CAPITOLO 3

"Well, we only got an hour of
daylight left, better get started.
Isn't it unsafe to travel at night?
It'll be a lot less safe to stay here"
(Is There Anybody Out There? -
Pink Floyd)

Sangue.
Una gelida folata di vento entrò in piena notte dalla finestra dell'ospedale, svegliando la ragazza di soprassalto. Avvolta nelle lenzuola di flanella, il corpo cosparso di un liscio strato di sudore; Milena strizzò gli occhi più volte prima di rendersi conto di dove si trovasse. La Luna splendeva nel cielo come mai prima di allora, illuminando parzialmente la sua camera spoglia e priva di personalità. Una stanza di ospedale come un'altra. Anonima. Non sua.

Cosa ci faceva lì? Gli occhi slittarono immediatamente sull'orologio da parete proprio di fronte a lei, cercando di analizzare che ore fossero. 3:26. Un dolore lancinante si insinuò sotto i suoi capelli, colpendola alla testa. Mancava un minuto preciso alla sua nascita, quel dettaglio per qualche assurdo motivo lo ricordava, a differenza di tutto ciò che aveva preceduto il suo risveglio. Non riusciva a capire perché si trovasse là. Il suo cervello non elaborava nel verso giusto, di questo ne era certa. Come se un enorme chiazza nera offuscasse tutto il resto, tranne la consapevolezza di trovarsi lì e di star per compiere i suoi fatidici diciotto anni.

La fitta lacerante si propagò a macchia d'olio fin sotto le ossa, scivolando lentamente per il collo, tracciando le sue spalle ricurve e la spina dorsale sporgente. Si addensò in quel punto, soffocandola in un lamento straziante. Qualcosa bruciava, ardeva tanto prepotentemente da non farla quasi respirare. Non riusciva a muoversi, non poteva raddrizzare la schiena, non era in grado di spostarsi o alzarsi dal letto per tentare invano di disfarsi di quella scottatura intollerabile. Si stava corrodendo dall'interno e non vi era alcuna via di fuga. Si ancorò agonizzante con una mano alla sbarra al suo fianco. Non fece in tempo ad inspirare. Delle affilate lamine ebano iniziarono a strapparle la carne delle dita, scivolando dai lembi della pelle ormai dilaniata verso l'esterno. Sempre più. Sempre più dolore. Le trafisse il cervello di colpo. Serrò le palpebre. La sofferenza tacque.

Sabbia soffice. Sotto i piedi nudi.
L'aria fresca primaverile le scompigliava teneramente i capelli. Camminava libera. Leggera. Al suo fianco il mare. Chiaro. Le onde si infrangevano sugli scogli poco più avanti. La schiuma bianca si dissolveva pian piano. Continuava ad avanzare senza rendersene conto, come guidata da una forza superiore, più forte della sua volontà, più potente del suo controllo. Davanti a lei una lastra di vetro riflettente. Uno specchio lucido nel bel mezzo della spiaggia chiara, deserta.

Non rifletté a lungo, tentò invano di opporsi, ma man mano che avanzava lo specchio si faceva sempre più ampio. Si allungava a circondarla, che lei lo volesse o meno. Al centro di esso, una giovane della sua medesima altezza. Stessi lineamenti, poco più duri, marcati. Gli zigomi sporgenti esaltavano macabramente la scavatura delle guance d'un pallore cadaverico. Mossa dalla brezza, la chioma sciolta e disordinata. Radici nere come il carbone ardente si scioglievano in fiocchi di neve immacolati, una sfumatura appena grigiognola da intermezzo fra le tenebre e la luce. Un corvino terrificante mescolato al bianco del latte. La ragazza la fissava, dritta negli occhi, spoglia di ogni emozione. Le sue iridi. Un'avvolgente miscela di notte e fiori di mirto neri. Il fondo del Tartaro. Una spessa patina ombrosa.

Cercò di schiudere le labbra per gridare non appena vide quegli occhi guardarla senza battere ciglio: legate, incollate l'una all'altra in una morsa ferrea e indissolubile. Rimembrando l'immagine delle sue mani martoriate, ne alzò una assicurandosi di stare bene. Il riflesso seguì le sue orme. Dieci artigli esplosero sotto il suo sguardo nella loro orrida presenzialità. Indietreggiò puntando l'attenzione davanti a sé in cerca di spiegazioni. Quando la ragazza rinchiodò lo sguardo al suo, la figura sorrise. Due canini sporgenti. Due zanne inguardabili. Due lame mortifere.

Avanzò la presenza. Alzò una gamba. Seguì l'altra. Come un mostro, si slegò dalle funi che la tenevano inchiodata al margine della realtà, uscendo con teatralità dallo specchio e sopraffacendo la sua vittima senza dare ascolto alla maschera di spavento che ricopriva il suo volto. Le afferrò il polso sinistro mentre l'ingenua prendeva a dimenarsi in preda al panico.

Inaspettatamente, con l'altro arto conficcò ben tre artigli nella pelle pallida della sua mandibola contratta, tracciando le linee che di lì a poco avrebbero sgorgato sangue, percorrente il collo spoglio con estrema delizia. Abbassò lo sguardo stringendo i denti. Uno strano liquido luminescente iniziava a coprirle le scapole, depositandosi nell'osso concavo e accumulandosi lì a fare da riserva. La giovane creatura si chinò su di lei, immergendo le labbra piene nel lago brillante. Quando rialzò il volto, tutto era scomparso.

Davanti a Milena, presiedeva nel riflesso il suo clone. Dei canini, delle zanne, degli occhi terrificanti non vi era più la minima traccia. Due iridi violacee la guardavano in silenzio, in attesa di una spiegazione. Alle sue spalle, due mastodontiche ali si spiegavano al vento.

«Sangue» sussurrò. Gli occhi si schiusero da soli, il buio ad avvolgerla ancora. Sbatté le palpebre nel bel mezzo di una crisi: ogni dettaglio, ogni difetto della stanza le scoppiò nella visuale come un fuoco d'artificio sotto al naso. Una sottile crepa nella parete bianca si ramificava dal mobiletto bianco in compensato, posto sotto la televisione scura cosparsa di granelli di polvere accumulatisi al lato dello schermo. La vernice scrostata dall'armadio accanto al suo letto rivelava il legno massello. La poltrona poco più in là aveva una macchia di grasso sullo schienale. Milena dovette scendere immediatamente dal letto, in preda al panico. Rotolò a peso morto per terra appena i suoi piedi toccarono il pavimento freddo. Era tutto bagnato. Non aveva forze. Non riusciva nemmeno a tenersi in piedi. I suoi arti erano prosciugati da qualsiasi sfumatura di vitalità. Alzò con un lamento il braccio, per ciò che le riusciva. Urlò. Sangue.

Si ritrasse velocemente come un animale abbagliato dai fari dalla pozza di sangue scarlatto che macchiava la parte di pavimento sotto al letto. Fino a poco fa solo e solamente lei sedeva su quel materasso, ma il suo corpo non presentava ferite mortali. O forse non riusciva a vederle. Si trascinò a peso morto verso lo specchio, vittima dei ricordi che ronzavano nella testa come uno sciame di api liberato dal barattolo dopo la loro caccia. Poteva udire il rumore irritante della macchinetta del caffé fuori dalla sua camera, dei lievi passi attraversare il corridoio e sparire in lontananza, sfumandosi nell'aria e confondendosi con il ticchettio di una penna in segreteria. La sua testa stava per esplodere, frantumarsi in centinaia di schegge e disperdersi per terra insieme al suo stesso sangue. Non ce la faceva più.

Gattonò sino alla lastra di vetro riflettente, accasciandosi al suolo non appena raggiunse il suo traguardo. Si issò goffamente sulle mani, tirandosi su e scivolando con gli occhioni lucidi sino al suo riflesso. Il cuore perse un battito. Si ripiegò su sé stessa, avvertendo un conato di vomito inondarle la gola e travolgerle i sensi. Il pompare affaticato dell'organo rimbombò nelle sue orecchie. Si prese la testa fra le mani, sentendo le bollenti lacrime sgorgarle sulle gote arrossate dallo stress. Quando il pulsare si affievolì, allentò la presa sul suo stesso capo, cercando di ragionare con razionalità. Doveva essere un incubo. Stava sognando. Non era reale.

Opponendosi alle fitte di dolore che percorrevano le sue gambe come le dita di un pianista sui tasti bianconeri del suo strumento, il formicolio destabilizzante all'altezza dei polsi e un fastidio pungente poco sopra il collo, Milena piazzò con forza i piedi scalzi a terra. Il contatto con il pavimento freddo l'aiutò nel suo intento. Vi era qualcosa di umano e reale in quella percezione di gelo, qualcosa che l'allontanava gradualmente dall'ustionante sensazione dietro, sulle sue spalle. Le sue ginocchia tremolarono. Srotolandosi dal suo guscio e poggiando una mano al muro, si alzò. Piantò lo sguardo dritto davanti a sé.

Due iridi violacee la fissavano affaticate. Intrisi di lacrime e una strana sostanza lucida e trasparente, tre profondi tagli sulla mandibola spiccavano sotto i suoi occhi. Stordita, vi passò le dita sopra: bruciava, ma ora era sopportabile. Quel liquido le ripase sui polpastrelli. Appiccicoso, simile alla consistenza del sangue, ma di un colore pari a quello dell'acqua di un ruscello abbagliato dai raggi del Sole. Milena si portò le dita al naso. Zucchero filato bruciato. L'idea di assaggiarlo la sfiorò per un istante, ma riluttante scacciò il pensiero dal cervello e riprese a scrutarsi con particolare attenzione e sbigottimento. Dei suoi lunghi capelli ramati non ve n'era neanche il minimo accenno. Fu frustrante per lei, che amava la sfumatura inusuale della sua chioma più di ogni altra cosa, trovarsi quella stravagante tinta bianco gelo alle punte sino a risalire in un nero corvino lucente.

Per sua fortuna, però, gli artigli sembravano essersi volatilizzati insieme alla sua fervida immaginazione. Perché quando si sporse e tastò lo specchio per accertarsi che fosse solo un sogno, il contatto con questo non fu diverso da quello di qualunque altro giorno passato. Si voltò di scatto, alla ricerca dell'orologio. Sapeva che per smascherare un sogno vi erano innumerevoli metodi: uno di questi era controllare l'ora. 3:51.
Chiuse con forza gli occhi, lasciando passare qualche secondo. Quando li riaprì, l'orologio segnava ancora le 3:51. I numeri erano disposti correttamente, le lancette erano due.

Aveva altri tre tentativi a disposizione: tapparsi bocca e naso e verificare se riuscisse comunque a respirare; provare a leggere; accendere la luce. Milena capì immediatamente che la scelta migliore era anche la più drastica. Si portò una mano sulle labbra e una sulle narici. Prese un profondo respiro. Lasciò passare secondi, interminabili attimi, fissando dritto l'orologio e continuando a premere con prepotenza contro la sua pelle. Ma non continuava a respirare. Si rese semplicemente conto di non sentirne il bisogno. Più il tempo passava, meno la sua brama di prendere aria cresceva. Maggiore diveniva la pressione alle spalle. Quando scoccarono le quattro non resistette più. Crollò sulle ginocchia, allentando la presa sul suo naso e sulla bocca. Oramai però, era troppo tardi. Due squarci simmetrici iniziarono a crescere sempre più sulla sua schiena, strappando il pigiama di cotone che indossava da quando era stata ricoverata. Uno sfarfallio angelico nell'aria. Milena sentì gli occhi rigirarsi e la schiena inarcarsi contro il suo volere. Rimase lì, come un manichino, sottostando a convulsioni che non le appartenevano e a lievi gemiti gutturali mai uditi prima. Una donna irrupe nella stanza.

«Dì il tuo nome, Lena» tuonò Iris chiudendo la porta a chiave e tuffandosi sul corpo della giovane, senza però mai osare toccarla. Lena mugugnò.
«Dì il tuo nome, Milena» digrignò i denti serrando le mani a pugno e indietreggiando precipitosamente. La camera si strinse in una manciata di secondi, non lasciando spazio ad altro se non a ciò che lentamente cresceva dal corpo della ragazza raggomitolata a terra. Iris sentì il sangue gelarlesi nelle vene. Quando la neve, depositatasi dolcemente ai lati della strada, s'impregnava di smog e sporcizia, assumeva un colore inspiegabilmente triste, seppure sempre affascinante per la vera natura dei fiocchi compressati fra loro a formare le distese. Era affascinante quando il Sole faceva capolino dalle nuvole e lasciava splendere anche quella neve sporca, impura, mescolatasi al mondo terreno. Tratteneva comunque la sua beltà, seppure ammuffita. E quella mattina, alle quattro precise, due ali mastodontiche vennero sfiorate dal morbido tocco della Luna, brillando in tutto il loro fascino morboso.

«Milena Serafini».
Le ali si ritirarono in un batti baleno. Scomparvero sotto gli occhi sbarrati di Iris e liberarono la stanza, lasciandola spoglia e silenziosa come lo era stata prima delle tre. Stremata, Milena guardò la ragazza. I tre tagli sulla sua mandibola si erano cicatrizzati, lasciando posto a tre argentee semilune. Le mani affusolate e bianche tremavano, ma erano umane. I capelli ramati oramai erano svaniti e con loro anche gli occhi dolci e nocciola della ragazza che fino a qualche secondo prima si contorceva al suolo. La maglietta del pigiama strappatasi sulla schiena le ricadeva a brandelli sulle spalle. Si poteva intravedere qualcosa sotto, una catenella che Iris non ricordava di aver visto sulla ragazza a scuola. Milena sussurrò un'altra volta il suo nome, abbandonando le palpebre e ondeggiando come un'alga trascinata dalla corrente dell'oceano. A stento riusciva a mantenersi seduta con il peso scaricato sulle braccia.

«D-devo leggere qualc-cosa, io...» farfugliò.
Iris la interruppe, avvicinandolesi: «Chi sei?».
Milena arricciò il naso, non capendo.
«Milena?», Iris annuì scostandole una ciocca lattea dal volto.
«Quanti anni hai?» continuò controllando la giovane con uno strano groppo alla gola. Ancora non si spiegava cosa fosse successo. Non era quello a cui aveva assistito le scorse volte. Non era ciò che era accaduto a lei.
«Diciotto...» sospirò pesantemente, prima di crollare addosso alla sconosciuta che l'accolse giusto in tempo in grembo, le labbra serrate in una sottile linea perentoria.
«Nei sogni spesso si può incappare in una percezione diversa di sé, vedersi come qualcosa che non si è a tutti gli effetti» asserì Iris iniziando a districare dolcemente i nuovi capelli inusuali del suo neonato, «ma tu ricordi perfettamente chi sei e quanti anni hai».

Milena si mosse appena, a metà fra il sonno e la ricezione ancora attiva dei segnali esterni.
Iris fissava un punto indistinto dritto davanti a sé. Non sapeva cosa avrebbe dovuto fare da quel momento. Ma di una cosa era fermamente convinta.
«Questo non è un sogno, Lena».

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E FINALMENTE IL TERZO CAPITOLO!
Direi che siamo arrivati al vero punto della storia. Ho letto che alcuni di voi pensavano che Milena si stesse trasformando in un Vampiro o in Sirena, una creatura fantastica che già conoscete tutti. E invece no! Quando parlavo di razze mai create prima, ecco a cosa mi riferivo. Spero che l'idea vi piaccia, ma passiamo alle vostre percezioni. Iris vi ispira fiducia? Vi piace come personaggio? Avete capito in cosa si è trasformata la nostra protagonista? Cosa vi aspettate dal prossimo capitolo? Non vedo l'ora di leggere i vostri commenti!
Buon inizio di scuola e a presto.
-Nastia

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