VIII

(Calex)

«Perché non te ne vai? Qui sei sempre sola» provai a convincerla.

«Molti di noi non possono andare via, come gli alberi per esempio.» Una fatina strillò per attirare l'attenzione della Strega. Aveva un braccino rotto. «E anche se ci muovessimo dove potremmo andare? Fuori? Il regno degli umani ci ucciderebbe. Potremmo trovare un posto peggiore.»

Capii che le creature che dimoravano in quelle zone erano state esiliate, senza casa e che gli Elfi stessi si erano rifiutati di aiutare molti di loro. La strega delle selve era diventata tale per proteggere le cave e la brughiera nei tempi antichi, poi il suo potere aveva spaventato i villaggi e l'avevano tenuta a distanza. Era crudeltà anche quella e derivava dal cuore degli Elfi, non dagli umani.

La strega aiutò la fatina, dopodiché strappò un quadrifoglio e me lo passò. «Rammenta cosa ti ho detto. Tua sorella finirà per schiacciarti, l'aura dei Demoni schiaccia sempre le più deboli, per questo i Dominatori si proteggono con rune e malefici. Tu la stai trattenendo a mani nude. È come tenere il caos in gabbia. Prima o poi ferirai qualcuno e la tua sete di proteggerla si trasformerà nella tua tomba» mi avvertì. Ingoiai il rospo, mi infilai il quadrifoglio fortunato in tasca e mi alzai. «Cerca il Demone, Nico. Se serve fa' un Patto con lui, meglio uno spirito irrequieto che un mostro.»

Cel si fece viva a qualche metro di distanza, sguazzò negli arbusti e rincorse un paio di fate che si erano acquattate per spiare. Era il loro hobby preferito.

«Credo che per un po' non potrò venire a trovarti. Il re vuole vedermi a corte ora, per tenermi d'occhio presumo. È davvero un uomo molto bello. Mia cugina dice che non mi saprei tenere un uomo.»

Lei gracchiò e mi interruppe prima di poter finire. «Tua cugina ha ragione. Il re Aurelion è fuori dalla tua portata. Gli uomini sono più viscidi delle lumache.»

«Gli piacerò» le garantii furiosa e sicura. «Gli piacerò» dissi di nuovo ad alta voce, sperando che i desideri espressi potessero realizzarsi.

Il giorno dopo andai agli omaggi di Handir a corte il giorno dopo. Il re aveva fatto preparare dei lunghi drappi dorati attorno al suo corpo, il quale era steso su un tavolo fatto di rami e fiori. Indossava un abito elegante, reale, con lo stemma reale e anelli dorati alle dita. Da lontano pareva dormisse, perfino, e i dolenti singhiozzi di coloro che aveva protetto mi fecero capire quanto stessi sbagliando: era stato assassinato.

Handir non aveva né moglie né figli. Per la gran parte dei soldati era un dovere mettere su famiglia e l'impiego veniva tramandato in generazioni come tradizione, seppure questo Handir aveva sempre messo davanti ad ogni cosa il benessere e la sicurezza del regno. Mi domandai se nei campi eterni avesse trovato qualcuno a confortarlo o se il sangue che aveva sparso in guerra lo avesse condotto nel baratro.

Tutto il regno si precipitò a donargli l'ultimo saluto prima di bruciare la salma, qualcuno gli donò dei fiori, del buon idromele, mio zio gli portò una nuova spada cosicché potesse continuare a combattere persino nell'oltre. Il re Aurelion e sua sorella restarono in disparte, nei giardini vicino alle fontane, con gli occhi bassi. Morivo dalla voglia di andare dal re e stare con lui, però sapevo che non potevo farlo.

«Ecco che fine fa, il soldato, Calex!» ringhiò zia Hirvine, soffiandosi il naso.

Zio Falastor tornò in quel momento, io e gli altri avevamo preferito non avvicinarci troppo. La vista di un cadavere mi metteva agitazione e Cel diventava ingestibile con troppe persone attorno. La sentivo ululare triste, ansiosa, come se il segreto la stesse strangolando.

Calex alzò le spalle in difesa e calciò un sasso. «È uno dei rischi, lo farei lo stesso.»

Se non fossimo stati in pubblico forse zia Hirvine gli avrebbe tirato uno scapaccione. Dalla morte di Taras aveva giurato con le lacrime agli occhi di tenersi lontano dagli scontri. Potevo capire come mio cugino si sentisse dato che provavo anche io quelle emozioni: impotenza, rabbia, diniego e paura. Era un giovane uomo, forte e robusto, molti gli avevano detto che fosse uno spreco non arruolarsi. Dare un dispiacere a sua madre era peggio di una ferita per Calex.

«Abbiamo bisogno di te qui» gli dissi piano. «E poi saresti troppo vecchio per la gavetta.»

Lui soffiò. I ragazzi iniziavano l'addestramento da ragazzini e Calex aveva già un lavoro alla forgia. Abbandonare la sua postazione avrebbe dato problemi a tutti, me compresa e trovare un altro fabbro come lui era difficile.

«Almeno non morirai» ironizzai. «Oh. Ho molte barzellette belle sui morti perché, be', non invecchiano mai.»

Calex ridacchiò e zia Hirvine mi intimò di tacere. «Tu non hai niente di meglio da fare? Perché non vai a trovare Isidora?» propose, spingendomi via.

Le sorrisi e me ne andai dalla parte opposta. Presi la strada verso i boschi e poi uscii dalla brughiera, andando verso sud. Ero scappata pochissime volte lontano dal villaggio e quasi mai mi ero spinta troppo oltre, i territori fuori dai due regni erano umani e avvertii subito la poca magia che c'era. Gli alberi erano spenti, le coltivazioni sennonché sufficienti e non c'era alcuna creatura magica.

Ce ne erano rimaste poche in quella zona, l'Esercito con la sua influenza le aveva fatte scappare tutte – o le aveva eliminate. Tirava un'aria diversa, molto più fresca e odorava di grano e mare proveniente dalle scogliere dell'est. All'orizzonte non vedevo nulla e intorno a me c'era solo un lunghissimo campo di grano, le spighe mi arrivavano fino alla vita e il sole mi scaldava la pelle.

Mi guardai intorno e studiai l'ambiente. Non c'era alcun soldato o Demone nei paraggi e pensai come fosse possibile che, dopo l'iniziale battaglia, si fossero ritirati. Avevano avuto perdite, come noi, ma il Nido non dava peso alle vite umane, dopotutto il pianeta offriva la più preziosa risorsa: vite da poter usare.

Camminai fino all'imbrunire, quando il sole divenne rosso e il firmamento si tinse di indaco, in una sfumatura bellissima. La luna tornò a brillare, fredda come l'argento e le campagne diventarono tetre, inquietanti, fatte di suoni della natura e l'ululati del venti notturni.

Incrociai un nano lungo il sentiero e gli corsi dietro, sperando che mi desse indicazioni. L'ometto camminava dritto di fronte a sé con gli occhi vuoti e i vestiti lerci. Solo alla fine mi accorsi che le scarpe ai suoi piedi fossero rovinate e che stesse sanguinando, lasciando delle pericolose tracce dietro di sé.

Eravamo nel cuore del nulla e a me non salì niente di meglio da fare che seguire quel nano in mezzo alla foresta, restando indietro di qualche passo. Le fronde erano spoglie e cominciai a sentire la pesantezza di trovarmi tanto distante da casa, troppo vicino alla tana dell'Esercito. Mi sembrava quasi di sentire i loro camion spostarsi.

«Ehi, nano» lo chiamai per l'ennesima volta.

Come le altre non mi rispose. Era assorto, controllato da qualcosa. Mio zio aveva ragione a credere che fossi troppo arrogante di fronte a simili situazioni e al re era bastato un singolo sguardo per capire lo stesso; sapevo che Cel mi avrebbe aiutata in qualsiasi situazione e che ero abbastanza forte per cavarmela da me in molti altri casi.

Mi venne in mente il re e la sua espressione preoccupata. Non volevo dargli quei pensieri. Cercare un Demone era la cosa più assurda e senza senso che avessi mai fatto. Un Demone creava maledizioni, non le scioglieva.

«Ehi, nano, io me ne vado, se non...» berciai.

"Auuuuun!"

All'improvviso delle mani oscure comparvero da dietro un albero e dei luminosi occhi mi presero di mira, la sclera color rubino e l'iride e la pupilla di un bianco spettrale. Era una figura completamente nera, pareva quasi avvolta da una stola perché si avviluppava come un fusto storto, alto, o qualche genere di squama. Da lontano, con il buio, era impossibile distinguergli i tratti del volto.

Feci per parlare e un dolore lancinante, simile ad un gatto che ti graffia la testa, mi invase la mente. Il Demone si tirò indietro quando non mi vide cadere a terra, stupito. Seppure invisibile, guardò oltre la mia testa e vide Cel. Aspettai e sollevò le spalle, in un muto sogghigno.

Aprì le braccia e il nano gli camminò incontro senza sentimenti. Pensai lo avrebbe divorato, o ucciso, invece gli indicò una nuova strada e il nano proseguì. Il Demone si bloccò incerto e io mi mossi.

«Sei tu il Demone che è vive vicino al Nido?» lo interrogai subito, decidendo di accorciare le misure. Il Demone sgattaiolò via, dietro la sua vittima, e mi ignorò. «Ehi, aspetta!»

Camminava tranquillo, sicuro di sé, senza perdere di vista me e il nano, fino a quando arrivammo sulla riva di un fiume. In quel tratto le acque erano agitate e gli uccelli tacevano, così come i grilli e persino le lucciole se ne stavano alla larga. Appena il nano si avvicinò alla riva, un grosso cavallo d'acqua lo acchiappò e lo tirò giù. Rimasi impietrita, senza urlare, con i gemiti di Cel nella testa.

Il nano all'ultimo rinsavì, aveva la gola piena d'acqua e senza sforzo venne trascinato a fondo da quel kelpie. I kelpie erano Demoni acquatici molto territoriali e indisponenti, adoravano mangiarsi le vittime dopo averle affogate nel modo più doloroso possibile.

Le bolle scomparvero e l'acqua sovrastò il mostro e il suo pasto.

«Lo hai ucciso» ringhiai.

«No» disse il Demone. Aveva una voce calda, molto dolce. La sua bocca, se l'aveva, non si mosse affatto. Era come un'eco in testa, un sospiro leggero a contatto con la pelle. «Io non ho ucciso nessuno. Come vedi, non ho le mani sporche di sangue. Ho solo procurato un po' di cibo al kelpie.»

«Ma hai incantato quel nano» continuai. «E lo hai portato a morire.»

«Questo è esatto. Sono bravo a incantare le persone. Non avrei dato da mangiare te al kelpie, non preoccuparti. Oltre ad avere una splendida mente, non ho alcun interesse a far del male ad una donna» affermò e il tuo tono era sincero.

I Demoni mentivano spesso, o rigiravano la verità, per questo i loro Patti erano i peggiori. C'era sempre una clausola, un punto invisibile, un aggancio che utilizzavano contro di te. Ciò che davano si riprendevano in un ciclo infinito e la disperazione era il loro nutrimento preferito. Dopo la chiacchierata con la Strega delle selve mi domandai cosa ci fosse di così diverso tra i nostri Demoni e l'oracolo stesso.

«Sono Moraax, onorato» si presentò e si arruffò eccitato.

«Io mi chiamo Nico.»

Dire il proprio nome ad un Demone era una cosa stupida.

«Sei un cucciolo del Nido? Hai lo stesso odore di molti soldati, quello della guerra e della solitudine. La macchia che inonda quel posto è tanto profonda quanto impossibile da mandare via. Sento l'olezzo fino a qui» mi giudicò, muovendo il naso verso l'alto.

Scossi il capo. «Non sono un loro cucciolo. Mia madre era un'Elfa.» Mi scostai i capelli e gli mostrai le orecchie. Lo feci interessare. «Sono quello che voi chiamereste Ibrido. Mio papà veniva da là, si chiamava Cameron Duke. Lo conoscevi?»

Sbuffò. «Non conosco ogni soldato, che credi, che sia un memoriale io?»

«Però tu vieni da là. Solo chi conosce quel posto lo chiama Nido.» Evitò di parlare, assaporando un amaro ricordo. «C'è una strega nella brughiera, la Strega delle selve. È una mia conoscente. Mi ha detto di chiederti se sai un modo per spezzare una maledizione.»

Il Demone alzò gli occhi e inquadrò Cel. Era invisibile per gli occhi umani, tuttavia lui la beccò subito senza problemi. Lei si fece vedere, muovendosi lentamente e sgattaiolò al fianco del Demone. I due si annusarono e starnutirono nell'esatto momento, tirandosi indietro.

Moraax si pulì la faccia e strinse gli occhi. «Conosco le maledizioni perché io ne sono una, mia cara Nico. La tua Strega ha una vista lunga.»

Comparve accanto a me e provò a saltarmi addosso. Il suo corpo mi trapassò incorporeo e rimase a mani vuote. Cel emise quella che doveva trattarsi una risatina di scherno, molto poco amichevole e Moraax le lanciò un'occhiataccia. Provai a toccarlo senza successo. Vedevo il suo corpo ma non potevo toccarlo.

Si allontanò. «Le maledizioni sono complicate. Anche crearle senza danni è piuttosto difficile e io sono stato fortunato, mi hanno maledetto in due, il Nido e il mio Principe, Lord Azrael.»

«Cosa hai fatto?» chiesi.

Si infilò un dito in bocca e mi fece vedere le numerose file di denti nascosti, retrattili, che possedeva, affilati come quelli di un vero predatore arcaico. Avrebbe senza sforzi squarciato la gola persino ad un orso bruno adulto.

Rabbrividii.

«Cercavo potere, prima di questo, e ho mangiato la cosa sbagliata» gongolò, strofinandosi la pancia. La Strega delle selve mi aveva mandato da un Demone cannibale, dovevo appuntarmi di non seguire più i suoi consigli. «Da queste parti le creature magiche scarseggiano e quelle che sono rimaste fanno fatica a cacciare. Io le aiuto.»

Alzai le sopracciglia. «Be', le uccidi» sminuii.

«Secondo la mia teoria ci sono due tipi di esseri: le prede e i predatori. I predatori cacciano e le prede vengono mangiate. C'è equilibrio in questo. Io volevo essere un predatore» spiegò. Finsi di capirlo. «Voi Elfi non piacete ai soldati, vi ignorano. I Licantropi, oh, loro sì che sono interessanti e la loro pelliccia... Avevo messo gli occhi su un cucciolo, un altro Ibrido. Metà Vampiro e metà Licantropo. Lord Azrael mi ha impedito di mang...»

Sobbalzai. «Un altro Ibrido? Stai scherzando?» Negò. «Non è possibile che esista un simile essere.»

«Tu sei un Ibrido» mi incalzò.

«Io sono figlia di un'Elfa, i geni di base sono gli stessi di quelli di un umano, ma un Licantropo e un Vampiro sono... opposti! La natura non dovrebbe...»

Alzò una mano e me la spinse in faccia. Se avesse potuto toccarmi mi avrebbe dato una botta sul naso, eppure mi ritrovai le sue dita in mezzo agli occhi.

«Ma è così. Ho visto da me quello splendido cucciolo, forte, in salute e perfetto. È stata la tua bella natura a crearlo e a creare te. Solo perché una cosa non si deve fare non significa che non si può fare. Persino le maledizioni non si dovrebbero fare, tuttavia eccoci qua. Tu hai un mostro che è incagliato nel tuo animo e io sono imprigionato in questa foresta.»

Sospirai. «C'è un modo per scioglierla?»

«Non ti consiglio di farlo, peggioreresti le cose. Solo chi l'ha creata può annullarla, è un vincolo.»

Sogghignai. «Quale è il tuo?»

«Il Nido. Finché esisterà io sarò imprigionato. L'esistenza è orribilmente lunga quando hai fame» si lagnò. «Se riuscirai a farlo, Nico, fallo fuori dalla brughiera o ci resterà intrappolata. Tua sorella ha un'aura molto forte, il Nido si piangerà addosso per aver perso un potenziale come il suo. Trova il nodo e scioglilo.»

Gli alberi si agitarono e io mi guardai alle spalle. Nessun soldato sarebbe arrivato là, il territorio era marcio.

«Come sai di mia sorella?» soffiai in difesa. «Ne avevi una anche tu? Ecco perché dici di non voler mangiare le donne. Le volevi bene. Dov'è?»

Il sorrisetto furbo del Demone svanì, lasciando posto ad una cieca furia. Se fosse stato di carne ed ossa ne sarei stata terrorizzata, e anche in quello stato la sua energia ebbe un picco altissimo e mi bruciò la pelle.

Cel si schiantò su di lui e cozzò la testa sul suolo, facendo cadere anche me. Si rialzò e provò a tirargli dei pugni e Moraax restò fermo, senza sentire niente. Alla fine Cel frignò amareggiata e se ne andò.

Il Demone mi guardò rialzarmi da sola e simbolicamente mi porse una mano. «Una maledizione è pur sempre un incantesimo e anche il più solido rimane un'illusione. Un ombrello magico può ripararti dalla pioggia, così come l'oro rimane tale nelle mani di un mago. So cosa è successo alla tua razza. Tua sorella è rimasta per difesa. Sai bene come togliere l'incantesimo, mia cara, solo che forse non vuoi farlo.»

Le mie guance si tinsero di rosso e iniziai a fumare di collera. Avevo condannato mia sorella a quella vita orrida ed era mio compito ristabilire l'ordine. Avrei fatto qualsiasi cosa per lei se avessi saputo come annullare la maledizione.

«Sai qualcosa riguardo ai piani dell'Esercito? C'è stato uno scontro nella brughiera, è possibile ce ne sia un altro in futuro.» Moraax inclinò il capo e mi sorrise. Mi incavolai. «Non hai le risposte che cerco. Grazie per avermi preso in giro. È stato un piacere conoscerti, Moraax, ma addio. Spero troverai un pazzo a cui eviterai la sorte di farlo finire nelle fauci del kelpie. Buona fortuna con la tua maledizione.»

Mi seguì fino a metà strada, quando la foresta terminò e gli alberi si trasformarono di nuovo in grano dolce, dorato. Era scesa la notte. Moraax si impigliò a qualcosa di invisibile e venne sbalzato indietro, in catene, mentre Cel camminò al mio fianco fischiando.

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