Prologo: i corvi stan zitti, non gracchiano più

Era successo.

Sì, era successo. Ed era stato divertente.

Più ci pensava, più Emmeline sorrideva, deliziata, con gli occhi spiritati.

Se uno dei rari passanti che transitavano frettolosamente per la piazza in direzione di Rue Alistair le avesse rivolto uno sguardo, si sarebbe accorto di una giovane donna dai ricci capelli scuri vestita con troppe, corte e gonfie sottane. Se fosse stato un osservatore abbastanza sveglio, poi, avrebbe scorto il suo sorriso, rivolto verso il grande orologio di vetro e ferro che batteva le ore con le sue complicate lancette sulla facciata della stazione, immerso nella nebbia di smog e vapore della città narcotizzata. Forse avrebbe potuto pensare che quella strana, giovane donna si fosse persa in qualche felice memoria d'amore, invischiata nei fumi dolciastri dei ricordi. Probabilmente nessuno si sarebbe reso conto del sottile filo di bava nera che lentamente scivolava dalle sue labbra color corallo verso il mento.

Era successo.

Era successo ed Emmeline non avrebbe potuto essere più felice.

Avrebbe riso dalla gioia, dall'inebriante ubriachezza del successo. Per una volta aveva vinto lei. Avevano tentato in tutti i modi di averne ragione, ma l'avevano sottovalutata. Sì! Avevano pensato fosse ingenua, una stupida ragazzetta dei bassifondi. Avevano creduto di poterla sfruttare a piacimento, di giocare con lei come se fosse un topo, prima di far scattare la loro trappola. La trappola che le avrebbe rotto il collo, reciso il midollo spinale, staccato la testa di netto.

Emmeline fremette e la gonna del suo abito tintinnò, di monete, ingranaggi e spille da balia. Il suo bel viso da bambola si contrasse in un'espressione mostruosa, le sue labbra si arricciarono mettendo in mostra denti macchiati di nero, mentre una goccia di quel liquido scuro si staccava dalla sua pelle, precipitando sul corpetto immacolato, stretto da lacci di cuoio tinto di rosso.

Iniziò a ridacchiare, mentre la piccola e massiccia lancetta delle ore nel quadrante di vetro lucido e ambrato si spostava lenta e inesorabile verso il numero romano che segnava l'una. Quando lo raggiunse, un gong risuonò per tutta la piazza vuota ed Emmeline alzò le mani, battendole con foga. Ringraziava per quella dimostrazione d'amicizia espressa dal tempo, che le ricordava che era ancora in vita e che presto sarebbe tornata a casa.

A breve sarebbe arrivato il suo treno, poteva quasi udire il rumore sferragliante delle rotaie percosse dalle ruote lanciate a tutta velocità, un lungo velo da sposa accompagnava la locomotiva, che sputava vapore come un vecchio fumatore.

Sarebbe salita sulla sua carrozza preferita e avrebbe chiuso gli occhi. Era stanca, Emmeline: aveva fatto una cosa divertente, ma molto pericolosa, e ora bramava solo il riposo.

Chiuse gli occhi dalle lunghe ciglia blu, la cui sfumatura era come improvvisamente impallidita, rilassando la bocca.

Sì, sì! Finalmente avrebbe potuto riposare. Era come un sogno che diveniva realtà! Le sembravano trascorsi anni, secoli interi, dall'ultima volta in cui aveva trovato pace.

Tutto per causa di quelle persone.

Per causa sua.

Aveva avuto degli occhi porcini, piccoli, neri e luminosi. Occhi di corvo. Le avevano scrutato l'anima dal primo giorno, le avevano fatto male.

Al pensiero di quegli occhi intelligenti, maligni, le sue labbra si incresparono. Oh, le avevano fatto così paura. Aveva protestato, aveva implorato, ma quegli occhi avevano approntato la trappola con cui le avrebbe mozzato la testa.

Emmeline lo sapeva che sarebbe successo! Lui non aveva potuto nasconderle il suo vero scopo. Conosceva troppo bene i corvi, quei luridi uccellacci mandati dal Demonio, che le gracchiavano nelle orecchie quando voleva riposare, perché era tanto stanca Emmeline, stanca da morire, e loro si posavano sul suo davanzale, nella sua minuscola soffitta, e lì gracchiavano, gracchiavano per ore, gracchiavano sempre! Ridevano di lei, proprio come lui aveva fatto! La schernivano perché non capivano la sua arte, perché credevano che fosse sciocca. Sciocca, lei! Non c'era al mondo un'artista del suo calibro! Nessuno sapeva mentire così bene, ingannare lo spettatore, farsi credere freddo corpo di legno e avorio e intanto danzare con la gentilezza e l'eleganza della vita stessa.

Stupidi, ignoranti! Si erano pasciuti della loro crassa arroganza fino a quando l'osso che amavano spolpare con tanto gusto non era andato loro di traverso.

A lui per primo! A lui e ai suoi occhi di corvo, che le avevano scrutato l'anima, l'avevano violentata e avevano creduto di possederla.

A lui, e a tutti gli altri. Oh, lui non era stato solo. I corvi non venivano mai soli, vomitevoli codardi. Si spostavano in stormi, per beccare meglio i cadaveri, per strappare anche gli ultimi brandelli delle anime.

Però, questa volta, lo stormo era stato zittito. 

Non un singolo gracchiare nell'umida aria della sera, nella piazza della stazione. Nella sua testa c'era finalmente la quiete.

"Non si possiede la sabbia. Non si possiede la neve" mormorò tra sé con gli occhi sgranati mentre, dall'altro lato della sua bocca, una goccia di quel fluido torbido come petrolio iniziava la sua lenta discesa. "Non si possiede la nebbia. Non si possiede il vento".

Il treno stava arrivando, il sibilo del vapore e il monotono incedere delle ruote era rotto dal fischio acuto che ne annunciava l'ingresso nella stazione.

Emmeline si alzò, in un fruscio di gonne e tintinnii metallici, barcollò e quasi perse l'equilibrio. Dalla tasca le cadde un fazzoletto picchiettato di macchie nerastre e con esso sfuggì anche la coda di un nastro di raso purpureo. Si chinò a raccogliere la pezzuola sporca, si raddrizzò, prese un ampio respiro e ritrovò la sua solita, granitica fermezza. Con passo più sicuro si diresse verso l'ingresso di ferro battuto della stazione, mentre l'orologio segnava l'una e zero cinque e la coda del suo nastro strisciava sul viscido lastricato.

Il treno era lì, ad attenderla, buono e paziente come una madre. Emmeline salì a bordo e vi prese posto con un sospiro, si raggomitolò in un angolo, su una consunta panca ricoperta di pelle, non accorgendosi o forse proprio ignorando i due rivoletti neri che le sfuggivano dalle labbra, disegnandole una grottesca bocca da marionetta, insozzandole il candido corpetto.

Chiuse gli occhi e lentamente sorrise.

Era successo.

Sì, era successo.

Emmeline sapeva che finalmente avrebbe potuto riposare, perché i corvi non avrebbero più gracchiato alla sua finestra.

Non l'avrebbero disturbata. Mai più. 

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