1.

La ragazza era circondata da un eterno bianco e una dolce voce la richiamava dal silenzio.
Clarence.
Fece alcuni passi in avanti, sperando che ad ogni suo passo riuscisse a percepire qualcosa di fisso sotto i piedi che la sostenesse. Non vedeva nulla tranne il bianco.
D'un tratto un piccolo coniglietto nero le parve davanti saltellando allegramente, era spuntato da una piccola porta che solo ora aveva notato.
Clarence andò a posare la mano sudata sul pomello della porta bianca, ma a quel punto fu come se una grande bolla scoppiasse.
«Clarence Moreau! Signorina!» solo ora la ragazza capii di essersi appisolata ad una delle solite noiose lezioni di storia dell'arte, e proprio in quel momento si ritrovò davanti il lungo naso e le milioni di rughe della sua professoressa Adalberta Krouse Petit. Certo che era proprio crudele chiamare una bambina così!
«Dovrebbe essere grata ai suoi genitori dello sforzo che fanno per mandarla nella scuola più rinomata di tutta Francia, invece di addormentarsi e sognare chissà quale diavoleria!» urlò con un tono quasi isterico la professoressa.
«Scusi Madame Petit.» disse la fanciulla dai lunghi capelli castani, abbassando delicatamente il capo.
La sua amica Lia, invece era proprio al banco di fianco al suo che le faceva cenni di rimprovero, mentre l'intera classe scoppiò in una fragorosa risata, soprattutto Cynthia che continuava a fare commenti ironici sul fatto che Clarence stesse sognando degli "alieni verdi che invadevano il pianeta", un vecchio sogno delle scuole medie che le aveva rovinato la reputazione, come se ce l'avesse.
Adalberta, ovvero Madame Petit aveva appena zittito la classe, sbattendo violentemente la bacchetta di legno sulla cattedra e poi ricominciò la lezione. Aveva ancora un certo metodo 'antico' per attirare l'attenzione dei suoi numerosi alunni.
La ragazza intanto stava ignorando la sua amica che tentava invano di bisbigliarle qualcosa. Si perse nei suoi soliti pensieri continuando ad arricciare i suoi capelli alle dita e a guardare fuori dalla finestra.
Era un'allegra giornata estiva, non faceva ne troppo caldo né troppo freddo e da lì a poco la scuola sarebbe finita. Il vento faceva muovere le grandi chiome degli alberi e le urla dei bambini delle elementari facevano troppo frastuono, e quindi gli allievi furono costretti a chiudere tutte le finestre. Il suono della campanella, finalmente.
«Ragazzi, aspettate! Volevo ricordarvi che giovedì prossimo si svolgerà la gita al lago, mi raccomando di portare da bere, per poter sopportare il caldo.» gridò con la sua voce stridula la professoressa, mentre gli alunni si accanirono contro la porta, per poter finalmente ritornare nelle loro amate case e sistemarsi davanti ad un ventilatore.
Appena la ragazza uscii dall'aula con lo zaino posato delicatamente sulla spalla, e seguita dalla sua amica, si ritrovò davanti ad un sole abbagliante.
«Ti sei di nuovo addormentata a lezione! Cos'hai sognato?» chiese Lia elettrizzata e allo stesso tempo offesa dal comportamento di Clarence in quel giorno.
«Scusami Lia.» si scusò sinceramente Clarence. «In realtà ho sognato una porta bianca e un coniglio nero. Non è che sia uno dei sogni più strani che io abbia mai fatto.» disse sogghignando mentre apriva il piccolo armadietto verde, tirando fuori dallo zaino due piccoli libri che mise subito in uno scaffale.
«Ho dimenticato il libro nell'aula di chimica, arrivo subito!» disse Lia, facendo un segno di saluto con la mano all'amica, iniziando ad incamminarsi al piano di sopra.
Clarence continuava a pensare alla voce che la chiamava nel sogno, certo che era davvero bizzarro, senza ovviamente calcolare tutti gli altri sogni che aveva fatto quell'anno. Era contenta della gita, ma ormai conosceva benissimo il lago della sua città, amava l'acqua cristallina e il venticello che c'era in quel luogo.
Un attimo dopo, Clarence udii qualcuno che si avvicinava e davanti a lei, ovvero dietro alla stipite della porta, esso tirò un piccolo colpo all'armadietto vicino al suo.
«Ciao Clarence.» era la voce del suo insopportabile compagno Jonathan Colin, lei lo detestava, ma lui cercava continuamente di fare due chiacchiere con lei. Era una spanna più alto di lei, aveva due grandi occhi verdi, capelli castani e lunghi e sopratutto attirava di certo l'attenzione di tutti.
«Ciao Jonathan, ti avverto che Lia sta per ritornare e io non sono in vena di parlare con te. Quindi vattene.» disse chiudendo l'armadietto e senza degnarlo di uno sguardo si appoggiò all'armadietto.
Lui era li davanti a lei che sorrideva, un sorriso splendido.
«Continuerai ad odiarmi a vita? Non ti ho fatto niente.» disse Jona spettinandosi i capelli con la mano destra.
«Tranne prenderti gioco della mia migliore amica, essere amico di Cynthia Leroy e soprattutto perseguitarmi ovunque quando non sono con Lia?» disse fulminandolo con lo sguardo. Molto spesso le persone avevano paura di lei per i suoi occhi azzurri glaciali, ma Lia le diceva sempre che erano stupendi sulla sua pelle chiara.
«Te l'ho già detto che mi dispiace! Oh merda, sta arrivando Lia. Ciao.» disse il ragazzo voltandosi e camminando a passo veloce verso l'entrata. Mentre Clarence si lasciò sprofondare in un enorme sospiro, sperando con tutto il cuore che l'amica non lo avesse visto.
«Uh Uh, chi era quello?» disse l'amica con un sorriso malizioso.
«Il nuovo arrivato.» disse frettolosa la ragazza, guardando dall'altra parte.
Lia, con i suoi lunghi capelli ricci e rosso scuro, e gli occhi neri, la osservava con l'aria interdetta.
«Dobbiamo andare, Lia.» Clarence porse la borsa che aveva appena lasciato l'amica alla propria proprietaria, per poi porgerle un sorriso e cominciando ad incamminarsi verso la porta.
La rossa doveva venire a casa sua a passare il pomeriggio, e come ogni mercoledì dell'anno avrebbero guardato uno dei soliti film gialli. Entrambe amavano l'horror e i gialli polizieschi, come ogni mistero che le si poneva davanti.
Il pullman della scuola che le avrebbe riportate a casa ormai era partito, sebbene fossero maggiorenni le loro madri non sopportavano l'idea di regalargli una macchina.
Clarence vide Jonathan uscire velocemente con la macchina dal posteggio, ed ebbe quasi la tentazione di chiedergli un passaggio se non fosse per l'amica che non lo poteva vedere.
Così dovettero chiamare Mrs. Moreau, facendole abbandonare il suo lavoro di pasticciera.
Il sole cuoceva e le due ragazze rimasero all'ombra su un piccolo muretto di marmo a parlare di pettegolezzi e del film che avevano visto la sera prima. Sebbene abitassero a diversi chilometri di distanza le due ragazze si vedevano spesso, una a casa dell'altra. Dopo una ventina di minuti la macchina bianca della signora Moreau era al di fuori del cancello.
Fuori c'erano davvero molte persone ad aspettare i propri amici, ed altri che partivano a razzo con i loro motorini, uno addirittura stava quasi per investire una ragazza.
La strada per casa sarebbe stata davvero breve, se non per il traffico di quell'ora. La città era invasa da macchine di tutti i generi, alcune persone parlavano con altre sulla strada, l'abitacolo era rinchiuso nel solito ciclo di monotonia.
La madre faceva continuamente domande su l'esito della giornata e come le ragazze l'avessero passata, sembrava sbadata visto che continuava a ripetere sempre le stesse cose.
Nel giro di pochi minuti si trovarono in un luogo completamente diverso, le alte palazzine erano scomparse per far comparire un vasto piano verde e in lontananza un prato di tulipani che colorava l'orizzonte.
Clarence continuava a pensare a Jonathan, sembrava davvero dispiaciuto per la sua amica, eppure l'aveva fatta soffrire senza nemmeno un po' di pudore. Intanto Lia si guardava attorno meravigliata continuando a parlare con la signora Moreau, ormai era come una figlia adottiva.
La casa della famiglia era davvero enorme, il padre di famiglia  era tra le persone più conosciute di Francia, possedeva una fabbrica di cioccolato davvero molto apprezzata. L'abitazione da fuori appariva come una grande distesa verde con alcuni laghetti in giro, era bianca splendente con un grande portone colorato all'entrata. Sebbene la ragazza odiava far parte di una delle famiglie più ricche della sua città era pur sempre contenta del giardino e della sua camera.
«Clary! Lia! Benvenute!» gridò la piccola bambina, aveva un sorriso stupendo, grandi occhi verdi chiari e capelli lunghi e castani che li ricadevano mossi sulle spalle. Quanto avrebbe voluto essere bella come lei.
«Celestia, non svegliare il vicinato!» la riproverò la madre.
«Ma mamma, siamo in mezzo alla radura e sono appena le tre di pomeriggio!» scoppiarono tutte in una fragorosa risata mentre Ciel, la bambina, andava ad abbracciare la sorella maggiore con tutte le sue forze.
Appena le due ragazze salirono in camera da letto si lasciarono sprofondare sulle due piccole poltrone.
«La tua casa è davvero stupenda! Anche la tua famiglia! Quanto vorrei...»
«Lia, lo sai che io non sopporto tutto questo.» gli fece un piccolo sorriso.
La sua camera era davvero grande ed era piena di foto con l'amica e tante altre persone, era di un grigio scuro ma i mobili bianchi la facevano sembrare ancora più vasta di quel che era.
«Non vedo l'ora della gita.»

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