sɪᴛᴛɪɴɢ ᴀᴛ ᴛʜᴇ ᴛᴀʙʟᴇ
|KANSEE E NOAH|
Presi il mio solito cappuccino con tanta schiuma e tanta cannella.
Dal mio posto potevo perfettamente osservare la gente entrare e uscire dalla mia vita, dal mio campo visivo.
Nonostante ciò, mescolavo e sorseggiavo il mio cappuccino con cura assaporando ogni goccia, amara e dolce che fosse.
Poi mi alzavo le maniche della felpa verde militare, afferravo la matita che tenevo sempre tra i capelli per mantenere lo chignon, scrivevo le improvvise frasi poetiche che la vita mi suggeriva e di tanto in tanto buttavo giù qualche schizzo di un gattino.
Sono nata e cresciuta in un paesino. Qui la gente appare da sempre sul serio pazza ai miei occhi.
Sempre frenetica, sempre di fretta ma pigra, sempre sull'attenti ma distratta, sempre indifferente ma appiccicosa, sempre inaffidabile ma pretenziosa.
Mi ritrovavo spesso ad alzare gli occhi al cielo, a sbuffare e a scrollare le spalle.
Mi lamentavo sotto voce e cercavo di mantenere il comportamento più adeguato alla mia figura.
Appariva come una ragazza dai capelli rossicci con sfumature bionde. Alcuni suoi amici si erano persino ritrovati a litigare per capire quale fosse il colore effettivo dei suoi capelli.
Un naso con una piccola gobba. L'avevo sempre odiato, non era abbastanza per i standard di bellezza della società.
Aveva gli occhi blu, sembravano due pozzi profondi. Spesso era difficile anche solo distinguere la pupilla dall'iride.
Al sole però erano grigi, ecco perché amava il sole.
Feci qualche passo verso il bancone del bar. Presi le mie cose e le infilai ordinatamente dentro il mio borsone marrone dal quale ciondolavano due portachiavi: un personaggio lego e un pupazzetto a forma di volpe.
Preparandomi per pagare allungai l'udito per ascoltare la casuale conversazione tra due uomini di circa cinquant'anni.
Erano vestiti da impiegati e da uomini. Le loro mogli non sarebbero mai venute a conoscenza che le tradiscono ogni sera, sempre nello stesso locale.
Avevo sempre amato osservare le persone. Ricordare più particolari possibili. Non perché li avrei rivisti di nuovo, ma perché il tempo qui non passa e per farlo passare devi trovare un hobby. Sennò rimani fregato e sei costretto a sottostare alla noia della vita.
Lo facevo per sentirmi in un qualche modo viva e un essere pensante.
Uno dei due uomini, quello a sinistra, aveva la testa costernata da capelli tra il nero e il grigio, un pezzo al centro della testa era completamente calvo. Le iridi azzurre, la sclera sul giallognolo andante.
Denti maniacalmente sbiancati cercando di nascondere che fuma alla moglie.
L'altro uomo aveva la pelle abbronzata, i capelli corvini rasati.
Due profonde occhiaie e un sorriso a metà.
Un sorriso sghembo.
Parlava di cose che l'altro uomo liquidava con un cenno del capo.
Stavano ascoltando il telegiornale. Una notizia diceva che c'erano stati dei guasti in una base nucleare in una campagna lontana circa quaranta kilometri dal loro paesino.
I giornalisti dicevano che non c'era bisogno di preoccuparsi.
Che bugia.
Non c'era mai veramente qualcosa da vedere o qualcuno con cui passare il tempo.
Il tempo si librava tra le mie dita e "stai crescendo" mi diceva mia madre.
A 16 anni ci si può considerare grandi?
Kansee non aveva mai capito veramente quale fosse l'età giusta per etichettarsi come "grandi".
A cinque anni sei troppo piccola per mangiare allo stesso tavolo degli adulti.
A otto anni puoi farlo ma non prender parte alle loro conversazioni.
A dodici anni hai il dono della parola ma ormai sei troppo grande e ti dicono che non sei più un bambino.
A quattordici anni puoi andare a scuola da solo ma non puoi uscire con i tuoi amici di pomeriggio.
A sedici anni puoi fare tutto ciò ma ormai sei troppo grande per fare ciò che facevi prima, ora hai delle responsabilità, delle scelte da fare.
A diciotto? cosa? la vita è finita?
Erano questi i pensieri di Kansee.
Così per essere utile sia per se stessa che per la sua famiglia sfruttò il suo bel faccino per fare la babysitter.
Si rendeva il più presentabile possibile e addolciva i suoi stanchi lineamenti per mostrarsi affidabile davanti a dei genitori senza tempo.
Quando suo fratello Noah l'aveva sentita nominare questo impiego aveva repentinamente esclamato:
"la parola babysitter e il tuo nome nella stessa frase? Domani non ci sarà vento allora!"
Probabilmente sarete abituati a sentire l'espressione "domani nevicherà" ma nel nostro paesino c'era sempre vento, quindi in sostanza se ci fosse stato un solo giorno senza vento, sarebbe stato un giorno di festa.
Dannazione. Io detesto il vento, non lo sopporto e ci sono così tante argomentazioni per provare questa mia affermazione, che sarei in grado di riempire circa due libri.
Pagai e uscii. Salii in sella alla mia bicicletta e pedalai verso casa.
L'aria era pungente quella mattina. Aveva un qualcosa di acido.
Era pungente tanto quanto la barba mal rasata di un signore sulla sessantina e acida tanto quanto le parole della zia segretamente odiata da tutta la famiglia.
Vivevo in una villa poco lontana dal centro.
Circondata da alberi consumati dall'autunno e una staccionata gialla.
L'entrata era composta da due colonne e tre gradini fatti tutti di mattoni color terra. Un sentiero con una mattonella rialzata e un altalena non più utilizzata da quando avevo capito che dovevo crescere, di nuovo.
Era abbastanza piccola per essere una villa. Si divideva in due piani collegati tramite una rampa di scale in legno.
Sistemai la bicicletta in giardino vicino alla pianta di ginestre, per poi fare il mio ingresso in casa.
Essendo domenica tutta la sua famiglia era in casa. C'era silenzio.
I suoi genitori erano in cucina. Anna e Bill.
Anna stava cucinando due bistecche spezzettate, si sentiva lo sfrigolio della carne in padella sin dall'entrata.
Una donna semplice, acqua e sapone ma invecchiata dalla stanchezza.
Bill,invece, stava bevendo il suo amato caffè.
Per un uomo ordinario come lui il caffè era, forse, la parte più importante della giornata.
Vestiva elegantemente anche a casa.
Sempre vestito in giacca e cravatta, i capelli rossi tirati indietro con il gel, l'orologio sempre al polso destro.
Il suo viso era costernato da lentiggini chiarissime, quasi invisibili.
Un naso adunco e labbra screpolate.
«buongiorno»
Disse Kansee accennando un flebile sorriso.
«già da un pezzo, a dire il vero» disse suo padre con la sua solita voce fredda lanciando uno sguardo al suo orologio da polso. Come se Kansee fosse stupida e non avesse visto già da sé l'orario.
Quest'uomo era sempre stato la sua sfida personale. La goccia che avrebbe potuto far traboccare il suo vaso.
Ogni sua frase sembrava una sfida, anche un semplice "buongiorno " riusciva a diventare un pretesto per litigare.
"l'hai detto con timore", "l'hai detto troppo piano", "non ti ho insegnato a salutare così le persone, non con questa attitudine ".
Un maniaco dei dettagli, un vero e proprio "ammazza pazienza".
A dir la verità anche lei aveva una certa ossessione per i dettagli, ma non li avrebbe mai utilizzati per nuocere a qualcuno.
«dov'eri finita tesoro? — chiese Anna girando i pezzetti di carne che avevano ottenuto gradualmente una tonalità più scura e appetitosa — sono entrata in camera vostra e ho trovato soltanto Noah»
domandò con uno sguardò dolce, un sorriso stanco ma pieno d'amore.
«ho fatto colazione da Gerry, mamma»
diedi le diedi un bacio su una guancia e le sorrisi.
«che bel profumino eh? — volevo comportarmi da bambina solo per farle accennare una risata, adoravo quel suono. Accinsi a prendere uno dei pezzettini di carne con una forchetta — mhh vediamo cosa abbiamo qui»
«ah ah! giù le mani ragazzaccia!»
Anne le schiaffeggiò giocosamente le mani con le sue.
Ecco quell'accenno di risata.
Gli occhi luminosi e una fossetta sulla guancia destra.
Per Kansee sua madre era la più bella. Incarnava la bellezza degli anni settanta. Una bellezza sfiorita, però.
Aveva i capelli ancora castano scuro e gli occhi blu come quelli della figlia.
Lasciai lì i miei genitori. Salutando solo mia madre.
Salii in camera mia e di Noah.
Avevamo sempre diviso la camera anche se di stanze vuote ce n'erano altre due.
Stavamo bene insieme, non cercavamo più di ucciderci a colpi di giocattoli, come quando io avevo cinque anni e lui sette.
Lo trovò seduto alla scrivania. La luce fredda della lampada sparata verso i suoi appunti.
I capelli viola appoggiati disordinatamente sulla sua fronte.
Stava ancora studiando.
Studiava da circa due settimane per l'esame che avrebbe dovuto affrontare, l'ultimo esame del liceo.
Lo si vedeva di rado in cucina, era come un fantasma. Nel loro bagno passava solo dieci minuti al giorno, dieci precisi. Poi mangiava mentre studiava e alcune briciole cadevano sui libri.
«ecco la tua colazione»
Il ragazzo sembrò svegliarsi da un momento all'altro sgranando gli occhi. Scattò verso la sua direzione e prese il pacchetto che poco prima Kansee teneva tra le sue mani.
«oh mi- finalmente. Ce ne hai messo di tempo. Vuoi farmi morire di fame?»
esclamò il ragazzo con un gridolino. Addentò il donut e fece un espressione compiaciuta emettendo suoni simili a gemiti.
«dio santo– questi suoni sono ughh — fece una smorfia — esiste una cucina in questa casa,ne sei al corrente?»
Un'espressione tra il disgusto e lo sconcerto sostava sul viso di Kansee.
Poi però abbozzò un sorriso.
«non entrerò mai più in quella stanza»
Kansee lesse un velo di timore nei suoi occhi.
La ragazza annuì capendo al volo mentre Noah si lasciava cadere sulla sedia ricominciando a scrivere di nuovo.
Mi sdraiai sul mio letto. Appoggiai le mani sul petto e cercai di spegnere la mente.
«poi fatti una doccia, okay? E bevi tanta acqua»
Si stava trascurando troppo, era evidente. Non sarei riuscita a vederlo ancora in queste condizioni.
Sull'orlo di impazzire.
"voti alti, voti massimi" diceva loro padre pretendendo quei voti.
Sempre il meglio dal suo primogenito.
«sembri una mamma» ridacchiò mio fratello.
«Landon ne sarebbe contento»
Risi osservando la sua espressione sconcertata.
«Landon deve ammanettarsi ad un tram e rimanerci, se non vuole che lo uccido prima io»
Noah si rigirò verso i libri addentando con ferocia il donut, finendolo.
La sorella ridacchiò, si girò di lato e il suo sguardo cadde sul comodino del fratello.
Antidepressivi.
Kansee sgranò gli occhi non emettendo nessun suono. Non ne era al corrente. Suo fratello non glielo aveva detto. Ma non era questa la cosa che la faceva stare male, probabilmente non l'aveva fatto per non farla preoccupare.
Suo fratello stava male.
Le sembrò strano in un primo
momento. Da fuori non sembrava che suo fratello soffrisse così tanto.
Si rigirò nel letto verso il fratello, cercando di non tremare. Guardò la schiena di Noah alzarsi ed abbassarsi rapidamente.
«Noah»
Lo vide grattarsi sotto la nuca un paio di volte prima di vederlo scattare in piedi.
Poi anche lei sentì quel solito grido soffocato, quel solito grido di paura che faceva sempre scattare in piedi Noah e correre giù in cucina.
Io ci avevo ormai perso le speranze. Speravo solo finisse il più in fretta possibile. Chiusi gli occhi.
Noah era corso al piano di sotto. Indossava solo una maglietta e dei bermuda.
Troppa pelle scoperta. Troppa.
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