-In principio-
Il corpo della donna era riverso sullo spesso strato di coltri ingiallite del vecchio materasso. Le sue dita affusolate si allungavano a stringere i lembi di lenzuolo fin quasi a strapparli. Il suo volto, imperlato di sudore, era illuminato dalla vecchia e polverosa lampada ad olio, posta accanto all'ingresso. Nel silenzio della stanza, gli unici suoni percepibili erano i suoi gemiti rochi e disperati e il suo ansimare affannoso, scaturiti dal tentativo di dare alla luce la creatura che cercava in tutti i modi di uscire dal suo grembo. Il suo corpo non smetteva di tremare. Era consapevole che, molto probabilmente, non sarebbe sopravvissuta. Sapeva che, come sua madre e sua nonna prima di lei, quella corporatura esile e la salute cagionevole, avrebbero determinato la sua rovina. Eppure, Meredith O'Brennen non temeva la morte. L'avrebbe accolta a braccia aperte, se fosse prima riuscita a dare alla luce il suo bambino. Era diventato il suo unico scopo, negli ultimi otto mesi.
Una fitta lancinante le trafisse il basso ventre, inducendola a digrignare i denti dal dolore. Cercò di trattenere il grido che le era salito in gola, ma con scarsi risultati. Tuttavia, il suono che produsse fu poco più potente di un sussurro strozzato. Nessuno lo avrebbe sentito. Ma in fondo, a chi sarebbe importato se l'avessero sentita urlare? Non sarebbero corsi ad aiutarla. Non contava più niente per quella gente.
Era completamente nuda, la stoffa del lenzuolo nascondeva solo la parte relativa al bacino. Stava andando a fuoco. Il cuore le martellava talmente rapido nel petto che temeva le avrebbe sfondato lo sterno.
«Ti prego...» implorò a denti stretti, «ti prego, vieni fuori!»
Un'ulteriore fitta la colpì, facendola piegare in due dal dolore. Stille di lacrime spuntarono nei suoi occhi verdi.
Stava arrivando. Lo sentiva.
A quel punto, quasi senza che se ne rendesse conto, le lacrime le scivolarono lungo le guance, rigandole la pelle diafana.
Prese un profondo respiro, preparandosi psicologicamente.
Rovesciò la testa indietro.
Uno.
Cominciò a spingere lentamente, facendo leva sulle braccia per creare un appoggio. Il grido le rimase incastrato in gola.
Due.
La contrazione la colpì con tale intensità da toglierle il fiato. Tuttavia, continuò a spingere, e ad ogni spinta percepiva il peso del piccolo spostarsi sempre più in basso. C'era quasi.
Tre.
Con un ultimo, terribile grido, diede le ultime spinte. Tra le lacrime, scorse la testa del neonato, coperta di sangue e liquido amniotico. Con le braccia tremanti la afferrò, cominciando a tirar fuori il corpicino del piccolo che riuscì ad espellere con un ultimo grido. Mentre lo appoggiava sulla stoffa ingiallita del lenzuolo udì il primo vagito. Sorrise, sospirando di sollievo. Quel sorriso, però, non era dovuto solo alla gioia di sapere suo figlio in salvo. Era il sorriso di chi sapeva che, di lì a pochi istanti, avrebbe abbandonato la vita. Era un sorriso colmo d'amarezza. Percepiva la morte avvicinarsi ogni secondo che trascorreva. La percepiva in ogni parte del suo essere. Era consapevole di tutto. Eppure era felice. Ce l'aveva fatta. Il suo bambino era nato.
Lo avvolse dolcemente nel lenzuolo, pulendogli il viso dal sangue, mentre il piccolo gemeva e piangeva. I suoi lamenti producevano davvero il suono più bello del mondo. Se lo portò al petto e cominciò a cullarlo delicatamente, accostandogli la bocca al capezzolo e attendendo che si nutrisse. Quando lo sentì mordicchiare sorrise di nuovo.
«Piccolo mio»ansimò, deglutendo con fatica. Si sentiva ma gola arida, come un deserto mai toccato dalla pioggia.
Lo accarezzò mentre il neonato continuava a succhiare e si chinò, gemendo, a baciarlo sulla fronte. «Benvenuto in questa vita maledetta.»
Fu allora, quando suo figlio, piangendo, le restituì lo sguardo, che Meredith si accorse di un particolare: il colore dei suoi occhi. Il colore dell'ametista, lo stesso colore degli occhi di sua madre. Una lacrima bagnò il volto del neonato, che si guardava intorno con occhi curiosi, cercando di trovare un appiglio in quella nuova vita che non conosceva.
Delicatamente, sollevò la piccola creatura, sbirciando tra le gambe paffute. Era una femmina. Gli occhi di Meredith si illuminarono, colmandosi di lacrime di rassegnazione: non avrebbe accompagnato quella bimba nella sua crescita, non sarebbe riuscita a proteggerla dai mali di quel mondo malvagio, non avrebbe dispensato i consigli propri di una madre.
Quella consapevolezza, così crudele e terribilmente concreta, le diede il colpo di grazia.
«Hai vinto questa battaglia, Amethyst...» sussurrò, trattenendo il dolore nel petto, «sono così fiera.»
All'improvviso accadde: uno spasimo, un tremore, una vibrazione che ebbe origine dal suo basso ventre, ancora, e che risalì violentemente lungo l'addome. Senza rendersene conto, Meredith allungò un braccio tra le sue gambe, impregnando due dita del sangue viscoso steso lungo il lenzuolo; poi lo rialzò, lentamente, per tracciare sulla parete accanto, con un tremolio quasi spasmodico, la parola Amethyst.
E poi, repentino così com'era giunto, quel tremore cessò e la sua mano ricadde sul lenzuolo, con un colpo secco. La testa scivolò di lato, gli occhi si bloccarono in un punto fisso. E mentre il pianto di Amethyst riempiva la stanza, il sole nasceva oltre le colline e l'alba, l'alba di un nuovo giorno, apriva le finestre sul mondo.
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