2. Call me
La morte di mia madre mi ha colto di sorpresa, come un pugnale affondato nel cuore. Nonostante il nostro rapporto fosse tutt'altro che idilliaco, segnato da anni di incomprensioni e silenzi assordanti, era pur sempre l'unico genitore che mi volesse un minimo di bene. Quando mio padre abbandonò la nostra fragile barca, lasciandoci soli, lei sprofondò in un abisso di dolore, incapace di risalire in superficie.
Nonostante anni di abusi e violenze, sia fisiche che emotive, subite sia da parte sua che da mio padre, nonostante la libertà ormai a portata di mano, lei non riusciva a staccarsi da quell'uomo che l'aveva annientata, che l'aveva privata della sua luce, della sua forza. Era come se una parte di lei fosse morta insieme a lui, lasciando spazio solo a un guscio vuoto, consumato dal rancore e dalla disperazione.
Era sempre stata una donna forte, o almeno così pensavo. Ma la sua depressione, come un'ombra oscura, si insinuò in ogni angolo della nostra vita, avvelenando ogni momento, ogni respiro. Lei era sia vittima che carnefice. Vittima di un uomo che l'aveva spezzata, che l'aveva fatta sentire inutile, indesiderata, che l'aveva privata della sua indipendenza. Carnefice nei miei confronti, perché il suo dolore, la sua rabbia, si riversavano su di me come una pioggia acida, corrodendo la mia anima.
Gli abusi emotivi che subivo erano come colpi di pugnale al cuore, ferite che non guarivano mai del tutto. Per anni ho pregato, supplicato, che smettesse di tormentarmi, di ferirmi. E alla fine, ha smesso. Ha smesso di vivere.
Non avrei mai creduto di provare un dolore così profondo per la sua morte. A pochi giorni dal funerale, mi ritrovai solo ad affrontare il peso dell'organizzazione, ad occuparmi di ogni dettaglio. I parenti materni, estranei alle nostre vite, erano un'ulteriore zavorra, un peso che gravava sulle mie spalle già provate. Tra pochi giorni avrei seppellito l'unica donna al mondo che avessi mai amato, colei da cui avrei desiderato, con tutto il cuore, anche solo un briciolo dell'affetto che lei non era mai stata in grado di darmi.
La sua assenza era un'eco assordante, un silenzio che gridava la solitudine di un amore mai sbocciato, mai compreso. In quel momento, compresi che il dolore non sarebbe mai svanito del tutto, che le sue cicatrici sarebbero rimaste impresse nella mia anima per sempre
Era ormai pomeriggio inoltrato, il sole ardeva alto nel cielo mentre ombre lunghe si allungavano per le strade. Tra poche torno a lavoro, ma non ho chiuso occhio tutta la notte. I miei pensieri sono un tumulto di ricordi, dolore e angoscia. Non riesco a scacciare l'immagine di mia madre stesa immobile, il suo viso pallido e sereno come se fosse finalmente in pace.
Con un sospiro profondo, prendo il telefono e compongo il numero del mio migliore amico, Louis. Era l'unica persona a cui posso confidare il peso che mi schiaccia il petto.
«Hey, che succede» risponde Louis dopo qualche squillo, chiede, percependo subito la tensione nella mia voce. Non ero solito essere così cupo.
«Vieni a casa mia, subito! Per favore» dissi con voce tremante.
Louis non fa domande. Attacca il telefono e in pochi minuti il mio campanello suona. Lo abbraccio forte, lasciando che il suo calore mi conforti un po'.
Io e Louis eravamo amici da sempre, legati da un'amicizia solida e profonda come le radici di una vecchia quercia. Ci conosciamo a menadito, abbiamo condiviso segreti, risate e lacrime. Louis è il mio confidente, il mio porto sicuro.
È l'opposto di me: solare, espansivo, sempre pronto a dare una mano. È lui che mi ha tirato fuori dal giro della droga, dove circola come l'acqua in questo quartiere marcio. È lui che mi ha fatto capire che la vita vale la pena di essere vissuta, anche quando tutto sembra buio e senza speranza.
Passiamo il resto della giornata insieme, uniti dal dolore e dalla complicità. Louis mi aiuta a organizzare il funerale di mia madre, occupandosi di ogni dettaglio con la sua solita efficienza e premura. Rinunciò persino ad un appuntamento con il suo amato Harry per starmi accanto in questo momento così difficile.
Come ogni sera, vado al locale per sfogare la rabbia e la frustrazione che mi divorano. Salgo sul ring, pronto ad affrontare l'ennesimo avversario. Era un ragazzo mingherlino, non sembra un tipo da combattimento. Non voglio fargli troppo male, così lo faccio cadere a terra con una semplice ginocchiata. Ma lui non si arrende. Si alza barcollando, gli occhi pieni di rabbia e determinazione.
Non ho altra scelta che continuare. Lo colpisco con pugni veloci e precisi, cercando di tenerlo a distanza. In poche mosse, è di nuovo a terra, sconfitto e umiliato. Forse si era pentito di aver accettato quella sfida persa in partenza.
Combatto contro altri due avversari, il mio corpo una macchina da guerra mossa dalla rabbia e dal dolore. Ma anche mentre combatto, non riesco a togliermi dagli occhi quel ragazzo. Lo sento fissarmi, il suo sguardo intenso che mi penetra l'anima.
«Chissà da quanto tempo mi sta guardando» penso, sentendo un brivido percorrere la mia schiena.
Involontariamente, mi passo la lingua sul labbro inferiore, un gesto nervoso che tradisce il mio turbamento. Poi, con un ultimo colpo, concludo il combattimento e mi dirigo verso il camerino.
Mentre mi cambio, non riesco a scacciare dalla mia mente l'immagine del ragazzo. I suoi occhi mi ossessionano, il suo sguardo enigmatico mi turba.
Una volta pronto, vado da Josh, per farmi pagare.
«Hey Malik, sta sera eri fiacco, che è successo?» mi chiede preoccupato.
«Ti basta sapere che sono di nuovo solo?» rispondo con voce roca, fissando le mie scarpe come se fossero la cosa più interessante del mondo.
«Cosa? No... mi dispiace tanto...» balbetta Josh, confuso dalla mia risposta.
Lo interrompo con un gesto della mano. «Tranquillo... ci si vede» dico semplicemente e mi avvio verso l'uscita.
*
È sera, dopo l'incontro del giorno prima non ho più toccato cibo. Sono giorni che non ingerisco qualcosa di buono. Spesso mi capita di non mangiare, come una sorta di punizione nei miei confronti. Forse per come sono stato cresciuto, il cibo è un lusso che mi posso concedere quando me lo merito. Ma ora non ho tempo per intraprendere una battaglia contro me stesso.
Telefono alla pizzeria più vicina e pochi minuti dopo il mio campanello suona nuovamente.
Vado ad aprire alla porta, non credo ai miei occhi, quasi cado a terra, quando lo vedo li, il ragazzo che ha tormentato le mie notti, con un uniforme rossa e il logo della pizzeria sul cuore.
Mi fissa, forse non si ricorda chi sono.
«Tu, sei quello dell'altra sera vero?» Mi chiese titubante.
«Mmh.. Si, sono Zayn» dissi sorridendo leggermente, titubante fin da subito se rispondergli o far finta di non averlo mai visto.
«Vuoi entrare?» Le parole mi volano via di bocca, cerco di mantenere il mio tono da duro, ma escono soltanto parole sconnesse senza senso.
Lui annuisce.
Lo faccio sedere sul divano, quando il telefono di casa squilla.
«Scusami un minuto.» dico, per poi allontanarmi nell'altra stanza per rispondere alla chiamata.
«Eccomi» dico poco dopo rientrando in sala, ma purtroppo non trovo più nessuno ad attendermi. Sbuffo.
Mi avvicino al tavolino del soggiorno per prendere una fetta di pizza e accendo il televisore come consolazione. Mi accorgo subito di un foglietto accanto alla scatola.
"Scusami, ma dovevo ritornare a lavoro, questo è il mio numero, chiamami
Ps: GRAZIE"
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