XXV

Rines venne scortato dal suo nuovo esercito, gli Elfi oscuri marciavano a file ordinate, armati di scudi, archi e spade. Tra le schiere intravidi alcuni guardiani ostili, creature fatate che non erano riuscite a scappare in tempo, legate al suo regno tramite il sangue. Gran parte erano troll e ghoul delle foreste, spinti da un forte sentimento di rancore verso gli umani.

Una donna umana corse verso Damian, indossava una mantella dai ricami rossi, in mano teneva uno schermo piatto brillante. Aveva i capelli raccolti in una crocchia, biondicci, l'espressione accigliata.

«Damian, ci superano di numero» lo informò. «Potrebbe essere un problema.»

«Non insieme» specificai speranzosa.

Lei mi gettò un'occhiata disgustata, senza parlare capii che avesse intuito cosa fossi e mi odiava. Di nascosto lo avrebbero fatto tutti, al Nido, anche sapendo la mia natura e le mie origini.

«Damian» lo chiamò nervosa. «Come puoi credere alle loro parole vedendo ciò che hanno fatto? Hanno ucciso dei bambini, il nostro stesso figlio. Questa è una dichiarazione di guerra, sono pericolosi! Si stanno muovendo per una guerra. Dai l'ordine!»

«Guerra interna, e sai che questi problemi sono fuori dalla nostra portata. L'Esercito può giudicare solo i crimini contro l'umanità. In base a ciò che hanno detto, hanno due fazioni differenti e problemi altrettanto diversi. I due re sono in lotta uno contro l'altro» rispose Damian.

Lei aprì la bocca. «E gli credi? Ti stanno incantando.»

«Non vedo la ragione di mentire. Se metteranno un piede fuori saranno facili bersagli. Finché restano nel loro territorio possono annientarsi a piacimento» sospirò stanco. L'altra si trattenne dal rispondere. «Lei è mia moglie Abigail. Siamo venuti qui per cercare il colpevole e lo abbiamo trovato.»

«Sono Elfi!» ringhiò lei quasi in lacrime. «Sono tutti uguali.»

Ahdeniel fece un passo avanti minaccioso e Abigail fece per prendere la sua spada, spaventata. Aurelion si mise in mezzo e il ronzino color perla fece indietreggiare il cavaliere. Quest'ultimo sibilò delle dure accuse sull'Esercito che io feci finta di non ascoltare.

«Mi dispiace per ogni cosa, dico davvero. Abbiamo tutti perso qualcuno. Voi avete perso vostro figlio e per colpa dei vostri antenati io ho perduto la mia famiglia, mamma e papà; mia sorella è diventata un mostro a causa mia. Sono cose che non si superano e basta» borbottai, mentre la donna mi fissava brutalmente. «Non esigo il vostro rispetto o protezione, ciò che voglio è far finire questa cosa e tornare a casa mia. Non siamo noi i vostri nemici, ma loro.»

Indicai Rines, il quale si fermò a qualche decina di metri di distanza, con gli Elfi nervosi, tra paura ed astio. I Dominatori si tennero stretti, rimettendosi agli ordini del loro generale e rimasero alle loro postazioni.

Un altro ragazzo corse da noi, aveva i capelli metà rasati e delle vecchie ferite sul volto. Un falco gli volava appresso, più minuto rispetto all'aquila reale del generale.

«Rilevo un'intensa attività demoniaca, l'aura si sta espandendo velocemente» li informò.

«Un Demone! Nascondono un Demone nero, oppure un altro Mastino! Traditori!» continuò Abigail collerica.

Feci per aprire la bocca, spiegare che non ci fosse alcuna forma di pericolo primaria e che fosse solo mia sorella. Ignoravo i loro metodi di differenziazione delle razze o come avevano deciso di chiamare le maledizioni, mi dette fastidio che parlassero di Cel in quel modo. Tra i due quelli che avevano ucciso di più erano loro.

Rines galoppò davanti alle sue schiere. Indossava ancora la sua armatura cromata e vedere lo stemma della corona di Luce addosso a lui mi fece imbestialire. Ignorò completamente gli umani, si assicurò solo che le colonne producessero ancora sufficiente magia per rendere lo scontro equo tra di noi.

«Lode al nuovo re» scandì infelice Ahdeniel. Sentendo l'epiteto, Damian si irrigidì. «Potrai chiedergli le informazioni che desideri, umano, se al termine del nostro scontro avrà ancora la testa. Era uno dei migliori cavalieri della Luce e ha tradito persino il precedente re, lasciandolo morire per il trono. È lui che desidera la guerra.» Si sfiorò il polso vuoto.

«E voi cosa desiderate?» domandò l'altro soldato.

«Fermarlo» fece Aurelion.

«Siete una razza pacifica.»

«Sì, ma costretti scendiamo anche noi in guerra. Rines proseguirà il piano creato da Nergal e lo amplierà lungo la linea dei mondi, per questo ci ha portati qui e ha portato voi da noi. Pensava ci annientaste prima del suo arrivo.»

«Ascoltate» ingiunse Damian e alzò il mento verso Rines.

Tesi le orecchie e sentii il frusciare dei fusti, i fischi del vento e il respiro stremato dei soldati sparsi. Là, oltre la distanza che ci divideva, Rines stava parlando alle sue truppe e lo stavano acclamando. Innalzava il suo ideale, un mondo privo della crudeltà umana e forse aveva anche ragione a reclamarlo, gli umani ci avevano portato via tanto, eppure c'era una parte di me che credeva che fosse sbagliato decidere per altri. Io non ero nessuno per decretare la morte di un'altra creatura, tanto meno lui.

«Dobbiamo fare qualcosa» ansimò il ragazzo. «Se escono dai confini riusciremo a farcela?»

Damian ci pensò a lungo. Con i Demoni dalla loro parte, gli Elfi di Rines erano spacciati, tuttavia dovevamo impedirgli di mettere le mani sull'oracolo e su Celestia.

Rines si voltò e fischiò forte, alzò il pugno destro e un'onda di luce di propagò dalle sue dita. Aveva un suono acuto, simile a dei tintinnii, ed era fresco, profumato di sabbia e fiori dolcissimi. Il suo corpo era teso come la corda di uno strumento.

«Celestia!» urlò a gran voce. «Fatti avanti!»

«Bastardo...» sputai velenosa e Ahdeniel mi bloccò prima che potessi tuffarmi avanti.

Ci fu una scossa di terremoto e la terra sotto di noi tremò. I cavalli nitrirono sbizzarriti e i Demoni cominciarono a tremare intimiditi, sentendo un quel suono gutturale, tetro e maligno, provenire dalla brughiera avvolta da una nebbiolina.

Dalle chiome degli alberi emerse una figura oscura. Celestia si alzò in piedi, splendida, magnifica nella sua mostruosità, e si guardò intorno rimirando ogni presente con cura. Era enorme, la coda sferzava gli alberi e si fece strada fino alla piana, usando denti e artigli.

«Khol, che classificazione ha? Che rango è?» domandò Damian senza fiato.

Abigail consultò quello schermo inquietante su cui scorrevano strani grafici e parole.

Khol era immobile. «Con quell'istinto omicida è un rango S senza dubbio! Mi fa fremere e l'effetto che ha sui nostri è spaventoso!»

L'aquila e il falco volavano in cerchio, poi scomparvero nel nulla in una nuvola oscura.

Celestia si lamentò e la guardai triste, ricordando con dolore i suoi "auuunn" di timore. La vecchia creatura con cui ero cresciuta, quella spaventata dai tuoni e dai rumori forti era scomparsa. Quelli erano grugniti affamati.

Aprì la bocca e le labbra si incresparono. «Ni... co... Niii... co» tossì.

«Quella cosa parla?» strillò Abigail. «In berserker ha ancora raziocinio? È spaventosa!»

«Dobbiamo fare qualcosa!» ripeté Khol. «Solo cosa?»

Damian mi guardò. «Il Demone può attraversare la barriera?»

«Tiene lontano i pericoli, ma Cel ci è nata dentro. La magia è parte di lei.»

«Potremmo avvelenarla con dell'acqua santa» propose Abigail.

Aurelion negò. «Celestia è una maledizione, non consideratela come un Demone puro. Ne è una forma. Perché è cresciuta così tanto, di che si nutre?»

Damian guardò prima lui e poi me, credendo impossibile che non sapesse una nozione basilare sui Demoni. Io e mia sorella eravamo legate, prima di quell'evento si era nutrita di carne, pesce e tutto ciò che potesse soddisfarla, come se fosse una comune belva selvaggia; da quando ero tornata nel regno della Luce, il giorno prima, si era rifiutata di scomparire o tenere la testa bassa. Era come se volesse essere ascoltata. Vista. Considerata.

Celestia era stufa di essere una mia schiava. Si stava ribellando.

I Demoni si nutrivano di sangue e di emozioni.

Mi tastai il petto e feci del mio meglio per contenere la paura e la rabbia che mi stavano frullando dentro. Gli Elfi neri la stavano acclamando e il rumore la incuriosiva.

Rines si avvicinò e Celestia si inclinò. Sperai lo divorasse o lo schiacciasse, invece si lasciò toccare con simpatia e Rines le diede un baciò sul muso tozzo.

«Sei meravigliosa, il mondo deve vederti meglio» la elogiò. «Tu meriti la vita, smettila di essere legata a quella ragazzina. Lei non ti desidera più, ha un altro a cui pensare, vedi?»

Celestia ringhiò furiosa e Rines fece un sorriso crudele. Aveva un'espressione felice, spensierata, e vederla mi fece contorcere lo stomaco. Mi sentii come se mi avesse appena strappato uno strato di pelle dal corpo, uno che non avrei mai più potuto avere indietro.

«So che non sono le maledizioni i soggetti dei vostri malefici, ma potrebbero funzionare ora?» domandai piano a Damian.

Khol rispose al posto suo. «Demoni e maledizioni sono diversi. Ti sei risposta da sola.»

Celestia era interessata a ciò che Rines aveva in mano e si muoveva di conseguenza. Aveva i frammenti di magia dell'oracolo e le onde erano intense, un vero richiamo magico.

«Ecco il mio ordine, dolcezza. Facciamo un gioco. Quando pronuncerò la parola "inizia", tu attraverserai il confine e ucciderai quegli umani che ti hanno fatto soffrire. Ti hanno fatto del male, ricordi? Ti hanno uccisa, ti hanno trattata come una bestia e anche adesso vedi il loro sguardo? Sei un mostro ai loro occhi.»

Celestia si agitò.

«Attraversa il confine e muore» mi avvertì Damian, mostrandomi la sua spada.

«Non vi farà del male» ripetei.

«No?» commentò Ahdeniel.

Mi feci avanti e corsi in mezzo. Troppe persone stavano soffrendo a causa mia.

Il vento mi schiaffeggiava la faccia e mi spazzai via i ricci dagli occhi. I due popoli aspettavano fedelmente all'ombra dei propri re il primo ordine. Le armature degli Elfi neri luccicavano come l'inchiostro, parevano corazze di insetti.

«Togli quella mano da mia sorella, Rines» lo minacciai. «Ti ho fatto il culo una volta, ti darò una seconda lezione volentieri.»

Aurelion era dietro di me, arrivò camminando senza far rumore e si schiarì la gola. «Per secoli il regno della Luce e quello delle Ombre hanno condiviso una pace volontaria. Io stesso sono stato testimone di quel giuramento e sono qui per portarlo in vigore. Se vuoi combattere per le leggi lo farò senza esitazione, Rines.»

«Sulla tua morte» esclamò lui. «Per anni ti ho consigliato e hai preso i miei pareri come fossero scherzi. Ho trovato in Nergal un alleato più soddisfacente. Con le tue parole nascondevi il nostro deludente destino, Aurelion, a te andava bene morire lentamente dagli umani, dall'inquinamento e dai loro peccati. Dobbiamo fermarli.»

Aurelion scosse la testa. «No, Rines. Gli umani non meritano la morte. Puoi educarli.»

Rines trovò la proposta ironica. «Educarli ad una morte silenziosa.» Cel soffiò forte, evitando i miei occhi. «Sono sempre stato al tuo fianco, Aurelion.»

«Ora starai alle mie spalle, invece» fece eco stizzito.

«Ebbene» gioì Rines «potrei proporre un accordo. Combatterò contro un membro reale di egual titolo, se mi sconfiggerà avrai la tua pace.»

«E questo accordo ha altre clausole?» si affrettò a chiedere Aurelion.

Damian restò in disparte, come gli altri dell'Esercito, ascoltò e studiò la situazione.

«Cederò il trono e felicemente poserò la corona sulla testa del primo che la toccherà, lo bacerò sulle guance e gli sarò fedele fino alla morte» scherzò. «A patto che vinciate.»

«E se io cadrò, regnerai anche sul mio regno» accordò Aurelion. «Acconsento.»

«Bene, ecco il mio sfidante» annunciò Rines con un ampio sorriso. «Fatti avanti, Nico.»

Calò un terribile silenzio e anche Cel pronunciò il mio nome in ricordo. Per dei lunghi secondi, il rumore degli alberi fu l'unica cosa udibile, prima del mio sospiro.

«Devi proprio odiarmi» constatai.

Aurelion saltò in mezzo e mi afferrò una spalla, tirandomi indietro con molta più forza del necessario. Celestia ignorò Rines, si liberò della sua mano e inquadrò gli artigli dell'armatura di metallo incastrati sulla mia. Dalla sua bocca si levò un suono orribile.

«Codardo, l'accordo era con me!» sputò Aurelion.

«Ho detto "un membro reale di egual titolo". L'hai portata qui in veste di primo cavaliere, ma lei è anche la tua consorte ed è una regina. Te lo sei dimenticato? L'accordo è valido.» Si sistemò la corona sulla testa. «Puoi sempre ucciderla di mano tua e sfidarmi in prima persona. Sarei curioso di vedere come lo faresti. Lento, sperando di trovare una soluzione a questo trabocchetto, o veloce per farla smettere di soffrire?»

Trattenni Aurelion e lo spinsi indietro. «Smettila di raccogliere le sue provocazioni, è ciò che vuole. Ha lanciato una sfida a me, se lo attacchi darai l'ordine!» tuonai. «È il metodo migliore. Posso farcela!»

Scosse il capo. «Sei una folle se credi che te lo lascerò fare.»

«Regina finché vivo» esclamai.

Gli sferrai un colpo al ginocchio, proprio sul punto in cui aveva la ferita, e Aurelion cadde a terra, trattenendo un lamento di dolore. L'onore di un cavaliere era profondo, sapevo già prima di iniziare che Rines avrebbe sfidato me. Aurelion era ferito, battere un re in quegli stati non gli avrebbe dato niente.

Io, al contrario, ero un simbolo. Ero colei che lo aveva umiliato davanti al suo popolo, quella che aveva messo i bastoni tra le ruote dall'inizio senza saperlo e l'ultimo motivo di Cel per resistere all'oblio.

Rines spinse Celestia a lato e lei si tuffò a destra, con la coda falciò una linea di Elfi neri e questi volarono indietro. Mi tolsi i guantoni e mossi le dita, preparandomi, mentre Rines mi guardava con boria, divertito.

«Senza un'arma finirà a breve» mormorò annoiato. «Speravo ne portassi una, in modo tale da farmi divertire un po'.»

«Preferisco così.»

«Se non avessi fretta farei in modo di ucciderti lentamente, tagliandoti quelle schifose orecchie di persona. Ma ora mi sento buono e ho altro a cui pensare» continuò, facendo scattare la spada da una mano all'altra con maestria.

Alle mie spalle, Calex e Len trascinarono via Aurelion e con la coda dell'occhio vidi Ahdeniel e il generale parlare. Di me, di sicuro, su quante probabilità avessi di uscirne viva. Ero sicura di me e prima avrei scommesso sulla mia vincita i miei risparmi.

Qualcosa mi fece desistere. Rines si muoveva in modo diverso, più aggraziato e leggero.

Rines inclinò la testa. «Mi ero trattenuto quella volta. Al torneo. Avrei dovuto vincere io, lo ammetto, ma Nergal mi ha convinto a non ucciderti nel sonno» sottolineò. «Credi davvero che ti avrei fatto vincere così facilmente?»

Saltò in avanti ed ebbi appena l'impulso di alzare il braccio, stordita dalle sue movenze rapide. La lama mi sferzò la piastra di metallo dell'avambraccio talmente forte da farmi vibrare l'intero corpo. L'impatto mi fece quasi cadere indietro e indietreggiai di qualche passo.

«Che ne pensi? Ti è piaciuto?» canzonò.

In modo palese venne avanti e parai di nuovo il colpo. Mi attaccò in modo esposto per farmi capire la sua forza. Colpì nello stesso punto e la piastra si inclinò, ferendomi il braccio al di sotto della protezione.

Rines si fermò a guardare l'espressione terrorizzata di Aurelion e Calex era in lacrime, consapevole di non poter intervenire. Nei volti dei cavalieri della Luce vennero a galla i primi dubbi, la rassegnazione.

Mi slacciai la piastra rovinata e scoprii che mi aveva lacerato la pelle del braccio, rossa e pulsante. Rines si pregustò il momento.

«Non hai mai avuto speranze» mi insultò. «Sei debole ed inutile. Con un'arma, be', forse avresti potuto avere più tempo.»

Ricordai la finta gentilezza di Rines, il quale dopo il torneo aveva insistito a trattarmi come una regina a pieni poteri. Solo una volta Aurelion aveva combattuto contro di me e lo aveva fatto per divertimento. Un cavaliere si addestrava per anni e capii che Rines avesse deciso di muoversi in quel modo per convenienza, per eludermi dagli stessi allenamenti.

Venne verso di me e rotolai a lato, evitando un fendente diretto. Mi mossi lesta nel mentre lasciò cadere la spada verso il nulla, lo caricai con un pugno e sollevò il braccio. Senza l'armatura gli avrei fatto molto male, invece venni sbalzata indietro e caddi a terra con le nocche sbucciate.

Affondò ancora e per pura fortuna mancò la giugulare, ferendomi appena la spalla, sull'orlo. Gridai e guardò la lama ancora pulita. Feci per rialzarmi, in quella posizione era troppo pericolosa e io stavo perdendo terreno. Mi schiacciò di peso un piede sullo sterno e boccheggiai senz'aria.

«Che gran pena» bofonchiò. «Ed eri tu il gran terrore di Nergal?»

Gli afferrai la caviglia e la storsi con tutta la forza che possedevo. Dalla sua parte ebbe che la protezione del piede fosse collegata alla schriniera del polpaccio e ciò gli limitò i danni, altrimenti gli avrei rotto l'osso.

«Tu...» urlò, mi afferrò i capelli e mi alzò di peso. «Lurida...»

Non scoprii mai cosa aggiunse dopo, mi diede un pugno sul naso e volai indietro. Ebbi l'impressione di volare per quei miseri secondi e appena sbattei la schiena fu come se un peso enorme mi avesse compresso lo sterno. Sputai l'aria e un po' di saliva, strisciando via. Sentivo in bocca il sapore del sangue.

Un braccio mi afferrò e pensai si trattasse di Aurelion, che fosse venuto da me per salvarmi e avesse trovato una soluzione per far fermare quella follia. Al contrario mi ritrovai faccia a faccia con Damian e fumava di sdegno.

Senza rendermene conto, avevo superato la linea di confine. Attorno a me c'erano decine di uomini e ragazzi armati, mi fissavano come se fossi uno scherzo della natura, seri, e tremai.

«Pensi che ti lascerò fare la figura della stupida, mentre fai piombare sul mio Esercito questa onda di vergogna?» mi insultò e mi sentii uno schifo ad essere trattata in quel modo persino da un umano.

Singhiozzai. «Mi dispiace... io...»

Mi afferrò la faccia e mi tenne ferma, con le dita premute sulle guance. Udii gli urli di Aurelion e Calex dietro di me.

«Ora tu la smetti di frignare come una squallida ragazzina, ti alzi e combatti» mi ordinò.

Gli avrei detto che io non ero affatto un suo sottoposto e non aveva alcun diritto di pretendere. Al contrario riuscii solo a focalizzarmi sul dolore al braccio e fermare il tremore era impossibile.

«Dov'è la tua arma?» mi interrogò.

«Io... non ce l'ho» risposi.

Mi guardò storto, alzò una mano e un ragazzo accanto a lui scappò via. Avevo intorno animali di ogni genere, dai cani ad un grosso orso bruno, e mi stavano annusando cauti. Cel camminava su e giù, dubbiosa.

Sentimmo le risate degli Elfi neri, di Rines, il quale si stava facendo beffe di me e stava facendo gesti osceni. Damian osservò senza parlare, ignorando la rabbia montata.

«Li senti, stanno ridendo di te» mi fece notare. «Pensano che tu sia debole, un palloncino che si può far scoppiare a piacimento, ti trattano come uno scherzo. Ti piace?» Scossi il capo. «Tu combatti anche a nostro nome, porti nel sangue i geni di uno di noi, quindi alzati e combatti seriamente.»

Il ragazzo che aveva cacciato tornò con una spada, una bellissima arma forgiata con un metallo a me sconosciuto, color alabastro. La sfiorai e la presi in mano, era bilanciata, la lama leggera e di ottima forgiatura, liscia.

La studiai e la lasciai a terra. «Io non uso le armi» dissi scontrosa.

«Tuo padre che arma aveva?» mi domandò uno dei ragazzi, porgendomi un arco.

Il suo Demone, un gatto rosso, soffiò scontroso e gli morse la caviglia. Era impossibile usare l'arma di un altro Dominatore.

«Non è questo... è che... a me le armi non piacciono» provai a difendermi.

Khol strinse i pugni. «Se potessimo entrare...»

L'altro gli fece cenno di tacere. «Hai l'animo da Dominatore, ma non sei mai stata addestrata. Hai un Demone, usalo! Sono amplificatori, quindi di qualsiasi cosa lei si nutra, dagliene di più e lascia che lei ti animi. Se è davvero tua sorella non ti divorerà.»

Mi sollevò, prese la spada da terra, spingendomela in mano. Guardai Rines con odio e ribrezzo, per quanto mi sforzassi di capirlo, di comprendere la sua voglia di sangue, faticavo. Avevamo perso le speranze con la venuta dei Dominatori e lui aveva conservato la collera a lungo e in modo tossico.

«Lascia che ti guardino dall'alto in basso, lascia che ti prendino in giro e ti disprezzino. Sei superiore a loro, quindi non importa» consigliò Khol. Una ragazza lo guardò rapita ed annuì. «C'è differenza tra usare una spada e uccidere.»

«Non esitare» disse Damian, allargò il panciotto dell'uniforme e mi passò una pistola.

Era un'arnese pesante di metallo, carica, la canna lunga. Come mi aveva insegnato mio padre, feci uscire il tamburo e lo feci scattare di nuovo dentro, mettendo il proiettile in canna.

«È una di noi» mormorò affascinata una ragazzina con la bocca aperta.

Un altro rise. «Spade e pistole si completano come melone e formaggio!»

«Si dice melone e prosciutto, imbecille» lo corresse l'amico turbato.

«A me il prosciutto non piace però.»

Quello che doveva essere il capitano, un uomo con i capelli corti e castani dorati, diede loro un colpetto sui capi e li intimò di tacere. Una scimmietta ridacchiò, aggrappandosi alle sue spalle e gli avvinghiò la coda attorno collo.

«Dimostra chi sei» ripeté Damian. «Mettici in ridicolo e ti ucciderò io stesso.»

Mossi le mani e mi concentrai sul peso delle armi. La spada era molto più facile da maneggiare, era leggera e la lama era adatta al combattimento. Se avessi evitato i colpi puntati a lato l'avrei scampata di resistenza. Il metallo delle armi elfiche era ottimo negli scontri brevi, era plasmato apposta, ma nel lungo periodo aveva delle pecche evidenti.

La pistola era poco ingombrante, tuttavia il calcio la faceva inclinare all'indietro e necessitava di una presa costantemente salda. Combattendo a lunga distanza avrei vinto io, però non avrei mai bucato quell'armatura con quei proiettili.

Sfidai Rines con lo sguardo e accettò senza battere ciglio.

Una ragazza mi venne vicino. Avevamo lo stesso colore della pelle, quel brunetto caldo, e i suoi capelli erano cortissimi, quasi rasati a zero. Aveva una benda sull'occhio destro e sulla guancia dei brutti segni.

«Ti serve un punto focale» mi fece presente, mostrandomi le sue due pistole. «Quando salti. Concentrati su un punto o cadrai. Controlla il baricentro.»

Annuii in un misero ringraziamento e tornai oltre la linea di funghi. La magia della zona mi animò e mi scrollai di dosso il dolore delle ferite, delle botte e il fiato corto. Aurelion tenne gli occhi su di me e zoppicò in avanti, stupito.

Gli mostrai la spada e la pistola. Io avevo già visto un'arma da fuoco, sapevo come smontarle, caricarle e mirare prima di sparare. Gli Elfi tuttavia guardarono quella cosa con sospetto.

«Tu...» biascicò Aurelion. «Tu non sai usare una spada.»

La presi come un'accusa. «Io non ho mai detto di non saperla usare. Io non la volevo usare. Sai cosa diceva delle spade mio padre? Che fanno finire il divertimento troppo presto.»

Mi diede un bacio bisognoso, davanti a tutti e alcuni umani fischiarono ed esclamarono vivaci, divertiti da quelle dimostrazioni pubbliche. Da noi potevano essere visti come una forma di ribellione all'etichetta di comportamento, a loro le emozioni piacevano, le vivevano e doveva essere fatto così.

«Torna» mi pregò.

«Torno sempre, sono il tuo parassita preferito.»

Lasciai le sue mani e camminai verso Cel. Abbandonai ogni sentimento di terrore, concentrandomi solo su Celestia e sul suo comportamento. Anche da piccole litigavamo spesso, lei mi prendeva in giro, mi spingeva e io piangevo. Era stata sempre lei a tornare da me, a scusarsi e ad abbracciarmi, seppure a sbagliare tante volte ero stata io. Era lei la sorella maggiore, quella che si prendeva cura di me e mi sopportava ogni giorno.

Era arrivato il mio turno.

Mi vide all'ultimo, impegnata ad osservare l'immensità del mondo oltre le rocce che la avevano imprigionata per tutto quel tempo. Saltò a lato e si incurvò con il muso, soffiandomi con diffidenza.

«Mi dispiace» dissi piano. «So che puoi comprendermi, lo hai sempre fatto. Da quando sei morta davanti ai miei occhi non ho mai smesso di darmi la colpa e di tentare di riportarti indietro, ignorando i tuoi desideri. Ci sono successe tante cose. Anche per i miei zii la tua assenza era insopportabile e io ho desiderato di morire moltissime volte...»

Cel emise un guaito, un lamento sincero, e i suoi occhi batterono vigili. Sapeva che la parola "morte" fosse brutta.

«Da quando te ne sei andata è tutto diventato complicato, Cel. Ho dovuto abbandonare la nostra casa, i nostri giochi e vivere al villaggio. Mi sentivo diversa dagli altri e sai perché. Sei come me, in fondo. La cosa peggiore è stata vivere senza di te, doverti nascondere e sentire la paura nella voce degli abitanti del villaggio che parlavano di uno spirito oscuro nei boschi...»

Si spostò a lato e con la coda colpì la terra, provocando un grosso solco.

«Celestia!» la chiamò Rines. «Che aspetti? Divorala!»

Gli dedicò solo un'occhiata superflua.

«Continuo a vedere quella scena nella mia testa. Ogni notte. Non importa quanti anni sono passati o cosa faccia, ripenso a quell'uomo che ti ha tagliato la gola e penso che se solo tu non avessi perso tempo a nascondermi, a spostare le travi del pavimento, saresti ancora viva. Sarebbe tutto a posto...» singhiozzai, pulendomi gli occhi.

L'armatura mi bloccò il movimento e impazzii. Strappai i lacci e me la tolsi di dosso, lanciandola via. Gli Elfi della Luce gridarono impauriti al mio stupido gesto e Rines trattenne delle risate.

«Avremmo potuto crescere insieme e saresti stata stupenda, molto più di quella tonta di Isi. Avresti avuto dei bambini bellissimi e tu saresti potuta venire al mio matrimonio, stringermi a te e cantarmi quella tua canzoncina...» Guardai Aurelion sopra la spalla e Cel mi imitò. «Lo amo davvero. Tanto.»

Mi indicai il petto. Lei faticava a capire.

«Quel giorno è morta una parte di me, ma tu sei rimasta e l'hai riempita di nuovo! Mi dispiace di essere stata una pessima sorella minore, mi dispiace tantissimo, Cel. Perdonami!» piagnucolai con le lacrime sul volto.

Rines sbucò dietro il fianco di Cel e alzò la spada. Corsi a destra ed evitai che mi tagliasse a metà giusto un attimo prima. Il Demone si sollevò, gonfiandosi, e urlò a pieni polmoni di spavento. Appena mise di nuovo le zampe anteriori a terra, la fece tremare una seconda volta e io e Rines cademmo, insieme a tanti Elfi e umani.

Tornammo in piedi in un affanno e Cel si spostò, rifugiandosi tra gli alberi.

«Credi che una spada e un giocattolo possano aiutarti?» mi sputò addosso velenoso.

Provò a colpirmi e bloccai la lama con la mia, dopodiché gli sparai sul piede. Come avevo immaginato il proiettile schizzò via, però lo fece ululare di dolore. Non mi importava più essere considerata un'Elfa o un'umana, tanto meno un mostro. Aurelion mi avrebbe amata in ogni caso e il mondo elfico necessitava della mia forza.

«Credi che non ti conosca abbastanza? Sei solo una ragazzina a cui è stata strappata la famiglia. Quelli come te sono soli ed impauriti, vi nascondete dal mondo sperando di non essere notati e nel cuore della notte desideri di morire» mi prese in giro. «Lascia che esaudisca il tuo desiderio, Nico!»

Ci scambiammo dei colpi ben studiati. Rines era forte e non potevo nemmeno reggere la spada con entrambe le mani, come faceva lui. Dall'altro campo l'arma non mi rallentava, ero agile e gli tenevo testa.

«Ti comporti come se mi conoscessi» ripetei. «Come se conoscessi me e mia sorella. Io non sono una povera orfanella, non ho mica bisogno della tua pietà. Quando mi hai sfidato dentro di me ho riso.»

Sogghignò. «Vuoi farmi credere che ti piace giocare al gatto e al topo? Sei ridicola.»

«Sai che verso fa un maiale che cade dalla guglia del castello nero?» Ridacchiai. «Lo stesso verso che fai tu, brutto bifolco.»

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