the last one standing

Anime: Inazuma eleven
Coppia: one sided Enkaze (Mark×Nathan) ; Natsuendo (Mark×Nelly) ; accenni Kyouten (Victor×Arion)
Rating: verde
Parole: 7429
Note: SPOILER DI TARGET! (l'enkaze mi ispira l'angst lol) ci sto lavorando da qualche mese, non mi sembra vero di essere riuscita a finirla :') credo che questo sarà l'unico sequel, ma ci sarà sicuramente un prequel perché ho bisogno di scrivere di David. Vorrei dedicarla a _chione__ nella speranza che possa farle piacere.

°••** *- ❀ -* **••°

«Mister, posso parlarle?»

Mark sussulta e i tre palloni che ha appena raccolto gli cadono dalle braccia, rotolando sull'erba sintetica con un lieve fruscìo.

Gli allenamenti sono finiti da ormai una buona mezz'ora, credeva che tutti i suoi allievi fossero già tornati a casa. Invece Arion è ancora lì, e la sua espressione è qualcosa che mai si sarebbe aspettato di veder dipinta su quel viso giovane e spensierato che tanto gli ricorda sé stesso a quell'età.

Sembra così fragile, mentre tiene il capo basso e il suo labbro inferiore trema e viene torturato dai denti, pare sul punto di scoppiare a piangere. Mark ha un tuffo al cuore, gli occhi grigi di Arion non sono fatti per le lacrime.

«Fammi indovinare: riguarda Victor» cerca di usare il suo tono più dolce e, contemporaneamente, spera che usare parole leggere -quasi si trattasse di un gioco- possa trasmettergli tranquillità.

Fai attenzione. Mantieni la voce ferma, non fargli capire la tua preoccupazione.

Il ragazzino annuisce ed il suo volto pare incupirsi ancora di più. Mark prende un respiro profondo, il tentativo di calmarlo non ha funzionato. È giunto il momento di parlare.

Sono settimane che osserva lo strano umore dei suoi ragazzi. I primi giorni gli è parso un semplice litigio, ma poi Victor ha preso le distanze -di nuovo, dannazione, dopo tutto l'impegno per farlo sentire parte del gruppo- e i compagni hanno smesso di passargli la palla.

Mark ha visto la voragine crearsi tra loro, ma non è intervenuto. Ha confidato nella capacità di Arion di tenere unita la squadra, gli ha scaricato un peso enorme sulle spalle, una responsabilità che in realtà è solo sua. E ora che il ragazzino è sul punto di venirne schiacciato deve rimediare.

Da tre giorni Victor non si presenta alle attività del club.

Si siedono a gambe incrociate in mezzo al campo, Arion gioca con i fili di plastica verdi, non alza lo sguardo nemmeno per un istante.

E Mark pone quella domanda che avrebbe dovuto fare giorni prima. Che cosa è successo? ma in risposta ottiene solo un'altra domanda -è appena un sussurro- una che non avrebbe mai voluto sentirsi porre.

«Sa cosa sono gli Anormali?»

Si sente sbiancare. Attorno a lui il mondo si ferma e scompare, c'è un ricordo di venti anni prima che torna fargli visita, agenti in divisa davanti alla sua porta.

Una morsa gli spreme lo stomaco, vorrebbe poter vomitare e piangere e strapparsi i capelli, come ha fatto quella volta. Ma c'è Arion che ha bisogno di aiuto. Punta con forza le mani al suolo, ha bisogno di sentire l'erba finta che gli punge la pelle; la sensazione di qualcosa di reale lo aiuta a tornare al presente.

Oh, no.

Ti prego, ti prego no.

Non questo.

«Sì, io ne... ne ho sentito parlare» la lingua è impastata, parla a fatica. Il suo allievo non nota il repentino cambio di tono ed espressione, ha lo sguardo basso e perso. Meglio così, ne approfitta per dare ordine alla mente confusa, non può lasciarsi distrarre dai fantasmi di un tempo lontano.

Dopotutto Arion si è rivolto a lui per chiedere aiuto. Vuol dire che si fida, che vede nel suo coach un adulto in grado di aiutarlo, e Mark deve soddisfare quella sua aspettativa, ed essere un buon mentore.

«È una definizione un po' strana, no? Anormali. Però penso che sia azzeccata. Loro... sono umani, proprio come noi. Solo che hanno... qualcosa» la sua voce è stanca, sottile; tramutare in parole tutti quei pensieri deve essere estenuante.

«Per caso» Mark si inumidisce le labbra che all'improvviso sono secche e screpolate «Victor è uno di loro?»

Il ragazzino annuisce piano.

«Mi sono informato» dice, parla come se avesse paura di svegliare qualcuno che dorme «Vengono classificati per livelli secondo una selezione accurata, se ne calcola la pericolosità per decidere se possono vivere come comuni civili. Victor ha un livello basso -solo un due, un misero due. Ma se anche così non fosse... lui... non è pericoloso. Non è cattivo»

La sua voce si spezza, boccheggia per qualche istante senza riuscire ad emettere un suono, e poi riprende con il tono stridulo di chi è ormai prossimo alle lacrime.

«Lo so, lo so che non è cattivo. Ma allora perché non riesco più a guardarlo come prima? Perché quando lo vedo non posso far a meno di pensare che non sia come me?»

Cosa dire, a quel bambino sperduto? Cosa avrebbe voluto sentirsi dire, venti anni prima? Cosa avrebbe voluto dire a lui, se ne avesse avuta l'occasione?

«Sai, Arion» inizia, con il tono di un maestro che spiega un importante verità al proprio allievo, anche se lui stesso si sente piccolo e confuso. «È ovvio che Victor Blade non possa essere come Arion Sherwind, non siete la stessa persona. La definizione stessa di normale è mutevole, soggettiva, e forse neanche esiste. Se ci pensi bene, siamo tutti un po' anormali, no?»

Arion si ammutolisce, fissa il suolo a lungo e Mark inizia a chiedersi se le sue parole siano quelle giuste. Gli pare di scorgere delle perle salate cadere dagli occhi del ragazzo e pensa che forse ha sbagliato tutto, ha rovinato quell'unica possibilità che gli è stata concessa di salvare un legame prezioso.

Poi Arion emette un suono strozzato, uno che ricorda solo vagamente una risata, e alza finalmente il viso senza preoccuparsi di nascondere le lacrime. Sta tentando un sorriso, sghembo e tirato.

«E questa dove l'ha trovata? Su Tumblr?»

E Mark si rende conto di aver trattenuto il respiro per tutto quel tempo, e si lascia andare anche lui ad una risata che forse è più un sospiro di sollievo. Non ha rovinato tutto, può ancora salvarla, quella relazione tanto fragile e importante.

«Hey! Non si contestano gli insegnamenti del coach!» gli tira un pugnetto amichevole sulla spalla, subito si trasforma in una carezza paterna «Ma... quello che sto cercando di dire è... prenditi tutto il tempo che ti serve, riordina i tuoi pensieri, e poi chiediti se vale la pena buttare via i sentimenti che vi legano per una cosa del genere»

Le guance di Arion acquistano colore, diventano due pesche mature, mentre inspira rumorosamente e i suoi muscoli si tendono. Il ragazzo chiude gli occhi e con una mano stringe la divisa all'altezza del cuore. Il suo corpo si rilassa ed il suo viso è sereno, finalmente. Oltre la confusione e la paura, la risposta è sempre stata lì.

«No» dice, sulle sue labbra c'è un sorriso sottilissimo ma vero «Non ne vale proprio la pena»

«Sono molto fiero di te»

È la risposta che avrei voluto darti.



Sulla via di casa per poco non si fa investire.

Forse se ne accorge, forse no; realizza solo mentre infila le chiavi nella toppa che quel clacson era rivolto a lui. Deve svegliarsi, pensa, è troppo distratto.

Svegliati, Mark.

Oltre la soglia lo accolgono un buio ed un silenzio innaturali, eppure a quell'ora del pomeriggio la televisione è sempre accesa.

Procede alla cieca lungo il corridoio dell'ingresso. La curiosità -forse è una punta di ingiustificata paura, timore paterno- gli fa dimenticare di togliere la giacca. Dal salotto proviene l'unica luce, soffusa, quella della lampada che sembra sempre sul punto di fulminarsi -continua a ripetersi di dover cambiare la lampadina, ma non lo fa mai.

Suo figlio è sul divano, avvolto da ben due coperte; sembra dormire, ma appena gli si avvicina apre i grandi occhioni castani.

«Stanco?» gli passa una mano tra i capelli ramati e posa le labbra sulla sua fronte.

«Ho mal di testa» mormora debolmente «Domani posso rimanere a casa?»

Il bambino sa bene che il padre è una preda facile, bastano un paio di occhioni supplichevoli per farlo cadere in trappola. Ma lo sa anche Mark, e cerca disperatamente di aggrapparsi alle raccomandazioni di sua moglie e non cedere.

«Mmh... vediamo come va quando arriva la mamma, ok?»

«Ma stasera ha la cena di lavoro, tornerà tardi! E io sto malissimissimo» aggiunge anche un colpo di tosse e si passa una mano sulla fronte «Credo che mi stia salendo la febbre»

«No, sei solo accaldato perché ti sei mummificato con le coperte» con un gesto veloce lo libera dal groviglio di stoffa e cerca di non ridere, perché è la stessa scusa che usava lui quando voleva rimanere a casa «È giusto un po' di mal di testa»

«Ma-»

«Niente da fare: lo sai che non ho potere, è la mamma che devi convincere»

Lo sente mormorare qualcosa che suona come «io però ho mal di testa per davvero» e pensa che forse scriverà un messaggio a Nelly per informarla del piccolo malato.

«Dal momento che per stasera siamo salvi, ti va se ordino cinese, Nathan?»



Mangiano in silenzio. Mark osserva di soppiatto il figlio, ha un'espressione corrucciata e cerchi scuri sotto gli occhi. Ed è incredibilmente pallido.

Dovrebbe proprio stare a casa, domani.

«Cosa c'è che non va?» Nathan lo fissa con i suoi occhi scuri; uno sguardo che è tutto preso da Nelly, pare scrutare a fondo e leggere ogni segreto.

Ride e intanto pensa che fra qualche anno, quando sarà diventato un po' più grande, con quello sguardo farà strage di cuori.

«Sai, in genere questa domanda dovrebbero essere i genitori a farla ai figli, non viceversa»

«Però mi sembri strano. Hai tipo un'aura strana intorno»

È incredibilmente serio, il bambino. E non è stupido, forse si è accorto del pensiero che lo turba.

Mark beve un sorso d'acqua, si schiarisce la gola, e congiunge le mani davanti al viso, come se stesse per dire qualcosa di importante.

«Nathan, c'è una cosa che non ti ho mai detto, ma ora sei grande abbastanza per sapere tutta la verità» trattiene un sorriso e cerca di mantenere un tono serio «Sono un Super Sayan potentissimo e proprio oggi Goku mi ha telefonato perché gli serve il mio aiuto per salvare il mondo, l'aura di cui parli sono i miei poteri che si stanno risvegliando»

No, non fa ridere. Può capirlo dall'occhiata gelida che riceve -non è un po' troppo piccolo per saper minacciare solo con gli occhi?

«Stavo dicendo... è come se vedessi la tua mente lavorare, e non è mai stata così attiva come oggi»

«Ouch, questa brucia»

«Quindi che succede?»

Perché no?

Gli racconta del pomeriggio. Nathan è abbastanza maturo per capire, è un bambino curioso e buono; la storia di Arion e Victor porta con sé una lezione importante che in un modo o nell'altro, prima o poi, avrebbe dovuto insegnargli.

Ma non gli parla di Nathan, il primo Nathan. Non è ancora il momento. Non è qualcosa che vuole dire. Dar voce a quella storia sarebbe come dover accettare una verità che per anni ha evitato. Come il giorno del suo matrimonio, con il testimone sbagliato.

«Sono contento che abbiano fatto pace» dice, infine, il bambino. Si alza e posa il piatto ormai vuoto nel lavandino.

Mark sorride e non gli dice che non è esattamente così, che quei due hanno ancora molto da risolvere e forse non sarà facile per niente.

«Loro ti piacciono molto, vero?»

«Sì! Quando giocano sono fighissimi!» nonostante sembri pallido e malato, per qualche attimo nei suoi occhi brilla una scintilla. Nelly l'ha definita la scintilla degli Evans, dice che è la stessa luce presente negli occhi di Mark quando si tratta di calcio.

La scintilla diviene fioca all'improvviso, sostituita da uno sguardo sfuggente e incerto.

«Voglio giocare in attacco anche io»

«Lo dici come se fosse una brutta cosa»

«È che sembra che tu voglia che io giochi in difesa, ma non mi piace»

«Neanche in porta?»

«Mmh»

C'era stato un periodo in cui Nathan aveva deciso di passare dalla difesa in attacco, per un po' di tempo era anche stato centrocampista.

Il Nathan che Mark ricorda è sempre stato impetuoso. Come un vento forte e impossibile da domare, non si lasciava intimidire dal proprio ruolo e correva instancabile per il campo; la palla, tra i suoi piedi, sembrava una bestia viva e sottomessa.

Ma ha sempre preferito il Nathan difensore. Più vicino a lui, sempre al suo fianco, come sarebbe dovuto essere.

«D'accordo, parlerò con il tuo coach. E quando inizierai a studiare alla Raimon ti prometto che ti renderò una punta»

«Però non devi fare preferenze!»

«Non le farò! Hai un anno per diventare abbastanza bravo da meritarti il posto»

Nathan sbadiglia e annuisce piano, come se pronunciare quell'ultima frase avesse consumato ogni energia residua. È meglio che vada a dormire, gli dice, e domani può rimanere a casa.

«Bacino?»

Nathan gli schiocca un bacio della buona notte sulla guancia.



Nelly è sempre in grado di fare la scelta più saggia. Mentre cerca di raggiungere con le mani il fondo del grande armadio nella loro camera da letto, Mark le è estremamente grato per questo.

Finalmente riesce ad estrarre la scatola, la trascina con sé sul pavimento di moquette, ansimando per lo sforzo. Non che sia tanto grande o pesante, ma ha dovuto spostare un sacco di altra roba prima di raggiungerla; vani tentativi di celare alla vista e alla mente ciò che ora lo sta chiamando con la voce dolce e nauseante di una sirena.

Quando si erano appena trasferiti -tanto, tantissimo tempo prima- avrebbe voluto bruciare ogni ricordo. Ma Nelly si era rifiutata di lasciargli ridurre in cenere interi anni della sua vita. «Non osare dimenticarlo» gli aveva detto «non fargli anche questo».

Con i polpastrelli sfiora lo scotch che avvolge il cartone. Forbici, gli servono delle forbici, subito.

È con entusiasmo febbrile che apre quella capsula del tempo, le sue mani tremano, il respiro è corto e lo stomaco gli si rivolta e sente la cena risalirgli alla gola. All'interno ci sono un sé stesso che quasi non riesce a credere sia davvero esistito, trofei di calcio che paiono aver perso ogni loro lucentezza, e un fantasma che non si lascia intrappolare in una scatola tanto facilmente.

Eccolo lì. Tra la sua vecchia divisa da portiere e un album di foto che non può assolutamente permettersi di aprire; c'è un porta-CD con tutte le loro partite.

Lo prende con delicatezza -perché era un suo regalo e forse conserva ancora un ultimo residuo, un'essenza del suo tocco, e non può lasciare che svanisca. Su ogni CD è riportata la data e il nome della squadra che hanno affrontato insieme.

È doloroso rivedere la sua grafia.

Sta per prendere il disco della finale, ma cambia idea. La sua mano scivola verso una partita meno importante, una che hanno perso, una dove Nathan ha giocato in difesa.

Prima di raggiungere il salotto si affaccia nella cameretta del figlio. Sembra dormire male, si gira più e più volte tra le lenzuola e mugugna parole senza senso. Gli si avvicina e gli lascia un bacio sulla fronte, in un vano tentativo di calmarlo. Non scotta, niente febbre.

Domani starà bene e potrà dormire quanto vuole.

In silenzio infila il disco nel lettore collegato alla televisione, poi si ferma perché gli pare di aver sentito Nathan che lo chiama. Va a controllare, ma il bambino dorme.

La registrazione parte e il volume è così basso che Mark si siede sul tappeto tra lo schermo e il divano per poter sentire. Per un attimo si pente, non sa se sarà in grado di sopravvivere alla nostalgia soffocante -lo stomaco gli si stringe.

Viene inquadrato il campo vuoto e brillante sotto un sole luminoso, poi gli spalti occupati da pochi studenti. Dopotutto è una delle loro primissime partite, di quell'epoca in cui ancora nessuno credeva che la loro squadra avrebbe potuto vincere un torneo scolastico tanto importante.

In panchina riconosce una giovanissima Silvia, indaffarata come una piccola mamma mentre sistema borracce e asciugamani; c'è anche il vecchio Mister e rivederlo è una sensazione strana. Da quanti anni non va a trovarlo? Dovrebbe fare un salto a salutarlo, pensa, ma poi ricorda. Non ha più il coraggio di varcare l'ingresso del cimitero.

Si costringe a non distogliere lo sguardo dallo schermo, mentre nuovamente si pente.

Ormai non posso più tirarmi indietro.

Soprattutto perché lo fa da troppo tempo. E quando a scappare era Nathan lo rimproverava sempre, deve smettere di comportarsi da ipocrita.

Sente la sua voce prima ancora che la telecamera lo inquadri.

L'audio è terribile, non si capisce neanche cosa abbia detto, le sue parole sono solo un suono indistinto ma Mark sa che è lui. Lo sente per la prima volta dopo vent'anni ed è ancora la voce di un ragazzino -talmente diversa dal tono basso della loro ultima mattina- ma è lui ed è lì ed è più vicino di quanto non sia mai stato negli ultimi due decenni.

Sa che deve essere forte e si prepara e crede di essere pronto, ma quanto l'inquadratura cambia ha un tuffo al cuore.

Perché c'è Nathan, nella divisa gialla e blu e i capelli turchesi stretti nella sua solita coda e quel dannatissimo ciuffo davanti all'occhio destro e ha il sorriso enorme di chi è sicuro di poter vincere. E ha un braccio avvolto attorno alle spalle di un Mark giovane e felice e pieno di sogni enormi che all'epoca parevano irrealizzabili. E ci sono i loro compagni che li circondano e sono tutti ugualmente raggianti e Silvia si avvicina per augurare a tutti buona fortuna e quel Mark giovane e molto più coraggioso di lui risponde che «la fortuna non c'entra niente, vinceremo perché siamo forti».

Ed è tutto così luminoso e i loro sorrisi sono così grandi che quasi non gli sembra vero.

E pensare che questa partita l'abbiamo anche persa.

Cavolo, ricorda bene come si è sentito quando non è riuscito a parare quell'ultimo goal, quando c'è stato il fischio finale che gli ha distrutto i timpani, quando Nathan -sudato e con il fiatone perché non si era fermato neanche per un secondo- gli ha porto la mano per aiutarlo a rialzarsi.

Decide che non saranno certo le lacrime ad impedirgli di continuare a guardare.

L'allenatore che è in lui riconosce le abili giocate della squadra; anche se in quel periodo erano ancora immaturi, per la prima volta vede i suoi compagni e si rende conto che sì, erano davvero forti. Forse dovrebbe prendere alcuni di quegli schemi e portarli ai suoi allievi, potrebbe far loro vedere qualche vecchia partita, riesce già a immaginarsi gli occhi di Arion illuminarsi davanti a quelle giocate.

Quando la palla giunge tra i piedi di Nathan, ecco che accade la magia.

Sì... guardando bene... in effetti...

Telecinesi.

Una mattina la polizia si era presentata alla sua porta.

Aveva scoperto così, tutti i segreti che gli erano stati nascosti.

Nathan era il suo migliore amico da quando ne avesse memoria e di lui si era fidato ciecamente. Forse troppo. Forse talmente tanto da non vederlo neanche più.

Forse non si era preoccupato abbastanza, in quei quattro anni di vuoto; quando non sapeva neanche se fosse ancora vivo e più volte si era chiesto se non si fosse solo immaginato quel ragazzino chiamato Nathan Swift. Come un amico immaginario, un bel sogno da cui si era svegliato una volta iniziate le scuole medie.

Ma era tornato, Nathan, a metà del primo anno di liceo. Era tornato e quei quattro anni erano svaniti nel nulla, perché non avevano più alcuna importanza e non gli interessava sapere cosa gli fosse successo durante la sua folle fuga dagli assistenti sociali. Se solo avesse chiesto... allora forse sarebbe stato tutto diverso.

Gli avrebbe detto che non aveva paura degli Anormali, che non aveva paura di lui, e non importava se aveva barato giocando a calcio. E avrebbero vinto comunque quel campionato, anche senza che usasse la sua stupidissima telecinesi.

E magari Nathan si sarebbe trovato un altro lavoro. Magari si sarebbe iscritto al college e le cose si sarebbero risolte e avrebbe fatto da testimone al suo matrimonio.

Il pallone è esattamente dove Nathan lo vuole, sembra sfuggire ai piedi degli avversari; e a quei tempi non lo sapeva, ma ora sì ed è così evidente che stia usando il suo potere. Gli viene quasi da ridere e non sa neanche perché.

Il giovane Mark si butta per prendere un tiro e sa già che le sue braccia non sono lunghe abbastanza, ma -fortuna, un colpo di vento, un miracolo- la palla invece di infilarsi in porta prende il palo e rimbalza lontano. E mentre il giovane Mark sospira di sollievo, il Mark di ora nota che Nathan guardava nella sua direzione.

Davvero? Anche in momenti del genere, Nat?

Per quanto tempo è stato il suo angelo custode?

Quando la partita finisce, inserisce velocemente un altro CD nel lettore. Non è stanco, sente che potrebbe passare così anche tutta la notte.

È la prima partita del campionato ufficiale e in quel momento decide che se le vedrà tutte, fino alla finale. Se non ricorda male da qualche parte dovrebbe esserci anche un disco che contiene le loro interviste dopo la vittoria.

Si alza velocemente, prima che le squadre scendano in campo, e fa uno scatto verso la cucina. Prende una confezione di biscotti, una tazza e un cartone di latte; perché si sente sentimentale e nostalgico e anche se sono quasi le dieci di sera vuole fare merenda come quando era ragazzo.

L'anta del frigo sbatte, deve ricordare che c'è suo figlio che dorme. Nessun rumore.

Torna in soggiorno cercando di aprire i biscotti senza far cadere nulla.

«Biscotti al miele. Non cambi proprio mai»

La tazza si frantuma sul pavimento.

Nathan è seduto sul divano.

Nathan, con i suoi capelli turchesi lunghissimi che nascondono l'occhio destro. È ancora il diciannovenne di tanti anni prima -poco importa che stia indossando la divisa della squadra e che chissà come gli sta- ma davanti a Mark, che di anni ormai ne ha trenta, sembra... assurdo.

Cosa sta succedendo? È reale? È possibile?

Ha l'impressione di non sapere più nulla. Il mondo -l'intero universo-, tutte le sue regole e leggi, è tutto crollato. Distrutto.

«Sei tu...» la sua voce è un filo sottile pronto a spezzarsi.

«Sono Nathan, mi sembra ovvio, l'unico e il solo!»

Dovrebbe essere spaventato, è il primo pensiero che riesce a formulare.

Ma è Nathan. Parla con la risata nella voce e sorride come se fosse la cosa più normale del mondo. Non c'è nulla di cui avere paura.

«Beh, a dire il vero ho dato il tuo nome a mio figlio quindi sei più tipo Nathan Senior ora»

«Ah» cala un silenzio surreale. Tutto è surreale.

Nathan sposta lo sguardo sulla televisione, la partita sta per iniziare.

La luce dello schermo si riflette sul suo viso, si incastra tra i capelli sottili e li fa brillare. Le sue labbra si incurvano in un sorriso che sa di rimpianto.

«Quanto tempo è passato...» sposta lo sguardo prima verso di lui, poi a terra e sospira «Guarda che casino! Non muoverti o rischi di farti male»

Mark non potrebbe muoversi neanche se volesse, mentre lui gli si avvicina. Lo osserva e cerca di capire se possa trattarsi di un sogno -spera di no, perché ogni sogno si trasforma velocemente in incubo- ma sente il rumore dei suoi passi, e il suo respiro sulla maglia e quando si piega a raccogliere i cocci di ceramica può sentire le sue dita calde che sfiorano i piedi scalzi.

È reale. È reale. È reale.

È reale soprattutto perché Mark vuole che lo sia.

«Puoi anche usare la telecinesi» gli fa notare; forse è solo curioso, forse non si rende bene conto di cosa dice. «No?»

Nathan solleva lo sguardo su di lui ed è indecifrabile; si rialza -Mark lo supera di tutta la testa- e le iridi castane lo scrutano in viso come alla ricerca di qualcosa. Stringe le labbra.

Le schegge si sollevano dal suolo e svaniscono rapidamente dal suo campo visivo. Nathan continua a fissarlo come se non volesse perdersi la sua espressione, ma Mark sa che non troverà il disprezzo che si aspetta di vedere.

Invece lo stringe forte, fortissimo. Può sentire il suo petto che si alza e si abbassa e il cuore che batte oltre la stoffa ruvida e il calore della sua pelle e il respiro sul suo collo. E poi ci sono i capelli turchesi che gli solleticano il viso e il suo profumo che è sempre lo stesso e sa di casa. Gli viene da sorridere, e poi da ridere.

Ride e piange.

«Non ne vale la pena, perderti per una cosa del genere»



Esultano ad ogni goal come se non conoscessero già ogni giocata e ogni risultato. Come quando erano studenti e seguivano insieme ogni partita, sognando futuri dorati.

Per un solo attimo si è dimenticato del bambino che dorme. Va tutto bene, lo rassicura Nathan, non si sveglierà. Non sa come faccia a saperlo, ma si fida. Dopotutto non l'ha ancora sentito zampettare lungo il corridoio, scalzo e con il cuscino appresso, per venire a lamentarsi.

«Hai dato il mio nome a tuo figlio»

Hanno appena vinto le semifinali, quando Nathan se ne esce con quell'osservazione.

«Ovvio. Avrebbe comunque avuto il tuo nome, anche se in realtà pensavo al secondo, e saresti stato il suo padrino»

Nathan lo fissa con la bocca spalancata, come se avesse detto qualcosa di inimmaginabile.

«Non me lo hai mai detto»

«Credevo che fosse logico. Tu non avresti dato il mio nome a tuo figlio? Io sarei stato il suo padrino, e il tuo testimone di nozze, e i nostri figli sarebbero stati migliori amici»

Nathan scoppia a ridere, e ride così tanto da aver le lacrime agli occhi, ma quando parla la sua voce è bassa e roca.

«Non mi sarei mai sposato, non avrei mai avuto figli» non lo guarda più, abbassa la testa così che i capelli gli nascondano il viso. Mark queste cose un po' le sapeva già. «Temevo mi avresti odiato»

«Ero arrabbiato... e lo sono ancora. Ma non potrei mai odiarti»

Si sente male davanti alla consapevolezza di doverglielo dire, perché significa che Nathan ha sempre temuto il contrario e Mark non è mai stato in grado di fargli capire niente con le semplici azioni.

Si alza dal divano -non si sono più toccati dopo l'abbraccio, e Nathan si è seduto sul lato opposto come se volesse mantenere le distanze- e inizia ad armeggiare con dischi e lettore per far partire la finale.

Non lo vede, ma sente il suo sguardo sulla schiena. Forse sta pensando a quanto sia cresciuto -cambiato.

«Ti saresti opposto? Hai presente, no? Quando nei film il prete dice se qualcuno ha qualcosa da ridire parli ora o taccia per sempre e il vero amore del protagonista grida mi oppongo. Ecco, lo avresti fatto?»

Gli esce fuori quasi per scherzo, quella domanda, come un'ultima battuta tentata in un momento ormai morto.

«Secondo te?»

«No. Penso che mi avresti fatto gli auguri e pianto di gioia, avresti brindato agli sposi e non avresti detto niente»

Nathan non risponde, Mark approfitta di quegli attimi di silenzio per cercare di sentire il suo respiro. Non ci riesce -si dice che è perché è troppo lontano-, i pochi secondi si trasformano lentamente in eterni minuti e Mark inizia ad essere tormentato dalla paura che tutto sia finito improvvisamente come è iniziato.

«Sarei stato il tuo vero amore

Quando sente ancora una volta la sua voce, per prima cosa prova un sollievo immenso -i polmoni stavano per esplodere e ora sono di nuovo in grado di farlo respirare. Ma poi realizza le parole del suo migliore amico e si sente avvampare. Non è imbarazzo, non un sentimento così puro e genuino.

È vergona. Non avrebbe dovuto dirlo.

«No» mormora.

Vorrebbe dire il contrario solo per farlo stare meglio, ma sarebbe una bugia e lo saprebbero entrambi.

«Giusto. Domanda stupida»

E dal tono che Nathan usa, Mark ha quasi l'impressione di averlo ucciso.

«Odi Nelly?» chiede; un po' per cambiare discorso, un po' perché vuole saperlo davvero. Quella storia -la loro storia- dopotutto parla anche di lei.

«Non se lo meritava, ma ero geloso. Non volevo odiarla, non avevo nessun diritto di farlo, ma forse... in alcuni momenti...» la sua voce è sottile, forse non vuole realmente che lui lo senta.

«Avresti potuto dirmelo»

Nathan scatta in piedi. Mark ancora gli dà le spalle facendo finta di star preparando il lettore, ma è già tutto pronto e la finale con la loro vittoria inizierà non appena avrà premuto il tasto play.

«No, certo che no! Non avrei potuto. Come, secondo te? Rovinare il legame più prezioso che avevo per qualcosa che non sarebbe mai stato reale?» urla e Mark sente il pianto in quel tono disperato.

«Mi dispiace»

«Non è colpa tua. Non lo è mai stata» quell'improvviso scatto pare avergli consumato ogni energia; si accascia nuovamente sul divano e la sua voce torna ad essere un sussurro stanco.

«Come l'hai scoperto? Che ero innamorato di te» c'è qualcosa di spaventosamente macabro che Mark sta disperatamente cercando di ignorare, nel fatto che continui a parlare di sé al passato «È stata lei, vero? Lei lo sapeva bene... non era gelosa, non era come me. Mi guardava e i suoi occhi sembravano volermi chiedere scusa. Ero patetico, far sentire in colpa qualcuno che non se lo meritava»

E io che cosa dovrei dire?

Vorrebbe rispondergli così, e ci sarebbe una punta mal celata di rabbia in quelle parole.

Come credi che mi stia sentendo io, in questo momento?

Come credi mi sia sentito, negli ultimi vent'anni?

«Non è stata Nelly» dice invece, e si sorprende di quanto la sua voce suoni tranquilla, perché il suo animo trema. «In realtà, credo di averlo sempre saputo... in fondo, dove i pensieri non hanno ancora una forma. Non ho mai fatto niente, quasi non mi importava. Eri il mio migliore amico e non volevo rinunciare a te, anche se ti faceva male... io ti facevo male»

Per anni si è preparato discorsi di scuse, ma ora -che contro ogni previsione ha ottenuto l'occasione- non ne ricorda neanche uno. Le parole escono senza lasciargli il tempo di pensare, raschiano contro la gola e gli pungono gli occhi con le lacrime.

«Per questo, mi dispiace»

Nathan non risponde, ma va bene così. Ha capito.

E anche se non dovesse aver capito, per Mark l'importante è avergli parlato un'ultima volta. Avergli chiesto scusa.

Ah.

Realizza; non hanno affrontato l'argomento riguardo al suo lavoro.

Vorrebbe dirgli anche quello. Non importa se degli agenti alla sua porta, tanti anni prima, gli hanno riferito che il suo migliore amico era uno dei mercenari più letali e ricercati d'America. Per lui è sempre e solo Nathan. Ma Mark è certo che ormai sappia anche questo.

All'improvviso tutto si fa buio.



Mark è confuso. Sa solo che si è svegliato in una camera di ospedale e non ha idea di come ci sia finito; un uomo con il camice bianco sta parlando con sua moglie e Nelly piange.

Il suo primo pensiero va al figlio. Se sia lui che Nelly sono lì vuol dire che il bambino è da solo, dimenticato chissà dove; forse ha paura, forse è in pericolo.

Desidera solo stringerlo tra le sue braccia.

Dov'è Nathan?

E immediatamente quelle parole hanno un significato diverso.

Gli gira la testa, i ricordi sono frammenti confusi. Se non avesse mai sognato, si sarebbe convinto che si fosse trattato di un sogno, ma Mark sa com'è fatto un sogno e quell'incontro semplicemente non aveva lo stesso sapore.

Era più reale, e ora sembra una memoria sbiadita di tanti anni prima.

«... i valori sono stabili, quanto all'accaduto è meglio aspettare gli esiti dei test» sono le ultime parole che il medico rivolge a Nelly prima di lasciare la stanza e le prime che Mark riesce a sentire.

Ma non capisce.

Nelly nota che è sveglio e un attimo dopo sta piangendo contro il suo petto. È piccola e tremante, mentre la stringe cercando di rassicurarla -non sa neanche da cosa.

Mark si era dimenticato che potesse apparire così indifesa. Nelly è sempre stata una donna forte.

L'ha vista farsi strada nel mondo della giurisprudenza e divenire uno dei migliori avvocati di New York, vincendo una guerra ingiusta contro chi pensava che una donna non potesse essere in grado di combattere.

L'ha vista asciugarsi le lacrime di nascosto al funerale di Nathan perché doveva essere la sua roccia mentre lui crollava, e l'ha vista più raggiante che mai in un abito da sposa.

E poi l'ha vista dare alla luce la creatura più bella del mondo, e l'ha vista fare del suo meglio per essere una madre.

Ma ora che piange come una bambina, Mark ricorda per la prima volta dopo anni che è umana. Non può essere sempre forte.

E anche se è ancora confuso sa che è successo qualcosa di terribile abbastanza da spaventarla, e può solo tremare all'idea.

Va tutto bene.

Si blocca giusto un attimo prima di dirlo, perché non sa quanto quelle parole possano essere vere. Decide di rimanere in silenzio, stringerla e aspettare che si calmi.

Infine Nelly si asciuga da sola le lacrime con quell'eleganza che è sempre stata sua, si siede sul bordo del letto e gli stringe le mani come per farsi forza -o come per fare forza a lui.

«Sono... sono tornata a casa ed eri svenuto sul pavimento» la sua voce smette di tremare man mano che va avanti a parlare e Mark capisce che il momento di debolezza è finito. «C'erano... dischi, cocci e il cartone di latte rovesciato... e il tuo respiro era sottilissimo, il tuo cuore quasi non si sentiva. Ho chiamato l'ambulanza e sono corsa da Nathan e... lui dormiva, tranquillo. L'ho svegliato perché non potevo lasciarlo da solo-»

«Dov'è?» la interrompe.

«Non mi hanno fatta entrare» le mani di Nelly tremano per un attimo, le dita sono gelide «Sta facendo la tac»

«Che tac?»

«Per... per capire se è un Anormale»

Il mondo si ferma e smette di esistere. C'è solo Mark in una stanza vuota. E suo figlio, da qualche parte in quell'ospedale sconosciuto, che sta per affrontare il suo destino da solo.

«Che stai dicendo? Nathan non è... non è... pericoloso»

Gli torna alla mente Arion, gli occhi pieni di lacrime. È successo solo poche ore prima, ma sembra tantissimo tempo fa.

«Mark» Nelly gli prende il viso tra quelle sue mani così piccole e poggia la fronte sulla sua, addosso ha ancora una traccia leggera del profumo che usa per le cene di lavoro «Mi hai scritto che era malato, ma... quando l'ho svegliato stava bene-»

«L'avevo detto che aveva solo bisogno di dormire»

«No. Quando l'ho fatto vestire sulle sue ginocchia non c'era neanche un graffio»

Nathan giocava a calcio e aveva sempre le ginocchia sbucciate.

«Tutto sparito. E poi... e poi, Mark, mi ha detto di aver fatto un sogno. Ha detto che nel suo sogno tu e un ragazzo che aveva il suo nome ed i capelli turchesi guardavate vecchie partite mentre mangiavate latte e biscotti»

Nelly lascia andare un sospiro tremante prima di dire l'ovvio, ciò che Mark già sa bene.

«Nessuno gli ha mai parlato di Nathan»

Lo sa, Mark. Capisce. Tutto ciò non è normale.

«È un bambino, Nelly, ha dieci anni. Non può essere pericoloso»

«C'è una differenza tra cattivo e pericoloso. È mio figlio, so bene che non farebbe del male ad una mosca, ma... ti ha quasi ucciso»

«È assurdo, Nelly!» inizia ad arrabbiarsi, anche se lei non lo merita. È spaventato.

Eppure era ovvio che non potesse essere reale.

I morti non parlano.

«Non può essere stato Nathan! A fare cosa, poi? Ho... ho solo avuto un mancamento, sarà stato un calo di zuccheri! Ti stai facendo paranoie assurde»

Lo sguardo di sua moglie lo fa gelare. I suoi occhi sono stanchi.

«Sono sveglia dalle cinque di stamattina, ho lavorato tutto il giorno e poi ho avuto anche la cena. Sono tornata a casa alle undici di sera desiderando solo di andare a dormire, invece ho trovato mio marito mezzo morto e ora c'è una possibilità e potrebbero portarmi via mio figlio perché un pericolo per la società e... se fossi rientrata a casa solo un po' più tardi, tu... io... non so se...»

In quell'attimo, mentre la sua voce ha un cedimento, Mark si rende conto che Nelly gli ha davvero salvato la vita.

«Quindi ora guardami negli occhi e dimmi che non hai visto Nathan Swift nel nostro salotto e allora, forse, crederò che si sia trattato di un calo di zuccheri»

Vorrebbe trovare le parole per farla stare meglio. E vorrebbe stare meglio anche lui. Vuole rivedere suo figlio, ora più che mai.

Il mondo è troppo piccolo per gli Anormali e la vita di quelli come loro è fatta di solitudine e sofferenza. Non è il futuro che aveva immaginato per Nathan, non è il futuro che vuole per Nathan.

«Forse... forse non è un grado così alto» cerca ancora di convincersi «Forse gli permetteranno di crescere come un bambino normale»

«Qualunque sia il suo potere» Nelly è disperata, lo sente nella sua voce «Non è innocuo»

La stringe forte.

«Forse viene col nome»

Nelly non ride.



Nathan salta un'intera settimana di scuola.

Ogni mattina, alle sette precise, Mark lo lascia davanti al Laboratorio di Studio e Ricerca degli Individui Anormali.

Non può entrare, ma Nathan rassicura i genitori ogni sera. I dottori sono gentili e simpatici, dice; uno di loro gli ha regalato un set di gomme colorate. I test sono molto più divertenti delle verifiche.

Mark sa che suo figlio è un bambino intelligente. Non crede al suo viso tranquillo, probabilmente Nathan ha già capito.

Poco importa che i dottori lo trattino bene.

Per ogni ora che trascorre in quell'edificio, il suo futuro si riduce lentamente in cenere.

Continua a pensare a quella conversazione avuta con Arion. Lo osserva assieme a Victor durante gli allenamenti, quei due sono più legati di prima.

Ti prego.

Ti prego, fa che sia fortunato come Victor.

Fa che trovi qualcuno come Arion, e che lo trovi in fretta, e che non si separino più.

Mark sa di essere un genitore, sa di essere disposto a sacrificare la vita per la felicità del suo bambino, ma sa anche che lui da solo non sarà abbastanza.

E non pensa più a quella sera con il suo migliore amico.

Si era sentito felice, soddisfatto, era convinto di poter sistemare le cose e cancellare il senso di colpa. Ma ha chiuso nuovamente la scatola e l'ha nascosta sul fondo dell'armadio.

Non si può davvero aggiustare il passato. Si è trattato solo di un sogno.

E ora ha preoccupazioni ben più grandi dei suoi vecchi fantasmi.

Guarda Nelly, il modo in cui il suo corpo emana sicurezza, e sa che è una finzione. Eppure cerca di ispirarsi a lei e la imita nella sua finta tranquillità. A cena chiedono «come è andata oggi?» come se stessero parlando di scuola.

Dopo una settimana, sono nello studio dello scienziato che ha seguito Nathan per tutto il percorso.

«Il suo è un potere piuttosto complesso, ma non è stato difficile da individuare. Vi dico solo che diversi dei miei colleghi hanno dovuto prendersi un giorno di riposo dopo averlo incontrato»

Ride e parla con voce cordiale, come se non ci fosse nulla di cui preoccuparsi.

Nathan è lì con loro, gioca con quel set di gomme che ormai porta ovunque -Mark è abbastanza certo che sia stato l'uomo dietro la scrivania a dargliele. Non sembra interessato al discorso, forse lui e il dottore ne hanno già parlato in precedenza.

Non gli piace il pensiero che suo figlio sappia già cosa gli spetti mentre lui ne è ancora all'oscuro.

Si sente impotente, lo è.

Non può fare nulla.

«Grazie anche alle indagini svolte riguardo alla sera del 7 ottobre siamo arrivati alla seguente conclusione» dice e poi fa una pausa per schiarirsi la gola «Nathan è in grado di rubare energia ad altri esseri viventi. Il processo inizia attraverso il contatto fisico e può risultare mortale. Tuttavia la sua... vittima è inconsapevole, prigioniera di un'illusione, un sogno che Nathan crea basandosi sui ricordi e i desideri di una persona. Un modo, insomma, per dare una morte piacevole e indolore»

Cala il silenzio, ma Mark sente le orecchie fischiare forte. Gli gira la testa, si aggrappa ai bracci della sedia.

«Qual... qual è il livello?» la voce di Nelly è un suono indistinto che sovrasta il rumore del caos nella sua mente.

«Nove su dieci, senza alcun dubbio» l'espressione cordiale sul viso dell'uomo rimane inalterata e lui inizia a pensare che sia finta.

«Tuttavia sono certo che possa imparare a controllarlo con il giusto esercizio. Sono rari gli individui Anormali che superano il livello cinque, vengono estraniati dalla società e spesso finiscono per raggrupparsi in circoli malavitosi» lo sa, Mark, lo sa fin troppo bene «Tuttavia, il governo sta cercando di cambiare questa situazione e sono convinto che se sia voi che Nathan deciderete di contribuire al progetto potremmo fare ulteriori passi avanti. Nathan è un bambino estremamente raro, ci sarà molto utile»

Non gli piace il modo in cui parla di suo figlio, ma non c'è vera cattiveria nella sua voce. Nove non è solo un livello alto, è il più alto livello possibile.

Il dottore si sporge leggermente in avanti con il busto, un sorriso serafico sul volto.

«Avete esperienza con altri Anormali?»

«No» gli viene spontaneo, poi si ricorda che ormai suo figlio sa e si sente un bugiardo «Voglio dire... ho un allievo di livello due ma non... non sono un esperto»

L'uomo annuisce. È così calmo...

Mark si rende conto che per lui è normale amministrazione.

Nathan Evans è solo uno dei tanti bambini Anormali con cui ha lavorato, e loro sono solo un'altra famiglia da rassicurare ed istruire al riguardo. E il suo Nathan è raro, ma per lui non fa differenza. Per lui non c'è nessuna preoccupazione.

«Dovrà eseguire periodicamente visite di controllo, e va specificato nei suoi dati anagrafici. In California e a Washington ci sono delle scuole unicamente per Anormali, qui a New York alcune sono disposte ad accettare studenti fino al nono livello, naturalmente con una certificazione che posso fornirvi io stesso...»

Va avanti a parlare ma Mark non lo ascolta più. Osserva suo figlio e Nathan gli sorride come se non sapesse che nel momento in cui metterà piede fuori da quell'edificio la società sarà pronta ad additarlo come un pericolo.

«...Nathan è un bravo bambino e confido nel fatto che sappia distinguere il bene dal male»

Sono le parole con cui il dottore conclude quello che è solo il primo dei loro incontri.



Il cimitero è silenzioso e deserto. Forse perché il cielo è scuro e la pioggia inizierà a cadere da un momento all'altro.

Stringe la mano guantata di suo figlio -meglio evitare il contatto fisico finché non sarà in grado di controllare i suoi poteri.

«Ti sei perso di nuovo»

«Cosa te lo fa pensare?»

«È la terza volta che passiamo da qui»

Mark nasconde l'imbarazzo con una risata. Quel bambino è sveglio proprio come sua madre.

«Sono anni che non metto piede in questo posto, dammi tregua!»

«Non sei mai venuto a trovarlo?»

No.

Neanche una volta, da quando ha visto la bara venir calata nella fossa.

È tornato a casa come se si fosse liberato di un peso, ha cercato di dimenticare.

«Vedi... a volte ci sono cose che semplicemente non sono alla nostra portata. Imprese che non riusciamo ad affrontare, ma non per questo siamo meno eroici» se lui lo avesse sentito parlare così lo avrebbe di certo preso a schiaffi. «Serve solo pazienza, tempo, e un po' più di coraggio»

«Quanto tempo?»

Per un istante soltanto le nuvole vengono inondate da una luce blu elettrico e il mondo cambia colore. Un tuono squarcia il cielo.

«Una ventina d'anni o giù di lì»

«E quindi ora hai abbastanza coraggio?»

«Ora ci sei tu. Ed è il momento che tu conosca la persona fantastica di cui porti il nome»

La trovano, infine, mentre l'aria si fa sempre più gelida e vibrante -quasi per caso.

È una lapide esattamente uguale a tutte le altre, ma Mark la guarda e sa che ha qualcosa di diverso. È la sua, ed emana dolore.

«Lui era come te»

«Un Anormale?»

Si ritrova a ridere mentre annuisce.

«Livello nove»

Nathan osserva il suo nome inciso nella pietra.

«Nathan... era cattivo?»

Mark stringe forte quella manina così piccola e indifesa.

«No. Non era cattivo, era... solo. Ma tu non lo sarai»

Il cielo inizia a piangere.

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