1: Il Loto d'Oro
Emmeline sapeva di essere in ritardo, ma era davvero troppo stanca per correre. Si limitava a traballare rapidamente sulle magre gambette, in un concerto di tintinnii che risuonava per tutta la via, buia, nebbiosa e impestata di miasmi fognari. Per arrivare prima aveva preso una scorciatoia, ma si era già pentita della scelta: per risparmiare qualche minuto, doveva camminare in mezzo a pozze di fango oleoso, animali morti e spazzatura, alzando il lungo vestito grigio ben più sopra delle caviglie.
A Parigi quelle stradine disabitate e destituite, buone solo per ospitare malfattori, puttane e altre bestie dei bassifondi, erano divenute la norma, mentre la città cresceva come una massa tumorale nutrita dai proventi delle vittorie coloniali e delle ExVaPo. Emmeline le odiava, anche se non c'era luogo che conoscesse altrettanto bene nella città.
Fece una smorfia quando fu costretta a calpestare la coda ormai mummificata di un ratto e con un aggraziato saltello girò l'angolo. Sorrise leggera, respirando ad ampie boccate per la fatica, quando, in fondo alla strada mal illuminata, vide il retro del locale, segnalato da una lampada a petrolio dai bagliori dorati.
Seduta sugli scalini marezzati, una sorta di gargoyle a guardia della pesante porta di legno, c'era una donna dalle gambe lunghe e dritte come lampioni, avvolte in graziosi nastri rossi che le facevano assomigliare terribilmente a bastoncini di zucchero natalizi. Stava fumando da un lungo cannello provvisto di fornelletto. Emmeline fece una smorfia, riconoscendo la pipa da oppio di Dao.
"Ti fa male" le disse, saltellando sugli scalini al suo fianco. Dao alzò il viso smunto, dove dominavano due occhi sottili come strappi nella carta, parzialmente nascosti da una frangia nera tagliata a mano. Aprì la bocca in un sorriso e denti giallognoli a causa della droga brillarono alla luce della lanterna.
"Sei in ritardo" le rispose, nel suo francese imbastardito. Emmeline rovesciò le braccia sui fianchi, ma al posto di rispondere a tono le fece una linguaccia e arricciò il naso come un gatto quando Dao le soffiò addosso il fumo d'oppio.
La risata disincarnata della donna la seguì mentre Emmeline apriva la porta di uno spiraglio e si infilava al suo interno.
Entrare al Loto d'Oro, dicevano gli uomini più sguaiati dopo una dose sufficiente di alcol, era come accomodarsi tra le cosce di un'accogliente sgualdrina, ma Emmeline aveva imparato a considerarlo come un grembo materno. Si veniva avvolti da un calore umano, animale, che si faceva ancora più greve e opprimente per via della sempiterna penombra nebbiosa e rossastra in cui il locale era sprofondato, una pesante conchiglia in una scatola d'ovatta, e dall'intenso profumo che permeava ogni cosa, che si impastava ai trucchi di scena, che si legava ad ogni fibra delle stoffe. Inalandolo, perdendosi nelle sue note di loto, ambra e saso, mescolate all'acre fumo di tabacco e alla più dolce sfumatura dell'incenso, Emmeline provava nostalgia per un antico e misterioso regno d'Oriente in cui non aveva mai messo piede.
Erano passati quasi dieci anni dal momento in cui aveva varcato la soglia per la prima volta e il suo sangue era ormai saturo delle segrete sostanze che Madame Tremblay riusciva a procurarsi, assieme all'oppio, attraverso le sue molte conoscenze dell'ExVaPo.
Respirò a fondo, come faceva ogni sera, e sentì che la tensione alle spalle svaniva, che l'oppressione nella testa, il suo pensiero intrusivo, il cancro nero e marcescente che divorava la sua volontà, si allontanò, schiacciandosi in un angolo tra i ricordi. Iniziò subito ad avere caldo in quell'aria stagnante e carica di odori, ma sapeva che presto le sarebbe passato. Piuttosto, abbandonò l'entrata e si addentrò nel budello retrostante il salone principale, dove si annidavano le sale private e le camerette in cui attrici, ballerine, artiste e sarte trascorrevano il tempo tra uno spettacolo e l'altro.
A passetti rapidi e nervosi come quelli di un ragno, evitò danzando le porte aperte da cui filtravano luci dorate e amaranto e provenivano risate e chiacchiere in un dialetto tutto particolare, in cui si fondevano le dolci vocali francesi e le lente cadenze ritmiche come rintocchi d'orologio delle lingue dell'Indocina. Sorrise stanca perché non aveva alcuna voglia di intrattenersi con una delle altre ragazze, anche se erano sue amiche. Si avviò invece verso l'ultima porticina del lungo e tortuoso corridoio. L'aprì di nuovo di uno spiraglio e guizzò al suo interno, facendo bene attenzione a non strappare la coda del vestito.
"Finalmente" mormorò Hoa Lan, alzandosi di scatto dalla sedia impagliata e mezza sfondata su cui trascorreva buona parte della sua giornata. Emmeline si voltò, sorrise, poi mise su un'espressione di circostanza, triste al punto giusto per ovviare all'arrabbiatura della giovane donna.
"Perdonami, em yêu" cinguettò, ben sapendo che Hoa Lan non era in grado di mantenere il broncio, quando la chiamava così. "Ho dormito poco e male".
"Ancora?" domandò l'altra, sostenuta, mentre le si avvicinava.
Hoa Lan aveva circa la sua età, anche se era più minuta, esile quanto un salice di pochi mesi e altrettanto agile. Aveva la pelle chiara e luminosa come la luna piena e capelli color inchiostro. Emmeline la osservò come faceva sempre, chiedendosi perché Madame Tremblay non si fosse mai accorta di quanto fosse graziosa, soprattutto fasciata in uno dei suoi morbidi abiti gialli e arancioni, che raccontavano dei tramonti della Cocincina.
L'unica sbavatura in quella perfetta figura di donna era la mano sinistra, amputata a livello del polso e sostituita con un prodigio di lillipuziana meccanica, un'armoniosa composizione di bulloni di ferro e barrette di bronzo. Quella graziosa protesi era collegata a un piccolo ma complesso dispositivo a vapore che la ragazza teneva nascosto sotto i vestiti, in una piccola tasca segreta, ma non poteva mai usarlo per troppo tempo, per il rischio di un surriscaldamento. Lo accendeva solo quando lavorava e per il resto del tempo la manina non era che quella di una bella bambola di latta.
Hoa Lan ripagava l'interessata generosità di Madame Tremblay, che ne aveva permesso l'acquisto, mettendo al di lei servizio i suoi occhi esperti e un naturale talento nell'accostare stoffe e creare manicaretti visivi deliziosi.
Emmeline la osservò con il principio di un sorriso sulle labbra di porcellana, mentre la sua sarta le girava attorno, alla ricerca della serratura per liberarla da quella corazza di trine e merletti.
"Ancora, sì".
"Ancora i corvi?".
"Sempre loro".
Hoa Lan iniziò a lavorare sui minuscoli bottoncini di falsa madreperla, fino a quando il corpetto scivolò floscio sui fianchi di Emmeline.
"Toglitelo" le ordinò, tornando al tavolo di fianco alla sua sedia. Su di esso era posato il vestito preferito della ragazza, l'abito che le era consentito vestire solo quando lavorava. Non aveva nulla dello spirito orientale del locale ed era per questo che piaceva tanto agli avventori. Era come dare un tocco di esotico, ma al contrario.
Hoa Lan lo prese e gli diede un delicato colpetto, per togliere le pieghe dalla gonna. Il corsetto di raso blu catturò le stille di luce della lampada a petrolio, mentre l'ampio tutù romantico, di tulle candido, era parzialmente nascosto da una sopragonna satinata, che si apriva come petali di tulipano. Sarebbe stato un vestito essenziale, abbastanza semplice, se Hoa Lan non avesse ricamato decine di minuscole stelline d'argento, tramutando un semplice satin in un cielo notturno. Rispetto all'ultima volta c'era addirittura qualcosa di nuovo ed Emmeline se ne accorse subito.
"Em yêu! Sono bellissime!" squittì di gioia, notando la catenella composta da graziosi astri in miniatura che la sarta aveva applicato al bordo della sopragonna. Emmeline lo sollevò dal corpetto e lo agitò, deliziata come una bambina dall'argentina risata di quel sonaglio improvvisato.
"Provalo" le ingiunse Hoa Lan, cercando di celare un sorriso. Emmeline ubbidì: si liberò con un calcio del suo abito da giorno. Il vestito tintinnò impazzito mentre lei lo indossava. Hoa Lan recuperò uno specchio sbeccato da dietro la porta e lasciò che la sua modella si specchiasse. Emmeline tornò a pigolare, sovraeccitata. Batté le mani rapidamente, ridacchiando tra sé e sé e nello specchio il suo sorriso si trasformò nell'abbozzo di un ghigno turbato.
Ma non ci fu altro tempo per esaltarsi.
Un grugnito rauco, seguito da un urlo reiterato, anticipò l'entrata in scena di un langur, una piccola scimmia che si muoveva e si lamentava esattamente come facevano i suoi simili nelle foreste del Siam, se non fosse stato per il suo corpo totalmente meccanico. L'automa si sedette davanti alla porta aperta della cameretta e la catenella che aveva al collo tintinnò al ritmo dei lenti passi della sua proprietaria.
Madame Tremblay comparve in tutta la sua incantevole sensualità, in un delicato ondeggiare di vesti dorate e fiori di gemme preziose tra i serici capelli neri ed Emmeline deglutì a fatica. La donna diede uno sguardo a Hoa Lan, dopodiché i suoi occhi, verdi come le foglie dell'osmanto, si fermarono su di lei.
Su Madame Anong, vedova Tremblay, correvano voci e pettegolezzi, ma nessuno sapeva con certezza chi fosse e da dove venisse. Dao e sua sorella Sih erano certe che fosse una figlia bastarda dell'ultimo Rama siamese, avuta con una concubina europea, ma Emmeline aveva la convinzione più o meno istintiva che fosse semplicemente il prodotto di una delle innumerevoli Esposizioni Universali. Una bellezza come la sua non passava inosservata e, anche se ora Madame aveva quasi cinquant'anni, rimaneva la donna più bella che la ragazza avesse mai incontrato. Era perfino più bella di Hoa Lan, ma questo non glielo aveva mai confessato.
"Sei in ritardo" le disse severa, mentre la scimmietta balzava in piedi in uno sferragliare di giunture ancora poco oleate, emanando due sottili fili di vapore dalle narici.
"Perdonatemi, Madame" rispose Emmeline, abbassando leggermente la testa. "Sono già pronta".
"Bugiarda" commentò la donna. "Non sei ancora truccata".
"Ci pensiamo subito, Madame" si intromise Hoa Lan.
La donna alzò una mano accennando un gesto seccato e poi aggiunse, guardando la ragazza: "Ti devo per caso ricordare chi sarà ospite stasera, Emmeline?".
"No, Madame".
"Sai quanto sarà importante come ti comporterai stasera, vero? Per il futuro tuo e di tutte noi".
"Sì, Madame".
"Monsieur Corbin ci sta concedendo un grande onore, comprendi?".
A sentire quel nome Emmeline tese la lingua sul palato, come se volesse evitare un attacco di nausea. Sorrise e dopo un secondo di troppo, rispose: "Sì, Madame".
"Allora sbrigati. Il tuo spettacolo inizierà tra cinque minuti e tutti gli ospiti sono già giunti" ribatté Madame Tremblay, tendendo la mano al suo langur, che spiccò un grazioso balzo e si appese alla sua gonna tubolare, mentre la padrona si avviava a controllare le sue altre ragazze.
Emmeline tirò un sospiro di sollievo e si voltò sorridendo verso Hoa Lan, ridacchiando infantilmente per l'agitazione della povera sarta nel farla sedere mentre cercava i trucchi. In fretta le dipinse le ciglia di blu, le colorò le guance e le labbra con la polvere di cinabro e spolverò il décolleté di cipria.
Alla fine, della polverosa Emmeline Sackville non rimase nulla: Hoa Lan diede il suo benvenuto alla bambola di porcellana vivente che ogni sera offriva il suo spettacolo al Loto d'Oro.
"Sei perfetta" disse, sorridendo lievemente. "Ora vai".
Emmeline si alzò, si guardò per l'ultima volta allo specchio e sorrise. Prima che la sarta potesse tirarsi in piedi a sua volta, la ragazza si piegò su di lei e la baciò sulle labbra.
"Grazie, em yêu" bisbigliò ridacchiando nel vedere il rossore improvviso sulle guance di Hoa Lan, scappando via in un tripudio di tintinnii, verso il suo personalissimo spettacolo.
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