.17 - L'uomo e la bambina
Erano passate un paio d'ore da quando si erano messi in marcia e il silenzio regnava sovrano, sia tra i due ragazzi, che per il resto della Merkal. Il sole a picco aveva fatto stancare quasi subito il cavallo e, nonostante il suolo fosse diventato terriccio e non più mattonelle bordate, l'animale aveva smesso di cavalcare e aveva optato per un trotto leggero. La giornata era afosa, nonostante Marzo fosse ancora all'orizzonte, e non c'era traccia di una nuvola, che fosse solo per portare un po' di ombra o una veloce pioggia passeggera. Qualche uccello si lasciava trasportare, pigro, dalle sporadiche correnti d'aria e, la maggior parte di essi, rimaneva appollaiata sugli alberi a Nord, o a Sud della linea.
La sella leggermente stretta che Marisa aveva piazzato sulla schiena dello stallone faceva scontrare, ritmicamente, il bacino di Arlo contro quello di Maximilian. Nonostante all'ex Theufel quel dondolare avanti ed indietro non dispiacesse affatto, la cosa era diventata abbastanza imbarazzante, contando anche il fatto che nessuno dei due proferiva parola da quando si erano messi in marcia. Arlo, infatti, non lo sfiorava nemmeno di striscio e, piuttosto che aggrapparsi da qualche parte per evitare una postura instabile, era rimasto, per quasi tutto il viaggio, con la schiena rigida e le mani dietro la schiena. Sembrava quasi che Maximilian gli repellesse, come se solo avesse appoggiato le mani su di lui, si sarebbe imbrattato dalla testa ai piedi.
Lungo il tragitto, fino a quel momento, i due avevano incontrato solamente una piccola carrozza e qualche persona a piedi, ma nessun altro degno di nota. Qualsiasi passante, a differenza dei due disperati a bordo di un cavallo che faticava a reggerli entrambi, portava abiti blu, come quelli che Nives aveva sfoggiato quando si era presentata a salvare la pellaccia di Maximilian. Nonostante Arlo non li vedesse, ogni volta che gli sfilavano accanto, era come se fosse consapevole di essere un clandestino in piena regola, irrigidendosi e talvolta anche sbuffando. A Maximilian non importava più di tanto del suo vestiario, e finché avesse ancora portato i suoi colori, poco gli sarebbe interessato di chi era vestito in modo diverso dal suo.
Ogni manciata di chilometro, o quando la pendenza della strada lo richiedeva, dalle alte mura della linea spuntavano delle bandiere, ricamate con il sigillo del continente: una corona e una manciata di denti di qualche animale, spessi quanto una mano e posizionati in un cerchio perfetto. I segnali, anche se alquanto sporadici, indicavano la presenza di una taverna e un luogo in cui i viandanti si sarebbero potuti riposare, rifocillarsi e, se lo avessero voluto, anche passare la notte. Da quanto Maximilian aveva capito, mano a mano che ci si allontanava dal centro della Merkal, e quindi dal grande portone in legno massello d'entrata, gli unici incontri sarebbero stati con Brylast più anziani, con mansioni diverse dalle loro e con più esperienza in campi, a lui, ancora del tutto sconosciuti.
Nonostante non si fossero ancora fermati, avrebbero di certo dovuto trovare un posto per la notte, dato che, di certo, non sarebbero arrivati da Madama Theodora prima di due giorni.
Dopo aver percorso un tratto in salita, Maximilian iniziò a sentirsi strano, come se non riuscisse più a rimanere vigile, e la strada iniziò a sembrargli scioglierglisi sotto gli occhi, come un pezzo di ghiaccio lasciato al sole. Il caldo iniziò a farsi insopportabile e il respiro corto gli prosciugò la saliva in gola. Senza rendersene conto, fermò il cavallo e smontò. Il suono dei tacchi dei suoi stivali contro la terra battuta gli arrivò dritto alle orecchie e lo fece barcollare, come se qualcuno gli avesse appena rifilato un colpo in testa. Ignorando completamente le lamentele di Arlo, ritrovatosi da solo e senza spiegazioni in cima all'animale, fece qualche passo in avanti, tenendosi le tempie con i palmi delle mani e scorgendo qualcosa, o meglio qualcuno, in lontananza venire verso di lui.
Una bambina dai lunghi capelli neri, tenuta stretta per un braccio, era trascinata in avanti con la forza da un uomo.
Quando i due furono più vicini, Maximilian si rese subito conto di chi si trattasse.
Alexandra aveva le lacrime agli occhi e portava una corta camicia da notte color del miele che le arrivava giusto alle ginocchia. L'uomo alla sua destra, che si era fermato proprio davanti a lui e lo stava fissando a pochi centimetri dal suo naso, non aveva nulla di particolarmente riconoscibile. L'aspetto divertito e soddisfatto si nascondeva sotto a un volto rovinato dal sole e una barba incolta. Aveva le braccia scoperte tatuate con rune antiche e disegni di animali e portava un noccoliere sulla sinistra, probabilmente perché mancino. Si rivolgeva alla bambina con tono burbero spronandola a stare zitta, mentre fissava prepotentemente Maximilian e se ne prendeva gioco.
«Forza, uccidilo!» gli aveva già ripetuto tre volte. Stringeva la presa su Alexandra come se fosse di sua proprietà e mostrava dei denti marci fino alla radice. Guardava Arlo, appena sceso dal cavallo, con uno sguardo carico d'odio e violenza. «Uccidi il cavaliere di Even. Uccidilo e raggiungimi all'arcipelago»
Maximilian non aveva riconosciuto la persona che aveva davanti, ma qualcosa in lui gli stava dicendo di averlo già incontrato. Il battito ritmico del suo cuore e il modo in cui la bambina lo stava fissando sembravano volergli ricordare qualcosa. Forse se lo era dimenticato, forse stava impazzendo, forse stava sognando, ma qualcosa in tutto ciò che aveva davanti agli occhi aveva parso a sembrargli dannatamente familiare. I tatuaggi, il noccoliere, la barba unta di quell'uomo erano frammenti di qualcosa che aveva vissuto, ma che doveva aver seppellito da qualche parte.
«Uccidilo Ilyan» ripetè nuovamente, nascondendo la sua mano dentro la cintura ed estraendone quello che aveva l'aria di essere un vecchio pugnale ormai consunto. «Impugna la fiamma di Vanthor e incontrami alla laguna»
I rumori del pomeriggio inoltrato che Maximilian si era lasciato alle spalle erano ormai scomparsi, lasciando il posto ad un vuoto assoluto in cui c'erano solamente lui, Alexandra, e quell'uomo dalle sembianze affini ad un ricordo sbiadito. «Lascia andare la bambina» disse, con un tono di voce talmente roco da non riconoscerlo e afferrando in mano il pugnale che l'uomo gli aveva offerto. «Toglile le mani di dosso»
L'uomo si mise a ridere e strattonò la presa su Alexandra. Le nocche delle sue dita sporche di sangue scivolavano tra il noccoliere e gli anelli come anguille in un secchio. «Le ancelle hanno fatto un buon lavoro su di te» continuò, iniziando a girargli intorno come per squadrarlo meglio. «Sei riuscito ha ingannarmi per tutto questo tempo. Tua madre, la grande giocoliera delle carte del destino, l'ha avuta vinta fino ad ora, ma le cose stanno per cambiare»
Maximilian strizzò gli occhi e cercò di liberarsi della nebbia che gli oscurava la vista. Il pugnale che aveva in mano iniziava a pesare come se fosse fatto di marmo e lo stava pregando di essere usato, anche se contro chi non era ancora certo. «Chiunque tu sia e qualsiasi cosa tu voglia, lascia andare la ragazzina» ripetè, carico di una avversione sempre crescente. «Non hai bisogno di lei»
L'uomo, tirandosi appresso Alexandra, fu accanto ad Arlo. «Hai ragione, avevo bisogno di entrambi» disse, passando una mano sul manto del cavallo e osservando gli occhi senza luce del ragazzo. «Mi chiedevo se davvero non ti ricordassi nulla e ora che ti ho qui sotto il mio sguardo, mi devo ricredere. Le ancelle ti hanno davvero tolto ogni traccia del passato»
Maximilian abbassò lo sguardo sul pugnale. Il manico era in legno, foderato con spessa pelle ormai consumata dal tempo, e sembrava come se fosse passato nelle mani di molti prima di arrivare nelle sue. La lama non era d'acciaio: sembrava il dente di un animale, forse uno vissuto su Icarys durante la venuta degli antichi dei. La punta era d'orata e il resto del colore dell'avorio. C'erano incise delle iniziali con fuoco: le lettere E.A., ormai quasi sbiadite. Dall'arma penzolava una catenella d'argento che terminava in un lungo ciondolo a forma di stella.
«Non ho idea di chi tu sia» replicò Maximilian, osservando come Alexandra avesse smesso di lamentarsi e avesse iniziato a provare una curiosità sempre più crescente verso Arlo, che sembrava totalmente ignaro di ciò che stava succedendo. «Non ho idea di chi sia il cavaliere di Even o dove sia la laguna di cui parli»
«Ce l'hai sotto gli occhi» intervenne subito la bambina, indossando anche lei uno sguardo carico d'odio e rancore, lo stesso che le aveva visto indossare durante il loro primo incontro. Indicava Arlo con un dito storto e sembrava sul punto di prendere il pugnale e ucciderlo lei stessa. «Non puoi permettere che i Phineria profanino di nuovo il suo nome»
L'uomo, come se improvvisamente si fidasse di Alexandra, le lasciò andare il braccio. «Hai passato fin troppo tempo lontano da casa, la tua vera casa» continuò, passandosi una mano sui tatuaggi e dandogli vita ad uno ad uno. «Una volta che avrai entrambi i medaglioni, liberati del cavaliere e raggiungimi alla laguna»
Maximilian si tirò indietro. Le mani gli formicolavano come se stessero per scoppiare o, peggio, prendere fuoco. «Non farò nulla di ciò che mi chiedi» disse, osservando un serpente muoversi sinuoso sull'avambraccio dell'uomo e cercare di venire verso di lui. «E tantomeno ucciderò qualcuno per te»
«Prima o poi cambierai idea. Ora che ti ho ritrovato non ti lascerò andare di nuovo» replicò questo, avvicinandosi pericolosamente al ragazzo ed afferrandolo per una spalla. Il serpente sulla pelle dell'uomo era scivolato sulla sua, infilandogli i denti nella carne rosea. «Intanto Salanghe ti mostrerà la verità. Che tu lo voglia o meno, ti avrò prima dell'arrivo dell'estate. Nessuno potrà impedire ciò che sta per venire, nemmeno le ancelle»
Un brivido percorse la schiena del ragazzo e sembrò come se qualcuno gli avesse instillato una coscienza, dei ricordi e una vita che non fossero i propri, all'interno della sua mente. Maximilian barcollò un attimo e vide l'uomo compiacersi. «Fai come ti dico e uccidilo» disse solamente, riprendendo per il braccio Alexandra e allontanandosi dalla parte opposta alla quale era venuto. «Liberati del cavaliere di Even e torna da me, da noi»
Maximilian li osservò per un attimo mentre si allontanavano a lui, come se nulla fosse stato.
Il silenzio ovattato che li aveva avvolti fino a quel momento iniziò lentamente a diradarsi.
Le orecchie fischiavano come un treno in corsa.
Le ancelle.
Il cavaliere di Even.
E.A.
La laguna.
Maximilian si sentiva pesante, stanco, affranto. A dire la verità, iniziava a non sapere più che pesci pigliare.
Qualcuno gli si avvicinò senza avvertirlo e gli toccò un gomito per richiamare la sua attenzione. «Maximilian?»
Come una molla, e senza rendersene conto, scattò. In un batter d'occhio gli fu addosso e puntò il pugnale alla gola di Arlo, pronto a spingersi in avanti qualche millimetro in più per lacerare le sue carni di porcellana. Il respiro agitato di Maximilian si mischiava con quello dell'altro ragazzo, ritrovatosi stretto contro al parapetto della Merkal senza potersi muovere. Se si fossero spostati anche solo di poco, uno dei due sarebbe potuto ruzzolare di sotto e morire nel giro di qualche secondo.
«Un coltello?» domandò retorico Arlo che, con tutta la tranquillità del mondo, fissava a vuoto Maximilian da sotto le palpebre e aspettava, senza alcuna fretta, una risposta plausibile al suo comportamento. «Ci stai provando con me?»
Maximilian scosse la testa per liberarsi dalle invisibili tenaglie che lo tenevano stretto. «Sei tu il cavaliere di Even?» domandò, stringendo i denti e combattendo contro il desiderio di fare cadere entrambi dalla Merkal. Quell'uomo aveva giocato con la sua testa come si fa con un semplice mazzo di carte. «Chi cazzo è Vanthor?»
Arlo non sembrò confuso. Iniziò a far scorrere le mani sul corpo di Maximilian alla ricerca dell'impugnatura della lama con cui lo stava minacciando a morte. Quando la trovò, strinse le dita sull'elsa e rimase immobile. «Non sono io il cavaliere di Even» rispose solamente, macchiando la sua sicurezza con un leggero tremolio nel tono di voce.
Maximilian si spinse in avanti di poco. Le sue ginocchia premevano contro quelle magre di Arlo. «Allora chi è?» domandò di nuovo, cercando di tenere a bada la frustrazione e, allo stesso tempo, evitando di spargere del sangue innocente. «Rispondimi o di taglio la tua fottuta gola da nobile!»
In tutta risposta Arlo tolse la presa dal pugnale e spinse la pelle del collo contro la lama. Un rivolo di sangue scese a macchiargli il colletto della camicia bianca. Sembrava quasi che desiderasse davvero morire e la rassegnazione era ben chiara nei suoi lineamenti gentili. «É mio fratello» rispose infine, facendo scorrere le braccia lungo il corpo.
Maximilian non demorse, o forse la scena che aveva davanti sembrava avergli smosso un desiderio interiore di qualcosa di ancora troppo poco chiaro per essere compreso. C'era, infatti, dentro di lui la traccia di una manciata di brandelli di ricordi che si stavano muovendo come una tempesta. Faticava a trovare dei punti fissi a cui aggrapparsi per non perdere la lucidità ma, per certo, non avrebbe voluto uccidere nessuno, tantomeno il ragazzo davanti a sé. «E dov'è tuo fratello adesso?» chiese, stringendo i denti e cacciando indietro qualsiasi cosa. «Dove si trova?»
Arlo sospirò cupo e ingoiò il groppo in gola che gli si era formato. «É morto» rispose, secco. «Per mano di Vanthor»
Parve non afferrare. «É morto?»
Arlo annuì. «Due anni fa»
Maximilian, come scottato da quelle parole, lasciò cadere la lama a terra ed indietreggiò, lasciando spazio ad Arlo. «Lui ha detto che per tornare a casa devo uccidere il cavaliere...» provò, cercando di spiegare ciò che aveva visto e sentito. «La laguna. Ci sono due donne, loro hanno...»
Il cielo iniziò a farsi cupo e qualche goccia di pioggia iniziò a cadere.
Un vento forte aveva preso a spirare e le bandiere del continente svolazzavano come impazzite.
«Stupido scemo farneticante» proruppe qualcuno, la cui voce non apparteneva affatto all'altro ragazzo con cui Maximilian si era messo in viaggio.
Maximilian non ebbe il tempo di voltarsi che un'ombra gli piombò addosso con una velocità disarmante.
«Alla tua età dai ancora retta alle favole?»
Un dolore lancinante gli colpì le tempie e, prima che potesse svenire, si rese conto che, questa volta, qualcuno gli aveva dato, per davvero, una bella botta in testa.
Un nero infinito gli calò sugli occhi.
Si ritrovò steso a terra.
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