Parte 2
Erano circa tre ore che i due amici non distoglievano gli occhi dal libro di fisica e questo, pensava Han, i suoi frutti stava iniziando a darli: le formule che di solito interpretava come aramaico ora stavano iniziando ad acquisire un briciolo di senso; forse erano questi i vantaggi dello studiare in compagnia, a priori se quella compagnia era rappresentata da un secchione patentato come Luke.
Ma tre ore di studio "matto e disperatissimo", con tutta la buona volontà, erano pur sempre tali. Così i due si erano concessi una pausa, decisi a non azionare il cervello almeno per un po'.
Chiunque fosse entrato nella stanza in quel momento si sarebbe ritrovato immerso in una sensazione di vitalità simile a quella del celebre quadro di Dalí "La persistenza della memoria".
Han era spaparanzato a pancia all'aria sul suo letto, il libro aperto sulla faccia – chissà se così ne avrebbe meglio colto l'"essenza scientifica". Luke, invece, era seduto scompostamente sulla sedia davanti alla scrivania, il busto rivolto di lato: tamburellava distrattamente la punta della matita sul ripiano, provocando un rumore simile a quello delle lancette di un orologio.
All'improvviso, uno struscio sordo prese a tormentare la porta semiaperta. Fece poi capolino una zampa, seguita da un muso canino, finché tutto il corpo di cane non riuscì ad intrufolarsi nella camera.
Ma quello che il suo esausto padrone sentì fu solo un ticchettio di unghie che si avvicinava sempre di più e, subito dopo, trentacinque chili circa di morbido pelo bruno, lungo e lucido che gli erano praticamente saltati addosso.
Il muso del bestione riuscì ad intrufolarsi sotto il libro e a leccare il viso di Han, che se ne uscì con un verso soffocato. «Chewbe... Vai via... Fai il bravo...»
Il cane rispose con un debole uggiolio, come se volesse disperatamente essere preso in considerazione, ma non demorse; ribaltò con il muso il libro che copriva il volto del suo padrone. Alla fine, però, vedendo che questo non cambiò nulla, balzò giù dal letto. Si fermò a guardare Luke per un istante, poi, demoralizzato, tolse il disturbo.
Fu allora che il biondino spostò gli occhi sulla parete, a cui vide stare appesa una chitarra elettrica dai toni argentati solcata da un'elegante fiammata nera. Buffo. Come aveva fatto a non notarla prima?
«Non dirmi che è la tua!»
Han sollevò pigramente lo sguardo e, d'improvviso, sembrò essere tornato a vivere. Dentro di sé, gongolava come un matto solo al ricordo della faccia di quel marpione di Lando Calrissian quando aveva capito che, persa la scommessa ingaggiata con Solo, avrebbe dovuto cedergli la chitarra.
«Quella? La Millennium Falcon, puoi scommetterci il fondoschiena che è la mia!»
«Ti dispiacerebbe se ti chiedessi di suonare qualcosa?» gli domandò Luke.
L'amico si sollevò, lisciandosi i folti capelli castani con un unico rapido gesto della mano. «Perché dovrei? Sarà un vero piacere!»
Si alzò, euforico come un bambino, e si avvicinò alla parete in questione. «Guarda un maestro all'opera, Skywalker–» affermò, mentre liberava la chitarra dai ganci che la reggevano al muro.
Recuperò il suo amplificatore, poi tornò a sedersi sul letto ed imbracciò lo strumento, assicurandosi che fosse accordato a dovere.
«–E impara.»
Luke sorrise e prese posto accanto lui, che, intanto, si stava occupando di mettere in comunicazione la chitarra con l'amplificatore per mezzo del cavo jack.
La distanza ravvicinata con lo strumento ne metteva in evidenza diversi acciacchi, da graffi più o meno profondi e lievi ammaccature sul corpo verniciato di quel bel grigio metallico alle corde ossidate dall'uso continuo.
Eppure il suono era tutt'altra storia.
Han aveva la musica nel sangue, niente da dire, ma c'era come un'aura di luce ad avvolgerlo in quel momento: la naturalezza nei movimenti rapidissimi delle sue dita sulle corde, all'altezza del manico, il volto acceso dall'ardore e dall'adrenalina, i capelli che inevitabilmente gli finivano davanti al viso e gli conferivano un'aria selvaggia...
Il tutto sembrava parte di un quadro superbamente dipinto, dove persino ogni imperfezione, nella propria fortuità, contribuiva a rendere il soggetto unico, originale e... Beh, Luke non aveva parole per descriverlo in quel momento se non... Bellissimo.
Aspetta un secondo... "Bellissimo"?!
«Qualcosa mi dice che muori dalla voglia di provarla, eh amico?»
Preso com'era dal suo ultimo stravagante pensiero, Luke ci mise qualche secondo prima di accorgersi che Han aveva smesso di suonare e che adesso stava parlando con lui.
«Ch-Che cosa te lo fa credere?» balbettò, stordito.
«Non so. È che quei tuoi occhietti blu mi sembrano più brillanti del solito...»
Luke accennò un sorriso timido e chinò il capo, scuotendolo nervosamente, ma benedicendo mentalmente l'amico per aver travisato la scintilla nei suoi occhi. In ogni caso, no, non se la sentiva proprio di essere investito di un onore simile – e magari di assicurarsi una figuraccia.
«Dai, prendi!» insistette l'altro, facendo per porgergli la chitarra.
«Stai scherzando? Sono un imbranato di prima categoria! E se la facessi cadere e si ammaccasse? O si rompesse?»
«In tal caso, non posso prometterti che la tua testa non farà la stessa fine...»
All'espressione inebetita di Luke, Han scoppiò a ridere fragorosamente. «Andiamo, amico, stavo scherzando! Prendila! Sul serio!»
«Non so suonare...»
«Che problema c'è? Ti insegno io.»
Se, con queste parole, Han pensava di aver dato all'amico il colpo di grazia, ciò non accadde in senso positivo. Luke, infatti, si era irrigidito come un pezzo di legno.
«D'accordo...» acconsentì alla fine, quasi sussurrando.
Soddisfatto, Han gli porse lo strumento e si affiancò a lui sedendosi dalla parte del manico. E mentre il maggiore pensava soddisfatto a quanti progressi avesse fatto in quei mesi – dal non rivolgere la parola ad anima viva al permettere a qualcun altro oltre se stesso di toccare la sua amata chitarra –, Luke perse un battito nel sentire la pelle del proprio collo riscaldata dal fiato dell'amico. Tremiti freddi gli pervasero il corpo e il suo respiro si fece corto per un motivo a cui non sapeva dare nome.
«Prova con un Mi maggiore, per iniziare» propose Han. «È facilissimo... Metti un dito qui... Ecco. Questo, invece, qui sul secondo tasto... No, non così... Sulla quinta corda, non sulla terza... E quest'altro di qua...»
Ma le dita di Luke, d'improvviso fredde e sudate, tremavano come foglie secche al vento di novembre e, se non ci fossero state quelle di Han a guidarle, probabilmente gli sarebbero scivolate sulle corde come burro.
Non si era mai sentito così a disagio come in quel momento in presenza di Han, da che lo conosceva – e ciò non poteva essere attribuito meramente ad un momento di deficit mentale. Nel giro di una frazione di secondo, si era insinuato qualcosa di diverso nell'aria. Solo che non capiva cosa.
«Stai bene, amico? Sei più teso di una di queste corde.»
«Ah, sì... Sto benone...» mentì Luke, con voce fievole.
Han annuì, anche se ancora poco convinto: aveva imparato a capire bene i limiti dell'amico, ma anche a rispettarli – per quanto gli fosse possibile.
«Comunque ci sei. Devi solo schiacciare bene le dita sul manico. Prova adesso.»
Stavolta la tensione di Luke sfociò in altro modo e si ritrovò a premere le dita talmente forte che divennero bianche. Poi le unghie dell'altra mano scorsero di getto sulle corde, producendo quel suono tipicamente sporco ma brillante, seppur violento – forse anche troppo.
«Piano, piccolo» lo ammonì Han, con un sorriso. «È una chitarra, mica un pezzo di ferraglia.»
Luke si immobilizzò di nuovo, socchiudendo le labbra. "Piccolo"? L'aveva davvero chiamato "piccolo"? Il fatto di avere solo tre anni in meno di Han gli rendeva l'ascolto di quella nuova parola totalmente fuori luogo. Eppure, non ebbe il coraggio di contestare... Gli piaceva il modo in cui quelle tre sillabe erano uscite dalla bocca del maggiore.
Si volse a guardarlo, ma se ne pentì l'istante dopo...
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