei ribelli, ancora meno in quelle di Nemiah.
Il futuro era imprevedibile, ma dal ritorno di Hektrien sperava che l'uomo potesse in qualche modo farne parte. Era sciocco, ma era difficile ignorare il sentimento che provava ogni volta pensava ai momenti condivisi e non riusciva a immaginarsi un mondo senza di lui.
Non era più riuscita a scorgerlo nemmeno di sfuggita e non aveva insistito per ottenere un incontro, perche temeva la reazione di Nemiah.
L'aurea di mistero che avvolgeva l'alfa era sempre più densa, il suo ultimo moto di rabbia aveva carbonizzato chissà come le fiaccole nella radura, così come il foglio di carta nella capanna. Il ragazzo aveva una qualche influenza sul fuoco ed era instabile e pericoloso, qualcosa le diceva che avrebbe potuto perdere il controllo con facilità. Il rogo che bruciava dentro di lui era pronto a distruggere tutto al suo passaggio.
Eppure le sue parole rimbombavano nella sua mente, aveva aspettato per tutta la vita che qualcuno le dicesse che non c'era nulla di sbagliato nell'essere sé stessa e ora non provava alcuna soddisfazione. Non voleva che fosse proprio lui quello che la capiva, desiderava qualcuno che, pronunciando quelle parole, le porgesse la sua mano, offrendole sostegno, non qualcuno che con rabbia le puntasse il dito contro.
Non c'è nulla di male nell'essere come siamo.
«Un regalo per te» disse la donna accennando un sorriso.
Iris si mise seduta sul bordo del letto e accese la luce, mentre l'altra si avvicinava e poggiava tutto sulla coperta.
«Per il passaggio al nuovo mondo dovrai avere la tenuta adatta» aggiunse.
Il passaggio al nuovo mondo, da qualche giorno non si parlava d'altro. Il momento era arrivato, quella notte a mezzanotte il portale si sarebbe aperto, da qualche parte nel bosco poco distante da casa, avrebbero scoperto all'ultimo momento la sua esatta posizione. La zia le aveva già spiegato che era un portale molto diverso da quello che univa Regno di Luce e Regno di Tenebra, il varco spazio temporale che si apprestavano ad attraversare era imprevedibile e misterioso, non aveva un'ubicazione fissa, si sarebbe manifestato davanti ai loro occhi percependo la magia.
Iris avrebbe dovuto attraversarlo, scortata dai suoi guardiani, ma nello stesso momento qualcuno o qualcosa avrebbe probabilmente attraversato in senso contrario per catturarla o peggio ucciderla, un piano era stato studiato nei minimi dettagli per garantire la sua protezione, ma lei non aveva diritto di sapere.
«E questo è il tuo regalo per Hektrien» disse porgendole un pacchettino di stoffa celeste.
Iris la abbracciò stretta stretta, senza aprirlo. Si fidava ciecamente del talento della zia.
«Ed ecco qui un bel mantello per proteggersi dal freddo della notte e qualcosa di particolare. Non sapevo se saresti stata a tuo agio con una gonna, quindi ho fatto qualche modifica a un mio vecchio vestito. Mettilo, vediamo come ti sta».
La donna le mostrò con orgoglio un lungo abito, nero come la tenebre, con degli inserti color argento sulle spalline, attorno al collo e a livello della vita. Con una rapida mossa alzò l'orlo e le rivelò che sotto la gonna era celato un bel paio di pantaloni in pelle.
«Come farò a trovare marito se mi fai coprire fino alle caviglie?» chiese la nipote ironica.
«Vai in bagno a vestirti, fammi vedere come ti va» disse fingendosi spazientita.
L'altra sorrise e obbedì. Si cambio rapidamente e si guardò nello specchio. La zia si era superata ancora una volta, la sua creazione era meravigliosa e le calzava a pennello, si sistemò il mantello sulle spalle e se lo legò sotto il mento. Fissò a lungo la sua figura riflessa, fasciata di quel nero intenso, stentando a riconoscersi. Non era certamente la solita Iris, ma non era nemmeno la Naya che si era immaginata, non aveva affatto l'aria di una Principessa del Regno di Luce, tutto ciò che vedeva in quello specchio richiamava le tenebre. Un brivido le percorse la schiena, era così diversa da quello che conosceva e da quello che sarebbe stato logico aspettarsi.
Uscì dal bagno facendo un inchino impacciato alla donna che l'aveva aspettata con impazienza, quella sorrise e le andò incontro e le legò un borsello di stoffa nera in vita.
«Sei molto graziosa» disse.
«Come mai è tutto così ...nero?» chiese la giovane.
«Sarai protetta dalla notte, invisibile il più possibile. Per ora non devi essere un simbolo, ma nemmeno una preda. L'abito non definisce chi sei, la tua vera essenza risiede qui dentro» rispose poggiando il suo palmo all'altezza del cuore di Iris.
La giovane annuì. L'infanzia era finita, era il momento di crescere e prendere in mano la sua vita.
Le due presero di nuovo posto a letto e iniziarono a chiacchierare. Zia Emma era molto più affettuosa del solito, doveva temere il momento del passaggio.
«Andrà tutto bene» disse prendendole la mano, cercando forse di auto convincersi. «Ho fiducia nel branco, ma vorrei chiederti una cosa, nel caso mi accadesse qualcosa».
«Zia» protestò quella, scuotendo il capo.
«Vorrei che tu ti prendessi cura dei miei figli. So che con Hektrien sarà più facile. Vi ho visti più volte tenervi per mano e ho avuto l'impressione che quel contatto non fosse solo frutto del bisogno di comunicare».
Iris avvampò e si portò le mani sulle guance. Si chiese come potesse essere così diretta su un soggetto così intimo e delicato. Lo sapeva Fidian, lo sapeva Nemiah e ora anche lei. Era stata una sciocca a illudersi di poterlo nascondere, sentiva un misto di imbarazzo e sollievo.
«Che dici?» bofonchiò.
Zia Emma sorrise e carezzò il volto arrossato della nipote.
«Sorveglia anche Nemiah per favore, non è cattivo come sembra».
«Mi ha dato questo» disse lei, mostrando il pesciolino che aveva poggiato sul comodino. «Sai cos'è?».
La donna lo osservò attentamente e lo sfiorò con le dita, poi scrollò il capo, diceva la verità.
«Quando era piccolo era bravo a scolpire animali nel legno, credo sia una sua creazione. Nella nostra comunità a volte si donano oggetti per proteggere il prossimo» disse.
«Mi ha detto che è una promessa infranta».
«Quel ragazzo rimarrà sempre un mistero» commentò.
La giovane voleva chiedere qualcosa riguardo a Nemiah e il fuoco, ma fu interrotta.
«Ho ancora qualcosa per te» disse la donna.
Frugò nella tasca del suo vestito e le consegnò tre vecchie pagine ingiallite. Erano le pagine mancati del diario. Iris si illuminò.
«Leggile con attenzione, dopo le distruggerò» disse cupa.
La ragazza le prese in mano, mentre zia Emma andava alla finestra. Era ritta e tesa, con lo sguardo fisso davanti a sé e le mani conserte. Non voleva vedere la sua reazione durante la lettura.
Iris si apprestava a scoprire l'ultimo doloroso segreto della donna che l'aveva cresciuta .
Dal diario di Euniria... Molti anni prima.
Cavalcavo, nel bel mezzo dell'eterna oscurità herkeniana, con il piccolo Hektrien stretto al petto. Attraversavamo il bosco di Symbre, braccati da quattro enormi bestie nere dagli occhi iniettati di sangue. Cercavo di resistere alla tentazione di voltarmi indietro per vedere quanta distanza ci separasse da loro. Quegli esseri mostruosi ci incalzavano sempre più da vicino, ma ero determinata a proteggerlo a ogni costo.
Mi ero immaginata quello scenario angosciante un'infinità di volte. Nonostante avessi spesso tentato di negare a me stessa la possibilità che colui che aveva un tempo considerato l'uomo della mia vita potesse volere la nostra morte, in fondo in fondo avevo sempre saputo che presto o tardi quel momento sarebbe arrivato. Mi ero illusa che nel caso la situazione fosse inevitabilmente precipitata, grazie ad alcuni piccoli accorgimenti e ad alcune mie particolari capacità, sarei stata in grado di gestirla, prendere tempo e mettermi in salvo con mio figlio.
Avevo sottovalutato la lucida malvagità di quell'uomo. Avevo atteso troppo. A ben poco era servito sgattaiolare attraverso i cunicoli del Castello, perché non appena aveva messo piede fuori da quel dedalo di corridoi i suoi fedeli lucyon erano riusciti velocemente a localizzarci. Quel tentativo di fuga aveva reso la loro caccia ancora più eccitante. Se la mia memoria era buona, l'unica speranza di salvezza si sarebbe dovuta trovare poco distante, ma sembrava quasi che il bosco si stesse dilatando all'infinito davanti ai miei occhi, prendendosi gioco di me, ogni angolo buio si somigliava. Avevo assoluta fiducia nel mio cavallo, avrebbe tentato di portarci al sicuro. Ormai non era più la razionalità a spingermi a spronarlo a correre più veloce, ma solo il puro terrore. Quando all'improvviso udii le belve ululare rabbiose, compresi come stessero rapidamente acquistando terreno nei nostri confronti.
All'improvviso il cavallo si imbizzarrì, non voleva più avanzare.
Scendemmo e iniziai a correre, tenendo Hektrien per mano, ma non eravamo abbastanza rapidi. Inspirai profondamente, sentendo un acre gusto metallico in bocca, lo presi in braccio e accelerai il passo quel tanto che il suo peso e il mio lungo abito da sera mi permettevano. Non c'era stato il tempo di mettere qualcosa di più comodo. Lui aveva pianificato di giustiziarci durante il banchetto a Palazzo, davanti a un centinaio di invitati, perché la teatralità faceva parte del suo essere. Una esecuzione in piena regola come dimostrazione del suo potere assoluto.
Torture e esecuzioni pubbliche erano simbolo della sua forza e il metodo più efficace per mantenere l'ordine pubblico, scoraggiando eventuali rivolte e cospirazioni.
Un grande palco in legno era stato costruito nella piazza principale di Kadik e una folla impaziente si riuniva quasi ogni giorno per assistere allo spettacolo d'orrore che il loro Signore le offriva. C'era stata una crescita esponenziale delle condanne a morte negli ultimi mesi e le vittime erano spesso colpevoli di reati di scarsa gravità, saremmo dovuti essere i prossimi e la grande sala da ballo, allestita a festa, sarebbe stata trasformata in patibolo.
Quel giorno Ulktor era stato particolarmente gentile, facendomi immediatamente insospettire, stava tramando qualcosa di losco, ne ero certa. A poche ore dall'inizio del ricevimento, accompagnato dalla sua belva più feroce, mi raggiunse nella camera da letto, che ormai non condividevano più da anni, per farmi dono di una veste, color rosso rubino e aveva insistito perché la indossassi al banchetto serale. Sospettai che l'avesse fatta annusare al maschio alfa della sua muta, quando vidi questo fissarmi insistentemente. Mi stava puntando, fu questa la mia sensazione, quello era lo sguardo eccitato che aveva prima di una battuta di caccia e io ero la sua preda designata.
Stavamo perdendo sempre più terreno, quando scorsi finalmente in lontananza l'imponente sagoma del portale in pietra che divideva il Regno di Luce dal Regno di Tenebra. Mi sentii sollevata, fino ad allora non era certa di correre nella buona direzione, era l'istinto a guidarmi. Era tanto che non lo vedevo, una volta molto semplice, costituita da grigie pietre grezze, ciottoli e argilla. Erano stati gli shindy, popolo nomade da cui discendevo, ad averlo eretto secoli addietro e a esserne ancora guardiani dall'altro lato. La mia gente, popolo antico che aveva preso la decisione di fermarsi e mettere radici per proteggere il proprio Regno, lunis compresi, i purosangue del Regno di Luce, nonostante tra le due comunità non corresse sempre buon sangue. Non avremmo mai trovato il nostro posto nel mondo, saremmo sempre stati considerati i diversi, malgrado quel nostro sacrificio.
Nonostante i molteplici tentativi di regolamentare il passaggio dei visitatori del Regno di Tenebra nel corso degli anni, senza mai veramente impedirlo, il portale rappresentava in quel momento della giornata un limite invalicabile per il popolo della notte. Nessun herkeniano poteva esporsi direttamente alla luce del giorno.
Sentivo le forze venire meno a ogni passo e le braccia sempre più pesanti, ma alla vista del chiarore dell'alba che stava sorgendo al di là del varco, riacquistai quel minimo di speranza che mi indusse a dare fondo alle mie ultime energie. Da anni non vedevo la luce del sole e per Hektrien sarebbe stata la prima volta. Con un rapido gesto sistemai il cappuccio sulla sua testa per proteggerlo dai raggi solari al momento del passaggio. Non sapevo che effetto avrebbero avuto su di lui, ma non avevamo scelta. Avremmo potuto farcela, la luce ci avrebbe sottratti a morte certa.
Fu a quel punto, quando la salvezza sembrava a pochi metri, che inciampai disgraziatamente in una radice in rilievo e caddi rovinosamente a terra insieme al piccolo. Dopo un attimo di disorientamento, con un enorme sforzo fisico, riuscì a mettermi in piedi per raggiungerlo. Hektrien era accasciato poco distante da me, apparentemente privo di sensi su un cumulo di fogliame secco, che speravo avesse attutito la caduta. Traballante feci due passi nella sua direzione e compresi di essere in trappola.
I quattro lucyon ci avevano improvvisamente circondati da ogni lato, bloccandoci ogni possibile via di fuga. Mi puntavano, ringhiavano ferocemente, mostrandomi i loro enormi canini aguzzi, resi ancora più scintillanti e spaventosi dalla tenue luce che filtrava attraverso le fronde degli alberi secolari che ci sovrastavano Sapevo che non ci avrebbero attaccati, stavano semplicemente prendendo tempo in attesa del loro padrone. Sarebbe stato lui in persona a ucciderci. Era nel suo stile fare svolgere tutto il lavoro dagli altri per poi prendersene il merito sferrando il colpo letale.
«Una meravigliosa serata per una passeggiata, peccato che la luna non sia ancora sorta» disse una voce maschile in tono mellifluo, facendomi rabbrividire.
Ulktor, comparso inaspettatamente davanti a me, scese con un agile balzo dal suo cavallo nero, seguito da una decina di soldati senza volto. Estrasse dal fodero il suo pugnale dalla scintillante lama d'argento e con esso fece cenno alle sue bestie di allontanarsi. Mi paralizzai e rimasi per un istante occhi negli occhi con quell'uomo delirante che negli ultimi anni si era trasformato progressivamente nel mio peggiore incubo.
«Mi ricorda i vecchi tempi, il nostro primo incontro. Te lo ricordi?» domandò in tono canzonatorio avvicinandosi lentamente, con il mantello nero che oscillava ritmicamente a ogni passo. «Certo qualcosa è cambiato da allora. Ad esempio all'epoca non ti saresti potuta permettere una veste di tale fattura. Devi ammettere che questi anni trascorsi al mio fianco hanno contribuito a trasformarti in una vera Signora».
Mi sfiorò una guancia con la sua arma fredda e affilata. Voltai spontaneamente il viso dall'altra parte con un gesto plateale per mostrargli tutto il mio disgusto.
«O quasi» si corresse prontamente lui, facendo scorrere il suo pugnale fin sotto la mia gola. «Euniria, le mie attenzioni ti disturbano?» chiese fingendosi sconcertato dal mio atteggiamento insolente, lanciando un'occhiata divertita ai suoi soldati.
Non ero disposta ad arrendermi e accettare il mio destino, non prima di aver messo al sicuro mio figlio. Non staccai mai il mio sguardo dal viso di Ulktor, sperando di riconoscere in quegli occhi bui e malvagi almeno un frammento di quella umana bontà che anni prima mi aveva ingenuamente spinta a cedere alle sue lusinghe. Sentivo di aver tradito la mia gente. Ero diventata la sua sposa, la Signora del Regno di Tenebra e gli avevo dato un erede al Trono. Avevo rinunciato al calore della luce del sole, alla mia essenza più profonda e i miei bracciali stregati erano lì per ricordarmelo. Quei monili mi impedivano di usare i miei poteri, erano il simbolo della mia sottomissione. Ero diventata un oggetto nelle sue mani, il mezzo attraverso il quale aveva guadagnato sempre più potere e ora che era arrivato al suo scopo si sarebbe sbarazzato di me. Quanto alla sorte di Hektrien, presto o tardi probabilmente sarebbe stata uguale alla mia. Lui, un sangue misto, un discendente degli shindy, esempio vivente dell'imperfezione che lui da sempre combatteva.
Non scorsi nulla in quelle iridi buie come la notte, a parte la pura perfidia.
«Risparmia la sua vita» disse decisa.
Ulktor si fece serio.
«Miserabile shindy, osi forse dare ordini al tuo Signore? La sua sorte non è affar tuo» rispose lui con una smorfia di disgusto.
La fine era vicina, mi afferrò con forza per i capelli e mi costrinse a inginocchiarmi ai suoi piedi.
«Lasciala stare» disse una voce infantile tutt'altro che impaurita rompendo la quiete notturna. «Lasciala stare» ripeté con più convinzione.
Spalancai gli occhi e vidi il viso dell'uomo a pochi centimetri dal mio piegarsi in un ghigno malefico. Sentivo ancora il suo fiato freddo sul collo.
«Forse dovrei rivolgere le mie attenzioni a qualcun altro» disse l'uomo perdendo automaticamente interesse nei mie confronti. «Chissà se riuscirò a convincerlo a dimostrare un poco più di rispetto nei confronti di suo padre».
Fece qualche passo verso Hektrien. Faceva così male guardarli insieme, due gocce d'acqua. Aveva il suo incarnato pallido e i suoi occhi scuri, non sarebbe mai stato al sicuro nel Regno di Luce, tutto in lui ricordava le tenebre. Impugnava un sasso nella sua manina e appariva fermamente intenzionato a proteggermi da quell'uomo crudele, che mai si era comportato da padre nei suo confronti. Si tolse il cappuccio con aria di sfida, lo fissò qualche istante e poi glielo scagliò con tutta la sua forza. Questo cadde a terra senza nemmeno sfiorarlo. Fu allora che una delle bestie, interpretando quel gesto come una reale minaccia verso il suo padrone, con un rapido guizzò si proiettò impulsivamente sul piccolo. Gli fu addosso in una manciata di secondi, ma la sua repentina artigliata non venne ben assestata e lo ferì di striscio, perché l'uomo nello stesso momento in cui essa aveva spiccato il suo balzo aveva brandito il suo pugnale d'argento nella sua direzione e le aveva intimato a gran voce di allontanarsi. La bestia si acquattò impaurita poco distante accanto alla muta.
Urlai disperata, mentre mio figlio si accasciava a terra portandosi entrambe le mani sul viso, rigatosi istantaneamente di sangue. Il piccolo appariva perfettamente cosciente e iniziò a indietreggiare strisciando a terra. Il suo sguardo era ancora duro, non aveva paura. Sembrava ancora deciso nella sua ingenuità a sfidare il padre.
«Lo devo finire io» ruggì l'uomo alla bestia, chiaramente alterato dell'imprevisto.
«Non azzardati a toccarlo» tuonò la donna.
«Altrimenti?» disse l'uomo chinandosi su di lui con l'arma stretta nella mano.
Allargai le braccia, sentivo le forze della Natura fluire nuovamente in me. Ero diventata il loro strumento, il mezzo attraverso il quale esse si stavano ribellando al Tiranno. Un'aura fluorescente mi avvolse, la percepivo attorno a me. I miei bracciali si disintegrarono, facendomi riacquistare i poteri magici.
«Io ti maledico» urlai.
Ulktor si alzò in piedi e con un'espressione turbata mi guardò puntare il dito contro di lui. Mi osservava immobile. Forse il suo istinto gli suggeriva di scagliarmi contro le sue belve prima che fosse troppo tardi, ma pareva ipnotizzato da quella scena.
«Strega» disse in un sussurro.
«Che tu sia maledetto Ulktor, Signore di Herken, Regno di Tenebra. Hai fondato le basi del tuo Impero sul sangue e questo sarà la tua maledizione. Il suo tramonto dipenderà proprio dal sangue, dal sangue del mio sangue. Una sua goccia versata sancirà il suo declino e la tua sconfitta» gridai.
Indietreggiai lentamente, attraversai il portale e sparii oltre la coltre luminosa senza staccare gli occhi da Hektrien, per domandargli perdono. Dovevo separami da lui, non avevo scelta. Mi convinsi che le mie ultime parole l'avrebbero protetto. Volevo che quella profezia fosse uno scudo, ma si trasformò in arma.
Iris alzò lo sguardo, cercando di capire cosa avesse appena letto e incroció quello vitreo della zia, che mosse appena appena le labbra, pronunciando parole incomprensibili. I fogli che ancora stringeva tra le mani si dissolsero nel nulla.
«Ricorda la profezia» disse seria.
«Scudo e arma?» chiese lei esitante.
«Quella notte, creando quella protezione, ho probabilmente condannato a morte uno dei miei figli».
La ragazza strabuzzò gli occhi, si sentì soffocare. Ebbe un forte capogiro. Cercò di ricordarsi le esatte parole del diario, ma non riusciva a concentrarsi su nulla.
«Il tramonto del Tiranno dipenderà dal sangue del mio sangue» ripeté solenne. «Hektrien lo sa, ne abbiamo parlato, è valoroso e pronto al sacrificio, ma potrebbe anche trattarsi di Nemiah, ma dubito possa essere utile parlargliene in questo momento, dovrai farlo tu quando lo riterrai pronto a conoscere tutta la verità. Non è ancora chiaro chi possa essere l'arma, forse lo scoprirete solo quando il destino si sarà compiuto».
«Ci deve essere un altro modo. Un sortilegio..... ».
L'altra scrollò il capo amaramente, la nipote la vide di colpo invecchiata. Portava tutto il dolore del mondo e il senso di colpa sulle sue fragili spalle.
Per un'inspiegabile ragione Ulktor sembra temerlo, dubito che l'abbia mai toccato con un dito.
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