//Alla ricerca di Susan//

And when I’m gone, just carry on, don’t mourn
Rejoice every time you hear the sound of my voice
Just know that I’m looking down on you smiling
And I didn’t feel a thing, So baby don’t feel no pain
Just smile back
Smile back…

(Eminem, When I'm gone)

 
Sospirai, poggiando il volto al vetro gelido del finestrino e rabbrividendo al contatto, mentre le vetrine del centro schizzate di pioggia mi scivolavano attorno simili a un sogno, un’eco lontana di quel mondo che credevo di conoscere.

Le parole di Eminem che da quel pomeriggio mi sussurravano nella mente, riportandomi davanti l’espressione ferita e carica di dolore di Edmund, smorzavano in un borbottio ovattato la musica classica sparata a tutto volume nell’abitacolo. Riccardo guidava spedito, un’aria di profonda soddisfazione stampata sul volto perfetto. Io fingevo di dormire, incapace di trovare un argomento di conversazione che non rischiava di trasformarsi rapidamente in un monologo. Era meglio così, ognuno isolato nel proprio mondo. Avevo bisogno di stare da sola, di pensare a una soluzione, non mi importava quanto dolorosa.

Primo: dovevo prendere atto di cosa fosse veramente importante per me.
Secondo: dovevo cercare di ritrovare Edmund, ovunque egli si fosse cacciato.
E terzo: dovevo trovare una soluzione ai picchi creativi del vecchio Lewis.

Socchiusi gli occhi, contemplando i marciapiedi schizzati di pioggia. Chissà dove si trovava Ed in quel momento. Mi venne da rabbrividire nel pensarlo completamente solo, senza un soldo e con addosso solo leggeri abiti estivi, fuori con quel tempaccio. Chissà, forse a Narnia ne aveva viste di peggio, ma di certo Roma non è una città che perdona tanto facilmente chi vi si avventura di notte senza conoscerne i pericoli. E di certo Edmund non sapeva che cosa lo attendeva là fuori. Non potevo lasciarlo così, da solo e indifeso, e tutto per colpa mia. Dovevo ritrovarlo, a qualsiasi costo. In quel momento, pregai che Riccardo si sbrigasse a riportarmi a casa e che sparisse una buona volta per lasciarmi campo libero. Finalmente avevo capito qual era la cosa giusta da fare. Tutto quadrava.

Finsi di crollare dal sonno mentre mi lasciava sulla porta di casa, lasciandomi un leggero bacio che accolsi a labbra strette, poi attesi che i suoi passi svanissero ancora una volta nell’ingresso.

Fu in quel momento che spalancai completamente gli occhi, sveglissima. Restai in ascolto dei rumori della casa per pochi attimi, il respiro lento e regolare dei miei genitori e di Leo nelle camere da letto appena percettibile nel silenzio ovattato dell’enorme appartamento; poi mi voltai e uscii nuovamente, decisa a ritrovare il ragazzo anche a costo di frugare la città da cima a fondo per tutta la notte.

Roma era completamente vuota e silenziosa, solo lo scrosciare della pioggia e il frastuono delle macchine accompagnava i miei passi decisi sui sampietrini. Camminai per un tempo infinito, perdendo qualsiasi concezione del tempo e dello spazio, solo il chiodo fisso della mia ricerca mi spingeva ad andare avanti, ancora avanti, pur di ritrovare la persona che amavo. Quello che avrei fatto in seguito era un problema secondario. Avanzavo stretta nei miei abiti, senza temere di essere una donna sola nella metropoli deserta, il bavero della giacca a vento tirata fin sotto gli occhi, l’ombrello che tremava nella mia mano intirizzita. Le parole di Alis erano la mia guida. Ora tutto ciò di cui avevo bisogno era Edmund. Dovevo solo trovarlo.

Dopo ore di vagabondaggio, alla fine mi fermai per qualche minuto in una delle anguste stradine del ghetto per riprendere un attimo fiato, massaggiandomi le caviglie indolenzite seduta sul bordo di una fontana. Una serie di rumori concitati attirò la mia attenzione. Sembravano quasi dei passi affrettati sui sampietrini, come se qualcuno stesse scappando da qualcosa. Scattai in piedi d’istinto, pronta ad affrontare qualunque cosa mi fossi ritrovata davanti da un momento all’altro.

Una ragazza avvolta in un soprabito scuro si bloccò a pochi metri da me. Sembrava sconvolta, i lunghissimi capelli neri fradici incollati alle spalle esili, i grandi occhi di ghiaccio che sembravano implorarmi aiuto. Aveva le calze strappate e il volto pallidissimo rigato di lacrime. Nel vederla in quelle condizioni, raggelai dall’orrore.

«Susan?» la chiamai spaventata.

La ragazza mi scoccò una profonda occhiata, poi due mani robuste le si avventarono contro, storcendole le braccia dietro la schiena e gettandola a terra. Susan urlò e tentò di divincolarsi, ma l’uomo l’aveva inchiodata sui sampietrini, torreggiando su di lei.

«Dove credevi di andare, eh?» sogghignò lo sconosciuto afferrandola per i capelli e avvicinandole pericolosamente il volto al suo. «Ora ti darò una bella lezione…»

Le parole gli morirono in gola nello stesso istante in cui gli piantai la punta d’acciaio dell’ombrello fra le scapole, rovesciandolo a terra con un’abile mossa di scherma e costringendolo a guardarmi dritta negli occhi.

«Ma che diav…»

«È questo il modo di trattare una regina?» tuonai con rabbia. Non riuscivo a credere che qualcuno potesse permettersi di fare violenza a Susan.

«Chi diavolo sei?» grugnì l’uomo, il suo volto improvvisamente deformato dal terrore.

Io restai per un attimo interdetta. Non credevo di essere così spaventosa. Non fino a quando non mi resi conto di non essere completamente sola e che qualcuno aveva osservato attentamente tutta la scena accucciato accanto alla fontana, sferzando minacciosamente la lunga coda in aria, pronto a venirmi in aiuto se mai avessi fallito.

«Aslan!» esclamai nel riconoscere il grande leone.

«Questa è la tua battaglia, Penny» sussurrò lui passandomi accanto.

Io gli sorrisi e mi voltai verso l’uomo.
«Che roba siete?» continuava a ripetere questi, rannicchiandosi sui sampietrini.
«Esseri umani, non ci vedi?» lo canzonai io. «E ora vattene, se non vuoi passare la peggiore notte della tua vita» gli intimai, puntandogli la punta dell’ombrello alla gola. «Adesso.»

L’uomo sbatté le palpebre più volte come inebetito; poi si alzò lentamente, senza distogliere lo sguardo da me e da Aslan, si voltò e se la filò a gambe levate lungo il vicolo buio, portando via con sé la sua nauseante puzza di alcol. Non appena l’aggressore fu scomparso, anche Aslan svanì nel nulla, lasciandoci entrambe confuse e spaventate.

Fu allora che abbassai l’ombrello come se fosse stato una spada e mi accovacciai accanto a Susan. La ragazza tremava come una foglia e non riusciva a smettere di piangere.

«Va tutto bene, ora» la consolai, stringendola forte a me. «Ci sono io, qui con te.»

«Penny?» domandò lei spaventata. «Sei tu?»

«E chi altri?» scherzai io. «Benvenuta nella Città Eterna!»

«Ma cosa… che ci faccio qui?»

«È una lunga storia e forse è meglio trovare un angolino sicuro e all’asciutto per parlarne. Ti va?»

«Sì, ti prego!»

L’aiutai a rialzarsi, portandola sotto l’ombrello con me e incamminandoci a braccetto nei vicoli del ghetto fino a raggiungere casa mia. Anche la reazione dei miei, al momento, era passata fra i problemi secondari. Quanto a Edmund, sentivo che poteva resistere qualche altra ora. Di certo, lui non rischiava lo stupro, a girare di notte.


Trovammo l’appartamento silenzioso e in ordine come lo avevo lasciato. Feci accomodare Susan in camera, le preparai una zuppa con un po’ di pane e formaggio, le prestai dei vestiti puliti e feci di tutto per farla sentire a suo agio, nonostante la brutta avventura. Finché mangiò, la mia amica non parlò moltissimo, al di fuori dei formali ‘grazie’ e ‘per favore’ dovuti alla sua buona educazione da giovane donna inglese di buona famiglia. Mi impressionò il fatto che, nonostante avesse appena tre anni più di me, si mostrasse molto più adulta dei suoi coetanei. Davvero proveniva da tutto un altro mondo.

Dopo essersi tranquillizzata, Susan mi raccontò finalmente di come erano andate le cose. Al momento del passaggio si trovava in America, a un ricevimento in cui avrebbe dovuto incontrare un giovane ufficiale molto promettente e che più volte le aveva mostrato simpatia. Stava proprio per andare da lui, quando di colpo tutto era svanito e si era ritrovata improvvisamente sola nelle strade di Roma. Per ore aveva camminato senza una meta, spaventata e smarrita, sempre più stanca e affamata, incapace di prendere una decisione sul da farsi, non sapendo a chi chiedere aiuto, fino a quando quell’uomo orribile non l’aveva inseguita nel vicolo buio. Il resto della storia lo conoscevo.

Io le dissi che anche Edmund era arrivato e le raccontai del nostro litigio. Susan si mostrò evidentemente dispiaciuta per l’accaduto e mi promise di aiutarmi a ritrovare il fratello, accennando poi alla probabilità che anche Peter e Lucy potessero trovarsi lì.
Fu allora che compresi che era giunto il momento di dirle la verità. Con la massima calma e scegliendo con cura le parole, le spiegai per filo e per segno come stavano le cose, per quanto assurde che fossero. La reazione di Susan fu più che prevedibile. Dapprima impallidì, poi si spaventò e infine ritrovò la calma, prendendo a pensare immediatamente a una soluzione.

«Io ho saputo del vostro destino non appena ritornata a casa» dissi a un certo punto. «E per questo non ho mai toccato quel libro. Ho preferito rinnegare Narnia, proprio come hai fatto tu, piuttosto che sapervi morti.»

Susan mi sorrise e mi sfiorò la mano. «Non siamo ancora morti» mormorò sorridendo. «Sai, anch’io ho rinnegato Narnia per lo stesso motivo.»

Quelle parole mi spiazzarono. «Che cosa?» esclamai esterrefatta.

«Un sogno. Una notte ho sognato esattamente ciò che mi hai detto tu. Li ho visti morire, Penny. Morire per Aslan.» L’espressione dolce di Susan si era fatta improvvisamente tristissima. «Tutto ciò mi è sembrato così assurdo, così crudele, così folle, che, piuttosto che consegnarli a quel destino, ho rinnegato per sempre Narnia. Mi dispiace» si coprì il volto con le mani. «Ora so che è stato tutto inutile.»

Io l’abbracciai forte, stringendola a me con tutto l’affetto che provavo nei confronti della mia sorellina. «No, Sue, no» sussurrai, pervasa da una nuova consapevolezza che mi accompagnava dal momento in cui era ricomparso Aslan. «Forse tutto ciò era inevitabile, ma possiamo ancora fermarlo. Io e te. Siamo all’inizio. Ora dobbiamo solo ritrovare gli altri e agire. Possiamo, farlo, Susan. Dobbiamo farlo.»

Susan mi fissò intensamente e annuì. «Sì,» disse con decisione. «Del resto, Narnia è un po’ come la nostra seconda casa.»

«No, Susan. Narnia è la nostra casa» precisai io.

Susan si circondò le ginocchia con le braccia e sorrise, come se in preda a un improvviso buffo pensiero.

«Sai che l’ufficiale non è il mio vero amore?» disse a un certo punto.
E quella fu la vera notizia bomba della serata.

 
**** Eccomi, ce l'ho fatta ad aggiornare! Spero di aver compensato l'attesa con un capitolo bello intenso, e anche un po' più oscuro dei precedenti visto che abbiamo affrontato il tasto dolente della saga, ovvero Susan e il suo presunto abbandono di Narnia. Premetto che adoro il personaggio di Susan e non mi è mai andata giù la sua evoluzione, l'ho sempre trovata discordante con il personaggio iniziale. Per questo ho voluto regalarle una seconda chance con questa storia. E, fidatevi, il suo sarà un ruolo decisamente importante.

Ormai è chiaro che tutti e quattro i fratelli Pevensie si trovano nel nostro mondo... ma dove si trovano Lucy e Peter? La risposta sarà nei prossimi capitoli ;)

Intanto vi mando un abbraccio forte e colgo l'occasione per ringraziarvi di cuore per tutto il sostegno che state dando a questa piccola storia <3

Vostra,

F.

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