IX

(Moraax)

Tornando a casa pensai se fosse stato meglio usare la forza con Moraax. Era un Demone, un rifiuto persino per quelli della sua razza ed era stato abbandonato come un bastardo, a nessuno importava di lui e l'Esercito lo aveva dimenticato. Se avessi trovato un modo per torturarlo mi avrebbe svelato i segreti del Nido, in modo da salvare la mia casa.

Io e lui però non eravamo molto diversi; entrambi eravamo stati abbandonati da qualcuno, delusi, con un enorme peso da portare. Io non ero un mostro e non volevo esserlo. Fargli del male avrebbe dimostrato che fossi come un soldato o un cavaliere che pensava solo a se stesso. Volevo essere migliore, per questo non mi voltai nemmeno una volta e tornai dritta sui miei passi, domandandomi cosa volessero significare le sue parole.

Era ovvio che non sapessi come salvare mia sorella, altrimenti non avrei mai chiesto aiuto alla strega delle selve, tanto meno ad un Demone. Avevo dimenticato qualcosa di quella notte e tentai di ricordare: Celestia era morta dopo i miei genitori e si era trasformata in punto di morte. Io avevo chiamato aiuto e lei aveva risposto. Avevo accidentalmente dato il via ad una creazione fuori da ogni legge naturale e non riuscivo a controllarla.

Cel aveva i suoi pensieri, le sue emozioni e la sua personalità ed era del tutto diversa dalla vera sorella che avevo avuto in vita. Mia sorella non avrebbe mai fatto del male a nessuno e mio padre ci aveva insegnato unicamente a difenderci, non ad attaccare. Mandando via quell'essere avrei ucciso di nuovo mia sorella e forse, in fondo, aveva ragione Moraax, non ero pronta.

Andai a corte con i miei pensieri e tutti vertevano sul fatto che avrei vissuto bellissime avventure interessanti, sarei diventata amica dei più valorosi cavalieri e sarei stata con il re. La verità fu che corte era noiosa e non era affatto il mio ambiente. Calanthia mi insegnò le regole di buona etichetta e per i primi minuti parve persino impaziente di essere ancora un'insegnante, poi, quando capì che fossi tutt'altro che brava ed educata, si scocciò. Mi faceva leggere poesie – e dannazione pure al tono, perché doveva essere alto, ma non troppo da fare fastidio, veloce, ma non troppo da farmi aggrovigliare la lingua, e ben scandito, cosicché potessero sentirmi fin da lontano. Era tutto un "così ma non troppo" e io ero quel "troppo".

Stavo leggendo l'ennesimo verso di una noiosissima poesia in versi quando Calanthia, la quale passeggiava su e giù per la libreria, scosse il capo.

«No, hai sbagliato. Da capo» ingiunse. «Mento alto e mani giunte.»

Me le pulii. Erano sudate. «Cosa c'entra questo con il proteggere il re?» replicai.

«Nulla.»

«Allora è proprio inutile» dissi sottovoce. «Mi ficcherei una spada in gola.»

"Auuuun! Nico non deve dire cose brutte!" strillò Cel fuori di sé.

«Ti ho sentita. Da capo.»

Insieme ad un altro cavaliere di cui non sapevo il nome tentò di farmi imparare a memoria la mappa del regno, ogni suo nome, i fiumi, le montagne, le rive e anche le miniere. Io passavo il mio tempo a disegnare jergen sul quaderno che mi aveva dato. Canto fu un disastro perché ero stonata e, quando per sbaglio lanciai del mangime sul mantello di Rines e il suo falco iniziò a prenderlo di mira, Calanthia osò dirmi che la mia risata fosse troppo sguaiata. Non potevo mangiare troppa carne, o le mie spalle sarebbero diventate ancora più larghe, niente sveglia tardi o hobby violenti.

Calanthia disse che "non erano cose da signora".

E io volevo davvero imparare ad essere una brava dama, far vedere al re Aurelion che fossi degna di stare a corte e di essere al suo fianco, tuttavia quelle cose erano fuori dalla mia portata. Io ero brava ad imbrogliare i nani, a combattere e a raccontare barzellette. Secondo Calanthia il regno della Luce aveva due problemi: la guerra, e ci avrebbe pensato Aurelion, e me, ed ero toccata a lei. Le dame dovevano essere perfette, argute, caute, belle, intelligenti e seducenti. Io ero ancora una ragazzina.

Calanthia mi guidava lungo i corridoi del palazzo, interminabili, lindi, illuminati da fredde luci. Sfioravo la parete con le dita, solcando ogni tassello, colonna e drappo che incontravo. C'era troppo da vedere a corte, troppo da scoprire.

«È vero che stiamo andando a prendere un vestito per me?» le domandai emozionata.

Camminava come una regina, con calma, con la gonna che creava un modesto strascico dietro la sua figura snella. «Sì, starai con i membri della corte in modo ufficiale, quindi un vestito ti è dovuto. Mio fratello ha insistito.» Ingoiai le obiezioni. Per il re avrei indossato persino un cappello da giullare. «Mirra è una delle mie dame ed è una favolosa sarta. Lui vuole che tu abbia... un abito adatto.»

Lo disse in modo strano, facendo una smorfia altezzosa. Ero solita vestire con magliette comode con laccetti su maniche e scollo e calzoncini fino al ginocchio, comodi. Odiavo i colori troppo vivaci e chiari su di me, la mia pelle era scura e i capelli cespugliosi per farmi passare come nobile.

Le stanze di Mirra erano nella parte est del castello, nell'ala più baciata da sole. Doveva essere la sua dama preferita per avere un simile alloggio, solo le stanze dei reali avevano simile posizione e mi chiesi dove fosse quella di mia cugina. La sua camera era dipinta di azzurro, con un bel letto bianco e numerosi tavolini su cui erano gettati materiali e stoffe per il lavoro. C'era persino un vero telaio e lei era deliziosa, con corti capelli neri e occhi verdi.

Mi fece spogliare e alzare le braccia, dopodiché mi prese le misure e mi analizzò molto attentamente. Eliminò subito tutti i colori più chiari, come il rosa, il giallo e il verde e mi avvolse attorno al corpo una stoffa indaco. Mirra borbottava tra sé e sé, meditabonda e mi tappezzò di spille e spilloni, iniziando a sistemarmi l'abito addosso.

«La gonna deve essere lunga, Mirra» replicò Calanthia. «È una ragazza ancora senza marito. I cavalieri inizierebbero ad avanzare pretese se scoprissero che non ha lo stemma reale addosso.»

«Ed è anche giovane» la prese in giro.

«Non è una sfilata, fai come ti ho chiesto.»

Mirra lasciò andare la stoffa che mi coprì i piedi e io la tirai su fino alle cosce.

«Voglio un vestito così. Viola, con un paio di cose qui e lì. Mi piace» dissi la mia. «Se dovesse succedere qualcosa devo essere pronta.» Alzai i pugni e colpii l'aria.

Mirra alzò un sopracciglio sbalordita e Calanthia si scaldò. Le avevo detto un paio di volte, o almeno accennato, alle mie teorie e per lei erano tutti sogni campati in aria.

«Non succederà nulla e ora abbassa quella gonna. Forse i tuoi genitori erano dei selvaggi se tu sei così indomabile, qui sei sotto la mia tutela e farai come ti dico io. L'altra opzione la conosci.» Serrai le labbra e anche Mirra restò in silenzio. Mi sfiorò il seno. «Useremo un'imbottitura.»

«Cosa? Così non respirerò! Il seno serve ai bambini. Che bisogno c'è di gonfiarlo?»

«Chiacchieri davvero troppo, Nico» sospirò Calanthia. «Quest'abito ti aiuterà ad entrare in sintonia con questo mondo, ti farà prendere parte agli eventi mondani, a trovare un cavaliere a cui piacere e svilupperai un carattere più seducente.»

Mio padre le avrebbe tirato un pugno per avere messo insieme la parola me e seducente nella stessa frase.

Abbassai le braccia e la stoffa mi scivolò fino ai piedi, lasciandomi con la biancheria addosso. «Io non voglio sedurre nessuno» pigolai in imbarazzo.

Calanthia sogghignò divertita. «Nemmeno mio fratello?» mi puntò e io sobbalzai. «Per l'oracolo, Nico, sono una donna anche io. Ho avuto numerose avventure romantiche e so com'è una persona innamorata. Non caverai alcun interesse da lui così conciata, sei rude, rozza e maleducata. E cosa sono questi segni?»

Mi afferrò un braccio e mi guardò mesta le cicatrici e le botte che mi ero fatta in giro, nei boschi e nella forgia. Per un uomo erano ricordi di avventura, per una donna solo orribili sfregi.

«E hai i capelli troppo disordinati» mi accusò.

Prima che me ne rendessi conto avevo gli occhi lucidi. Non mi era mai importato del mio aspetto, questo prima di conoscere il re e avevo cominciato a desiderare di poter essere bella come Calanthia o altre dame. Aveva usato questo desiderio contro di me e mi aveva ferita. Isidora aveva ragione nel dire che le donne fossero le peggiori nemiche delle altre e non avevo mai ricevuto una lezione da mio padre per questo.

Strinsi i pugni e trattenni un singhiozzo. Mirra mise giù le forbici e mi accarezzò le spalle. «Questa è cattiveria. Lasciatele indossare ciò che le aggrada.»

«Siete peggio di un Demone» ringhiai addosso a Calanthia e lei strillò sorpresa.

Corsi fuori dalla camera di Mirra ancora con la canottiera addosso e senza scarpe. Mi sentivo presa in giro, arrabbiata con me stessa perché sapevo che Calanthia mi avesse detto la verità. Una come me non avrebbe mai conquistato nessuno ed ero a corte perché ero considerata una minaccia, non un'ospite.

Cel esaminò il mio stato d'animo e si perse. Cercò un nemico ovunque, senza trovarlo e restò in bilico. Per lei il mondo era bianco o nero. Se ero arrabbiata significava che ci fosse un nemico e lei doveva intervenire. Capire cose come una lite, la gelosia e la malinconia erano troppo complicate.

"Cel confusa" si scusò. "Nico triste e arrabbiata. Abbraccio?"

La ignorai.

"Auuuuuun. Nico mi odia!"

Corsi via e tornai all'ala principale. Le ninfe esclamano meravigliate appena mi videro correre in quegli stati, pensarono si trattasse di un nuovo gioco, si spogliarono e corsero via a nascondersi. Creai un po' di scompiglio prima di trovare l'ala di studio del re. Lo trovai seduto dietro ad un tavolo di quercia e stava scrivendo su vari fogli. Le pareti erano ricoperte di arazzi tessuti dai più abili maestri e raffiguravano tutti la storia dell'oracolo e, solo in uno, i genitori dei due attuali re.

Alzò lo sguardo, quasi terrorizzato e mi inquadrò. Ero scombinata e con le guance arrossate.

«Che ti è successo?» mi interrogò, scattando in piedi.

Calanthia arrivò dietro di me e si sbatté la porta alle spalle. Aveva alcune ciocche in disordine ed era affannata, con il diadema storto.

«Che è successo ad entrambe?» ripeté guardingo.

Calanthia strinse i denti. «È scappata, ecco cosa è successo. Eravamo affaccendate a confezionarle l'abito per cui ti sei tanto premunito e lei è letteralmente fuggita. Vuole solo stare all'aperto, giocare! Mi fa diventare matta, ho incontrato bambini più calmi.»

Mi impuntai. «E io non voglio più stare con lei, è crudele e mi prende in giro! Ha detto che sono trasandata e che ho il seno piccolo.»

Il re arrossì, capendo che fosse un discorso stupido.

«E anche indisponibile» continuò.

«Io so combattere, so fare le spade, potete chiedermi qualsiasi cosa sulle creatura della brughiera e vi risponderò. Se mi sfidaste a duello potrei tenere due spade. Ciò che non sono in grado di fare è essere una vera dama, ridere per cose stupide, cantare e recitare poesie. Sapete che cosa ho imparato in queste settimane? Ora ve lo dico io!» esclamai.

Corsi alla scrivania del re, ignorando i lamenti di Calanthia che ingiunse di non toccare niente, e presi un vassoio colmo di biscotti al miele, i preferiti di Aurelion. Me lo misi in testa e camminai. Testa alta, schiena dritta e passi moderati. Calanthia sorrise fiera fino a quando mi scivolò e i biscotti caddero a terra.

«Ta-daa» ironizzai. «Odio essere ridicola e odio fare cose stupide, mi rifiuto di continuare.»

Il re scosse la testa. «Ti ricordo che non ti abbiamo dato altre scelte. Devi restare qui per la tua sicurezza e quella degli altri, almeno fino a quando non avremo chiaro come procedere.»

«Vi ho detto che starò con voi.»

Calanthia alzò le mani. «Eccola. Di nuovo. Parla solo di questo. Aurelion di qua. Aurelion di là. Parla solo di te e mi fa venire mal di testa» si lamentò. «Diglielo anche tu, ti prego. O ti giuro che io...»

Il re alzò la mano e lei si bloccò. «Nico pare di essere di parere opposto. Forse potrei chiamare una dama privata per lei, i tuoi metodi sono troppo duri.»

«O un brigante, piuttosto!» commentò acida. «Le ho insegnato tutto quello che potevo e lei ha sempre preferito pensare ai fatti suoi. Non vuole imparare, le mie ragazza fanno tutto quello che dico loro di fare. L'altro giorno l'ho portata nelle cucine affinché preparasse dei biscotti e ha mandato tutto in fumo.»

Il re roteò gli occhi. «Sono dei biscotti, Calanthia, per favore...»

«Ha mandato in fiamme la padella!»

Mi grattai il polso. «Sono abituata alla fornace e ho alimentato troppo il fuoco. Poi mi sono distratta un po'... Oh, il metallo ci impiega molto a cuocere, mi dispiace per la padella...» mi scusai con voce bassa.

Il re inclinò il capo e cercò di guardami il volto. Mi pulii le guance umide.

«Mi hai detto che fosse una mia responsabilità e io ho tentato. Ho fatto il meglio nelle mie capacità» lo attaccò.

Il re corrugò la fronte. «Se l'avessi educata al meglio ora non starebbe in sottoveste di fronte a me.»

Mi guadai i piedi e gli occhi dell'uomo caddero per un solo attimo sulla linea delle mie clavicole, la curva sottile che si intravedeva sopra i riccioli bruni. Il cuore mi batté forte e Cel mi diede uno strattone, gelosa e io diventai paonazza, coprendomi con le braccia. Le orecchie mi fischiarono e lo stomaco mi andò sottosopra.

«Per oggi ci penso io» acconsentì calmo il re e le indicò la porta.

Sogghignai furba e Calanthia si afferrò la gonna e se ne andò con passo pesante, furibonda, lanciando imprecazioni contro entrambi. Guardai il re con un sorrisetto e lui mi lanciò uno dei suoi tanti mantelli, in attesa che la sorella mandasse una delle sue dame a riportarmi i vestiti. Era stranamente in soggezione e non osò guardarmi sotto il mento. I suoi occhi verdi mi fecero venire i capogiri.

«Stavo compilando alcune carte per la famiglia di Handir, ti chiederei di stare calma, per quel che riesci. Puoi metterti lì e... fare quello che vuoi» disse, indicandomi il tavolinetto basso tra i divani di stoffa rossi.

Mi gettai a terra su uno dei cuscini, presi carta e inchiostro e disegnai. Non ero brava nel disegno, ogni mio ritratto pareva storto e i paesaggi erano sproporzionati, senza prospettiva. In effetti non eccellevo in molte cose, in quelle mia sorella Calanthia sarebbe stata molto portata. Se fosse stata in vita sarebbe entrata a corte e sarebbe diventata la prima dama senza difficoltà.

Per un po' di tempo il re mi tenne gli occhi addosso, forse si aspettò di vedere sbucare Cel da qualche parte, alla fine si rilassò e mi portò un bicchiere di succo di mela come offerta di pace. Nel frattempo stavo dando il meglio di me, disegnando Cel, me, il re e Calanthia.

Il re si curvò e io coprii in fretta il foglio. Rise in modo adorabile.

«È un disegno molto... carino. È meglio che mia sorella non lo veda, temo» commentò. Avevo disegnato Calanthia come un diavolo, con coda e corna. Gli rubai il foglio dalle mani e gli diedi le spalle. «Sei arrabbiata con me, Nico? Ho fatto qualcosa di male nei tuoi confronti?»

Mi alterai. Avrei voluto dirgli che ce l'avevo con lui perché si era del tutto scordato di me e mi aveva rifilato come un oggetto alla sorella. Mi sentivo usata, senza valore.

Strappai il disegno e il re si accigliò.

«Perché non vi siete fatto vivo?» gli domandai nervosa. «Perché farmi rimanere qui se non sono nulla per voi?»

Si perse nel vuoto, cercando di darmi una rapida risposta. «Ho molto lavoro da svolgere.»

«Perché non avete mandato qualcuno in vostre veci, allora?»

Alzò le spalle in difesa. «Ti sarebbe importato? So che non sei una persona cattiva, non avevo nulla da temere. Credevo che nelle mani di mia sorella saresti stata accudita in modo opportuno, sono molte le ragazze che arrivano qui in cerca di istruzione e una vita agiata, soprattutto quelle dal villaggio» constatò.

Mi strinsi il mantello sulle spalle, improvvisamente sentendomi davvero nuda. «Io no. Non ho mai voluto una vita agiata, buon cibo o compagnia. A me piace fabbricare le spade, mi piace il calore del fuoco, il rumore dei battiti del martello rovente, la terra dei boschi ed essere una zuccona. So di essere trasandata e incasinata, però vorrei essere abbastanza come sono adesso. Vi ci sono volute le mie lacrime per farvi tornare da me.»

«Lacrime? Hai pianto?» mi domandò scombussolato.

Deglutii e me ne pentii, sfregandomi le guance e gli occhi. Si sedette al mio fianco e il suo completo si tirò sulle spalle. Era fin troppo scomodo in quella posizione e provò a sembrare a suo agio. Gli diedi un'occhiata storta e finii per ridacchiare. Mi ero dimenticata che in verità lui non fosse un mio amico, bensì il re e dovevo svolgere ogni suo incarico.

Guardai l'arazzo raffigurante la precedente regina: era bellissima, con un viso angelico e gli occhi verdi. Le mani che l'avevano creata erano elfiche, dotate e le rendevano giustizia.

«Era la precedente regina?» gli chiesi.

«Mia madre» confermò. «La regina Synthia.»

«Vi manca? A me manca molto la mia mamma» ammisi.

Il re si morse le labbra, senza proferire parola. Dai suoi occhi potevo scorgere un'ombra di dubbio che lo assaliva e decisi di non insistere. Mi accorsi di non sapere niente sulla vita di Aurelion, di cosa avesse fatto prima di diventare re, cosa gli piacesse fare quando non indossava la corona. Era un Elfo come gli altri, in fondo. Ripensai al giorno della foresta, a come lo avevo curato e offerto il mio aiuto e quasi mi scoprii felice, nonostante l'imminente guerra.

«A me manca molto la mia famiglia» continuai. «Mi manca mia madre che canta alla mattina, le storie di mia sorella e l'odore di mio papà. Aveva uno strano odore, lui, di polvere da sparo, mirtilli e tabacco. Si sono piaciuti subito, ma non ho idea di come hanno fatto a vivere per quegli anni. L'amore è sacrificio. Io credo di no. Se ti piace una persona non le faresti mai del male.» Il re curvò la testa. Non parlava. Ascoltava in silenzio. «Prima di venire al villaggio lo evitavo. Ancora adesso mi considerano tutti strana, il che è un po' divertente se pensate che ho letteralmente un grosso mostro dentro di me. Mio padre mi diceva che essere strani fosse una bella cosa, che significava essere speciali, unici, ora penso che me lo dicesse per farmi stare meglio. Sapete usare la magia, voi?»

Aurelion mosse la mano e uno dei fogli si piegò su se stesso, diventando uno splendido cigno di carta. Questo si mosse, le ali si dispiegarono e l'origami prese il volo, disegnando cerchi sul soffitto.

Quel giorno era di splendido umore.

«Io non so farlo. Ho pochissima magia» feci.

Provai a imitarlo senza risultati.

«Per i geni di tuo padre. Quelli umani danno sempre problemi. Hai mai pensato di andare all'Esercito, dichiarare chi fossi e stare con loro?»

Riordinai le penne d'oca e pulii le macchie d'inchiostro sul tavolino. «Il Nido» esclamai piatta. «Sì, una volta ci ho pensato. Volevo tornare per uccidere chi aveva distrutto la mia famiglia e coloro che avevano bruciato il villaggio. Sapete cosa mi ha fermata? Cel. Lei mi era venuta semplicemente dietro, sapeva cosa volessi fare e lei... lei era contenta. Volevo uccidere dei ragazzi e... io...» Mi drizzai a sedere. «Non volevo altro sangue. Volevo indietro la mia vita. La mia mamma, papà e Celestia. Tutto qui. Al Nido mi ucciderebbero. Sono un altro mostro per loro.»

«Non lo sei» disse lui, guardandomi negli occhi scuri. «So che non lo sei.»

«Non sapete molto su di me» confessai ironica. «Mi avete parlato per meno di qualche ora e l'ultima volta era in un'assemblea di morte. So di non piacervi.»

Covavo ancora una forte ammirazione e simpatia nei suoi confronti. Odiarlo era impossibile. Era affascinante ed eravamo soli.

«Non ti ho tenuta lontano per timore o ribrezzo. Mi sono lasciato trasportare dai miei impegni, in questo ti do ragione. Sono stato un orribile padrone di casa se pensi ciò. In verità sei molto interessante, Nico.» Mosse le dita, armandosi di coraggio. «Tuo padre possedeva un Demone?»

«Luik. È lui che ha venduto mio padre. Era un Demone nero, uno dei più pericolosi. La monotonia della famiglia a loro non piace. Gradiscono il sangue, l'azione, l'eccitazione del massacro. Loro vogliono la morte. Non credo che odiasse me o mia sorella, si trattava di sopravvivenza e ha scelto se stesso.»

Il re rabbrividì, pensando a una creatura simile. Gli nascosi di aver parlato con un altro Demone, seppure innocuo. Fare conversazione con Aurelion era piacevole e mi faceva venie le bolle nello stomaco.

«Io mi fido di te, Nico.»

«Forse non dovreste» dissi immediatamente. «Ahdeniel ha ragione. Sono una minaccia e vostro fratello lo sa. Farà di tutto per proteggere il suo regno e il trono.»

«Conoscendo mio fratello ti considera divertente. Se avesse davvero intenzioni ostili la tua testa penderebbe già dalle guglie del suo palazzo» rispose serio e io sobbalzai impaurita. «Scusa, non volevo spaventarti.»

Un brivido freddo mi scosse la curva della schiena e mi spostai leggermente, distanziandomi. Mi guardai intorno, provando a tranquillizzarmi e il silenzio generato mi mise timore. Vidi sopra una mensola sopra il camino un flauto di bambù con dei campanelli attaccati.

Andai a prenderlo. I flauti e i tamburelli erano gli strumenti preferiti dai fauni. Un tempo nelle terre d'Europa ce ne erano molti, tuttavia la gran parte finì dispersa morta nelle loro avventure in giro per il mondo. Nell'antica Grecia erano stati preziosi alleati degli eroi e semidei, li avevano protetti e cresciuti, e quando il mondo diventò umano si ritirarono altrove, proprio come noi Elfi.

«Un flauto!» esclamai. «Lo sapete suonare? Mi suonate qualcosa, per favore? Il mio umore migliorerebbe tantissimo» canticchiai.

Aurelion scosse il capo. «Non sono capace. Mia madre lo era, ma lo ha insegnato solo a mio fratello Nergal. Era lui il suo preferito.»

Finsi di non riconoscere l'amarezza nelle sue parole. I miei genitori avevano amato in egual misura sia me sia Celestia senza differenze.

«Allora vi insegno io. Mamma mi suonava sempre un motivetto e mi ricordo come si fa.» Scivolai di nuovo a terra, emozionata di saper fare qualcosa per lui inaspettato. «È davvero facile. Basta soffiare nell'apertura e schiacciare sui fori per creare le note.»

Soffiai nel becco e un dolce suono ne uscì, limpido.

«Mi coprirò di ridicolo, ti ho detto che non so...» si oppose.

«Faccio io la diteggiatura. Soffiateci solo dentro.» Glielo spinsi sotto il naso. «Prometto che non vi prenderò in giro.»

Schiuse leggermente le labbra e soffiò. Mossi le dita e lasciai che il suo respiro creasse le note. In modo piuttosto scostante e lontano, ricordai la ninnananna che suonava mia madre, le sue mani sul legno e la mia felicità nell'ascoltarla.

«Mettete le dita qui, proprio dove le avevo io» gli indicai e lui prese il flauto in mano, sorreggendolo in modo delicato, tanto quanto tenesse il petalo di un fiore.

Gli posai i polpastrelli sui suoi e lui trasalì, meravigliato dal mio gesto. I popolani non avevano il permesso di toccare i reali e lo avevo sempre immaginato distante, freddo, tremendamente irreale. La sua pelle al contrario era calda e mi parve di sentire il battito accelerato del suo cuore.

«Sollevate le dita quando esercito pressione» dissi.

Gli feci suonare la canzone più veloce e seguì alla perfezione le mie indicazioni. Facevo un leggero pizzicore e le note diventarono più ritmate, vicine e danzanti. Era una classica melodia che al villaggio tutti conoscevano e, dallo sguardo vitreo del re, dovevo avergli fatto ricordare delle memorie che aveva dimenticato da moltissimo tempo.

La porta si aprì rapida e Isidora entrò con i miei vestiti tra le braccia. Il sangue smise di circolarmi in corpo e il cuore perse un battito mentre i suoi occhi, attenti e scattanti, si posarono sulle nostre mani. Sulle mie dita tra quelle del re.

Lo lasciai e mi strinsi la mantella addosso.

Lei aprì la bocca, cominciando a dire qualcosa, il mio nome seguito da un'imprecazione, poi si corresse al volo. Fece un perfetto inchino per il re e lui si sollevò, salutandola con il capo. L'espressione di mia cugina mi turbò perché non l'avevo mai vista con una simile maschera in vita mia, metà rossa di vergogna e l'altra rabbiosa.

«Voi due vi conoscete?» domandò schietto il re, notando lo sguardo scintillante di Isidora. Mi inquadrò e io scossi il capo. «Isidora?» la chiamò.

«È mia cugina» rispose tra i denti. «Lavora al villaggio con la mia famiglia alla forgia. Non so cosa è successo, se l'ha disturbata io vi chiedo immensamente perdono.»

Quasi scoppiò a piangere e io mi sentii subito in colpa. Avevo chiesto a tutti di nascondere la mia presenza, persino Calanthia mi aveva tenuta in disparte dalle altre dame formate (era consuetudine educare le ragazze inesperte insieme, lontano dalle altre) e la mia presenza doveva essere una doccia fredda per lei. Io portavo guai e scherzi, come una pixie e aveva chiaro due cose: a) che la sua famiglia le avesse mentito e, b), che stessi mettendo a rischio il suo futuro.

Mi gettò i vestiti addosso. «Vestiti subito e copriti! Ti riporto subito a casa e...»

«C'è un errore» si intromise cauto il re. «Nico è una mia ospite. So cosa stai pensando, ma ti assicuro che i tuoi pensieri sono infondati. Non mi permetterei mai di fare una cosa simile.»

Le guance di Isi diventarono rosse come il sole mentre Aurelion mi porse la mano per aiutarmi a mettermi in piedi. «Mio signore, non stavo pensando a niente di ciò!» esclamò, mordendosi la lingua. «Mia cugina è da sempre stata una combinaguai, ho solo temuto che vi avesse dato fastidio. Disprezzava corte, ecco perché la sua presenza mi ha sorpresa. La mia signora ha omesso nel dircelo.»

Aurelion negò. «No, gliel'ho chiesto io. Nico è una mia ospite privata, gradivo venisse seguita in modo particolare e oggi ha avuto da ridire. Se ti turba puoi dire ai tuoi genitori che non ci saranno altri problemi.» Balzai in piedi in un brontolio e lui mi gettò un'occhiataccia di ammonimento. «Mi dispiace se ti ho creato imbarazzo. Ora devo andare a parlare con mia sorella, vi lascio discutere.»

«Vengo anche io!» esclamai in panico.

Isidora si mise in mezzo e io pensai: "Oh, cavolo, ora sì che sono morta."

Appena se ne fu andato mi mise le mani addosso, scuotendomi forte. «Che cosa pensi di fare? Cosa hai detto al re? Ti rendi conto che ora avrò gli occhi addosso? Ho faticato tantissimo per essere qui, se mi rovini anche questo...» mi minacciò.

«Io non ti ho mai rovinato niente» sbottai. «E non sono mai venuta a trovarti qui. Sapevo che ti avrei messa in imbarazzo e vieni a casa quando nessuno ti vede.»

Lei si staccò, sollevando le spalle. «Che diamine dici? Sei tu che sei mezza nuda con il re.»

Afferrai la maglia e me la infilai al contrario. «Mi prendevi in giro perché non riuscivo a trovare un uomo e dicevi che sarei stata ridicola con abiti belli.

«Ti prendevo in giro, sono cose che si dicono» minimizzò. «Se fossi entrata a corte...»

«La corte non mi piace, punto» ribadii secca. «E mi facevi soffrire, Isi, smettila di girarci intorno. Ti credevi più importante di me, più importante di noi perché eri qui con altre a trastullarti. So che ti piace il re, ma scusami se ti dico che non me ne importa. Io rimango qui a palazzo.»

Isidora spalancò gli occhi. «Scherzi? Non puoi rimanere a palazzo!»

«E perché? Al re piaccio» mi difesi. «E ti ha detto che sono una sua ospite.»

«È una stupidata. Io lavoro qui per prendermi cura anche dei miei genitori. Sei tu quella che li fa preoccupare. Sei qui solo perché hai fatto qualcosa al re» mi accusò.

«Forse, questo non toglie il fatto che sono la sua preferita» gongolai. «A me lui piace, quindi sto dove mi pare, mezza nuda o no.»

Cel sghignazzò.

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