XXII
Raggiungemmo il vialetto di casa dei miei zii. Lo starnazzare delle oche in giardino, scappate da qualche recinto dei vicini, fu per me familiare. Superammo frettolosi il cancelletto di legno e ci infilammo dentro, con le galline che iniziarono a muoversi agitate. La porta su retro mi apparve come un miraggio lontano.
Aurelion era appoggiato allo steccato del giardino, faticava a restare in piedi ed era circondato dalle gallinelle che gli beccavano gli stivali. Si sorreggeva con la spada e tremava leggermente, scosso dal vento e dalla paura. Visto in quel modo, tra la penombra, i lunghi capelli biondi dritti sulla faccia e sporco di sangue, pareva un Demone. Il suo aspetto era spaventoso, ben lontano dall'immagine del re distinto che avevo nella memoria. Quello era il vero volto della guerra.
«Dobbiamo andare a corte» ansimò.
«Ci arriveremo domani. Devo medicarti le ferite o si infetteranno.»
Per dei secondi pensai mi avrebbe ribadito il contrario con ferocia, poi però si rese conto che fosse la scelta migliore. Potevano esserci delle spie appostate nei vicoli o sui tetti, pronti ad assassinarlo, e in quelle condizioni avrebbe perso persino contro un ghoul.
«Il mio re sarà cocciuto come la prima volta che ci siamo incontrati?» lo provocai. «Lascia che ti curi come in passato, Aurelion. Di me puoi fidarti. Te l'ho dimostrato.»
Fissò l'oblio del villaggio, triste e silenzioso oltre lo steccato e annuì docilmente. Montai sulla grondaia e mi infilai dentro casa, entrando dalla finestra nella stanzetta di Isidora in un fruscio. Feci tremolare pochissimo le assi e corsi al piano di sotto, aprendo la porta sul retro, dopodiché aiutai Aurelion ad entrare.
C'era odore di casa, di torta di limone e more, legno, fiori e animali di cortile. Era un aroma intimo, caldo, ricco di ricordi.
L'uomo si afflosciò sul misero sgabello in cucina, accanto al tavolo sparecchiato a metà. C'erano ancora i rimasugli della cena, dei pezzetti di formaggio, pomodori secchi e della ricotta. Vederlo prendere un bicchiere e riempirlo di idromele fu la cosa più buffa e stramba che gli avessi visto fare. Lo bevve in un colpo, gettando la testa all'indietro e tossì.
Si accorse del mio sguardo e si affrettò a pulirsi le labbra. «Con il tuo permesso.»
«Fai come se fossi a casa tua.»
O per lo meno nel tuo castello, pensai.
Si guardò intorno curioso e per poco, muovendosi senza badare allo spazio, diede un colpo al lampadario che pendeva dalle travi del soffitto. Trattenni un risolino innocente. Mi intenerii a vederlo nel mondo opposto in cui aveva da sempre vissuto, sporco, piccolo e pieno di calore.
«Fai piano, i miei zii dormono al piano di sopra. Se si svegliano e ti vedono... impazzirebbero» borbottai, mettendomi un dito davanti alle labbra.
«Perché mai, sono miei sudditi. Non sono un ladro e sono il tuo futuro marito.»
Sospirai. Di certo non poteva capire come la gente del villaggio considerasse una benevolenza immensa avere la sua presenza in casa. Per non parlare di come quella volta, quando sono entrata di nascosto, mia zia mi aveva quasi aggredita con un coltello.
Gli rifilai un'occhiataccia e alzò le mani.
«Va bene. Perché dobbiamo nasconderci? Hai del sale?»
«Del sale?» domandai stranita.
Si indicò la gamba. Aprii un'anta e gli passai il barattolo del sale che mia zia usava per condire le verdure. Non sapevo se servisse del sale speciale per curare una ferita da spada, lui afferrò la boccetta e studiò i granelli.
«Se i miei zii vedessero le ferite... be'...» borbottai.
Annuì. «Facciamo in fretta.»
«Spogliati» gli dissi diretta e mi scoccò un ghigno spavaldo.
Si tolse la camicia imbrattata di sangue e il soprabito, posandoli sullo schienale della sedia. Gli studiai il petto e tirai un sospiro di sollievo nel vedere che, oltre a qualche graffio e leggero livido, le divinità lo avessero graziato da ferite letali. Trovai un panno pulito, lo imbevetti nell'acqua salina e gli calai i pantaloni.
Appena gli appoggiai la garza sulla ferita aperta emise un gemito strozzato. Gli accarezzai la vita e gli diedi un bacio.
«Sei un bambino molto coraggioso» lo presi in giro. Presi una zolletta di zucchero e gliela misi sotto la lingua. «Stavo pensando che il destino è proprio una cosa strana. Ti ho incontrato ferito e ora potrebbe finire tutto in questo esatto modo.»
«La prima volta ci siamo incontrati è stata nella brughiera e tu stavi scappando dai tornei clandestini» mi corresse. «Magari avrei dovuto prenderti e farti prigioniera.»
Ridacchiai e lui mi prese la mano, accarezzandomi le nocche. Studiò con fare triste le sbucciature e i segni dello scontro alla corte oscura. Avevo un brutto bernoccolo sulla fronte.
«Forse io mi sarei fatta catturare» ironizzai.
«Che linguaccia sarcastica.»
Mi pulii la faccia con un pezzo del vestito rovinato che ancora indossavo, puzzava di sudore, terriccio ed era pieno di sangue incrostato, per non parlare del succo delle bacche rosse. Mi stropicciai gli occhi e gettai un'occhiata cauta oltre la finestra, spiando.
«Sei stanca?» mi domandò Aurelion.
Annuii. Ero esausta. In cuor mio speravo mi pregasse di restare per la notte, riposarci almeno un paio di ore, perché sapevo che non sarei riuscita a muovere altri passi. Era notte fonda, faceva abbastanza freddo con quei vestiti addosso e la sua gamba necessitava di altri impacchi.
«Dormiamo qui. Domani partiremo all'alba» disse per confortarmi.
Lo condussi al piano di sopra, scavalcando gli scatoloni di regali e fiori posati in qualsiasi superficie stabile. Udivo il sonoro russare dei miei zii, smorzati dalla porta di legno, Calex dormiva supino con la testa sotto il cuscino e gli unici rumori erano quelli provenienti dagli alberi.
Entrai nella stanza di Isi, l'unica che avesse un materasso decente e rovistai nell'armadio. Dopo il suo trasloco zia lo usava per riporci gli abiti invernali, le coperte vecchie e altri vestiti scomodi. C'erano cappotti, scarpe, calzini bucati e persino un vecchio mattarello.
Diedi un cambio d'abiti ad Aurelion, andò in bagno e si pulì. Tornò pochi minuti dopo con un aspetto quasi umano, i capelli umidi – luminosi e argentei – e gli zigomi puliti. Mi spogliai dal vestito consunto e mi infilai in un vecchio pigiama di Isidora, una vestaglia con le spalline sottili, rosa.
Buttai una coperta sul materasso e mi augurai che non puzzasse troppo. Era la cosa migliore che potessi offrirgli e me ne vergognai.
Si tolse gli stivali e li posò sotto la finestra con cura. «È la tua stanza?»
«No, era di Isidora. Da quando non c'è più zia la usa come ripostiglio per le cose vecchie. Io sto in soffitta.» Si guardò in giro. «Immagino che ti possa sembrare veramente miserabile.»
Lo guardai attratta quando si distese sul materasso, ammirando i muscoli che guizzavano sotto la sua pelle candida, perfetta. Anche ridotto in quello stato, stanco e ferito, incuteva ancora rispetto e timore.
Mi fece segno di sdraiarsi di fianco a lui e mi infilai tra le sue braccia, gongolando piano. Si rilassò un po', godendosi la pace provvisoria, il calore della mia pelle e la morbidezza delle coperte. Eravamo appiccicati, stesi l'uno di fianco all'altro, e mai mi era sembrato così reale. Gli accarezzai il petto, tracciandogli la linea delle clavicole.
«Mi devi una domanda» gli ricordai. «La terza della promessa.»
Faticò a ricordarsi di quello che parlavo. Non avevo affatto dimenticato la sua parola nelle segrete, poco prima della sentenza positiva sulla mia vita. Da quel momento erano iniziati i guai.
«La terza domanda» rammentò. «Dimmi.»
«Mi amerai?» chiesi in un pigolio intimidito. «Anche se vedrai il mostro che sono, quello di cui è capace Celestia e la sventura che porta il mio sangue misto? Mi vorrai ancora? Il solo pensiero di perdere il luccichio nei tuoi occhi mi divora l'anima. Ho paura di questo, Aurelion. Non di morire, bensì di perdere te.»
Ripensai alla corte nera e immaginai Rines con la corona di edera e spine sulla testa, avvolto in abiti scuri, il viso teso, pronto alla battaglia. Un vero cavaliere combatteva fino alla fine per i propri ideali e il destino dell'universo era un valido motivo per entrambi. Uno di noi sarebbe caduto per sempre. Senza un re a governare un regno questo sarebbe destinato alla fine.
Aurelion mi tenne a sé, coccolandomi. Era troppo bello, delicato e mi sentivo davvero come la storia di Nergal, della volpe che era stata liberata ed era morta poco dopo, portando la sventura al povero eroe.
«Sai cosa ho chiesto davvero all'oracolo quando ho sfidato Rines al torneo? Intendo oltre non morire in modo orribile» dissi. «Essere coraggiosa. Forte. Volevo essere in grado di proteggere chiunque con il mio dono.»
«Tu sei già forte. Hai salvato molte più vite di quante immagini, compresa la mia» rispose, correndo con i ricordi alle vite che aveva strappato lungo la sua vita, agli innocenti e ai colpevoli.
La sua mano mi percorreva le braccia, fissando con cruccio le vecchie cicatrici, compresi i tagli sui polsi. «Il mondo è stato troppo crudele con te.»
Tirai su il naso. «Sapevo che fosse un errore scendere in battaglia quella notte, quando gli umani sono quasi entrati nel regno elfico. Forse avrei dovuto lasciare tutto, portati a corte e andarmene. Ho complicato tutto.»
«Non sapevi cosa sarebbe successo, Nico.»
«Ti ho messo in pericolo e ho fatto scoprire Cel all'Esercito. Sono qui per lei.»
«Io lo rifarei di nuovo, anche se avessi saputo ciò che so adesso. Avrei rifatto ogni scelta e avrei di nuovo scelto te» biascicò tra le labbra soffici. «E poi dobbiamo organizzare un matrimonio. Se la mia sposa morisse che consorte diverrei?»
«So già cosa ordinare per il pranzo! Carne! Carne succulenta con la salsa di fichi e datteri, oh, è buonissima. Ero anche indecisa con le pastelle, ma sarebbe vergognoso servire le pastelle a corte... Pastelle di carne!» esclamai euforica e lui soffiò una risatina.
«Hai pensato solo al cibo? Sei un'ingorda.»
«No, ho pensato anche a qualcos'altro. Vino. Un buonissimo dolce come dessert e...»
«E poi?» mi incalzò. «Poi?» Ci pensai. «Usa l'immaginazione.»
«Non mi serve l'immaginazione con te qui» lo sgridai, inclinandomi verso di lui in un caldo bacio.
Quella volta, quando le sue mani mi strinsero la carne con passione, nessuno di noi osò spostarsi.
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