II
(Celestia)
Albeggiò quando ci lasciammo la brughiera alle spalle e scorgemmo il villaggio alle pendici della collina su cui si ergeva il castello bianco, la dimora del re. Era la bella stagione e, appena il sole si levò di qualche spanna, scaldò subito l'aria e le nostre spalle infreddolite dall'umidità del bosco. La valle era ampia, verde, gonfia come la pancia di una donna gravida tra colline, capanne e campi coltivati. Lo scroscio del fiume Panclar annunciò che fossimo finalmente a casa.
Le case del villaggio erano tutte simili, povere, semplici, ma molto curate. Gli Elfi erano particolarmente attenti a qualsiasi opera di bellezza. Molte di quelle avevano porticati con sedie e tavoli di legno, pronti ad accogliere chiacchierate pomeridiane, finestrelle tonde e camini già fumanti.
Diedi una gomitata a Calex e seguii il sentiero che attraversava il villaggio, zigzagando verso la bottega del vecchio Mug, il macellaio. La capanna era minuscola e a due piani, c'era sempre uno strano odore da quelle parti e gli animaletti carnivori si aggiravano attorno a casa sua in cerca di avanzi appena morti.
Entrai per prima. Mug era già al lavoro, persino a notte fonda si potevano vedere le luci delle candele ardere nella sua macelleria, preparandosi al giorno di lavoro. L'ambiente non era molto spazioso e davanti a noi c'era un bancale con molti tagli di carne di varie specie.
Mug era un Elfo anziano, un vecchio esploratore, e alla cintura gli pendevano vari coltelli macchiati di sangue. Fece una smorfia appena entrai, piantando la punta del coltello sul tagliere di legno malridotto, mentre la figlia Mirin compattava delle polpettine al sapore di irgvin.
«Bene, sei tornata» gracchiò lui in una modesta cantilena. «L'ultima volta mi avevi detto che la mia carne ti faceva schifo e che te la saresti procurata da sola. Dimmi, quante prede hai cacciato oggi?»
«Nessuna» ammisi.
Non era un tipo che apprezzava le critiche.
«E sei venuta per comprarne un po', immagino. Non dovrei proprio darla a te, ma devo dei favori a tuo zio. Sgancia i soldi.» Tamburellò le dita sul bancone.
Presi il sacchetto di stoffa da sotto la mantella e Calex mi afferrò il polso. Lo sfidai con ostilità. Le prede nei boschi scarseggiavano, i sudditi del regno delle Ombre ammazzavano senza pietà qualsiasi preda e in giro c'erano più carcasse che animali vivi. Da quando c'era in giro Cel e la sua aura infestava i campi, gli animali erano scappati altrove.
«Finirai nei guai» sibilò Calex, scuotendo la testa.
Porsi delle monete a Mug e lui le studiò. «Sono monete dei nani, Nico. Hanno un valore bassissimo qui. Potrei darti tre monete di rame.»
«Col cavolo, varranno almeno il doppio!»
«Non quelle rubate. Dove le hai prese?»
«C'erano dei nani nella foresta che...»
«Fuori!» urlò furibondo, marciò oltre il bancone e ci afferrò per i cappucci e ci spinse verso l'uscita con poca grazia. «Non voglio avere a che fare con quei luridi nani e i loro tornei! Mi porti solo guai!»
«Ti pago e ti rifiuti di darmi della carne?» litigai.
«Già, o mi paghi con delle vere monete o tanti cari saluti, mia cara. Finirai in prigione uno di questi giorni, dovrei denunciarti ai cavalieri!»
Mirin sospirò scocciata. La sua mano scivolò e si tagliò un dito con un arnese, ma non ci fece troppo caso. Abituata se lo avvolse in un panno e guardò il padre volitiva. Era una ragazza esile, con la faccia ricoperta di lentiggini scure e gli occhi di un azzurro troppo acceso.
«Basta così, papà» lo liquidò stufa. «Sono comunque soldi.»
«È la mia bottega e faccio quello che voglio. Torna al lavoro!»
«Dalle quella carne e basta, per favore!»
C'erano poche cose che Mug amava e una di queste era la sua unica figlia Mirin. Sua madre era morta la notte della strage e lui non si era mai perdonato il fatto di essere stato altrove. Lei era miracolosamente sopravvissuta, le avevano tagliato una gamba e camminava zoppa su un moncherino di legno che le aveva fatto mio zio. Falastor aveva aiutato molte persone, per questo la gente mi sopportava.
Mug sibilò di rabbia, andò nel retrobottega e tornò qualche secondo dopo con una sacca di carne ben fornita. Mi rubò il denaro dalle mani, aggiungendo altre tre monete per il disturbo, e ci cacciò fuori.
Calex ringraziò Mirin al posto mio. Da piccoli lei e Taras erano stati amici e non si dimenticano facilmente quei rapporti, specie per noi.
«È andata bene» feci contenta, ignorando il fatto che Mug avrebbe evitato di fare affari di nuovo con me o altri della mia famiglia.
Calex roteò gli occhi, dopodiché esaminò i pezzi di carne con ingordigia, già immaginando alle squisitezze che sua madre avrebbe cucinato. La carne di irgvin era la migliore in quel periodo e, fritta con delle erbe piccanti, era il paradiso. Zia era un'ottima cuoca.
Prese la sacca e ci incamminammo finalmente verso casa. La nostra capanna era uguale alle altre, con un tetto spiovente, muri di mattoni grigi e due caminetti gemelli. In alcune parti l'intonaco era caduto e l'edera si era avviluppata alla grondaia, e c'era un'enorme pila di tronchetti vicino al cancelletto. Oltre la casa c'era la fucina di famiglia, una mesta cupola nera da cui usciva un denso fumo.
Nel cortiletto varie gallinelle e fatine giocavano allegre, scappando l'uni dagli altri.
Calex fece per afferrare il pomello di casa e scivolare dentro con nonchalance, tuttavia sua madre lo anticipò e lui sobbalzò. Sulla soglia c'erano i miei zii, Falastor e Hirvine. Lui era un uomo robusto, con muscoli grossi quanto la faccia di un nano, sollevava e picchiava il metallo tutto il giorno e la sua pelle era tinta di un brunetto chiaro. I suoi occhi erano verdi, come quelli di Hirvine e di tutta la sua famiglia.
Sua moglie Hirvine era una donna altissima, il collo lungo e dei folti capelli color rame. Ci guardava con apprensione e sollievo e intuimmo che fossimo nei guai.
Hirvine ci prese per le braccia e ci tirò dentro. «Come diamine vi è saltato in mente di uscire nel cuore della notte senza avvertire? Eravamo in pensiero, pensavamo al peggio!» strillò.
Calex sospirò e suo padre gli diede una pacca sulla schiena per intimargli di tacere, mentre mia zia mi esaminò il volto e lo strappo sulla mantella. Dovevo essermelo fatto nella brughiera, quando stavo scappando da quei nani malefici e dal re.
«Dovrei metterti in punizione di nuovo, chiuderti in soffitta e...» Scosse la testa. «E per te sarebbe un gioco, vero? Stai bene?» Annuii. «Be', sei in punizione, signorinella.»
Zio Falastor inquadrò la sacca che Calex teneva in mano e la prese, osservando la carne con sguardo critico. Erano pezzi buoni, freschi e senza ossa, il genere per cui molti avrebbero speso varie monete d'argento e io me le ero accaparrate quasi gratis.
«Dove li avete presi i soldi?» ci domandò serio. «Quante volte ve lo devo dire che non dovete accettare l'elemosina da Mug? Ora penserà che non riusciamo nemmeno a prenderci cura di voi!»
Il suo volto si rabbuiò. Era un uomo strano, mio zio, con strani pensieri e strane priorità. A me bastava avere qualcosa da mangiare. Pensava che la gente ci guardasse dall'alto in basso con brio, a molti Elfi serviva l'altezzosità persino nei quartieri più bassi.
C'era sempre qualcosa di strano negli occhi della gente quando ero accanto alla famiglia dei miei zii; mi avevano adottata dopo che i miei genitori – e Cel – erano morti nel massacro, eppure l'istinto degli Elfi non si sminuiva mai. Risultavo diversa da loro, la mia pelle era più scura, del tono del caffellatte senza zucchero, i capelli una folta chioma di ricci ribelli, marroni come gli occhi. Gran parte della razza avevano bellezze auliche, angeliche, perché credevano che gli Elfi fossero la personificazione di quello che gli umani avrebbero potuto diventare senza il peccato originale. La verità secondo me era che nessuno era perfetto, tanto meno noi.
«È tutto okay, ho pagato io» dissi.
Mio zio mi incenerì. Era un uomo buono, però sapeva dove amassi ficcare il naso e perché dovessi essere l'ultima nell'elenco dei sospettati dei cavalieri. Alzare troppo il gomito poteva farmi cadere a picco e dovevo proteggere Celestia.
«Sei andata ad un altro di quegli scontri, non è così?» accusò.
Hirvine mi tirò un orecchio. «Di nuovo, è il secondo in un mese!» Le feci gli occhi dolci e mi mollò subito, facendo un grosso espiro. «Per anni ho tentato di fare al meglio delle mie capacità, forse avrei dovuto chiedere aiuto a Mithel che ha otto figli, probabile! Per colpa vostra non ho chiuso occhio tutta la notte, quella è brutta gente, avrebbero potuto rapirti!» Con una bestia come Cel al mio fianco non ci sarebbe riuscito nemmeno un Dominatore. «Che volevo dire? Sì, sei in punizione.»
«Lo ero già» replicai.
«Lo sei di più!»
«Dammi ciò che hai preso, Nico» mi ordinò zio, tendendo una mano e, senza fare storie, gli passai il resto delle monete.
Mi tenni solo una delle tre monete d'oro, la più grande, come ricordo e me la feci saltare nella manica prima di dargli le altre con un'espressione sconfitta. Pensava che le avessi rubate, ne ero il tipo, e il fastidio più grosso derivava dal fatto che me le fossi guadagnate, lottando sportivamente – be', sportivamente no, avevo mandato Cel e avevamo perso la prima volta di proposito per far alzare la quota.
«Ti farai male continuando così» mormorò deluso zio Falastor.
Hirvine andò in cucina, sistemandosi il grembiule da lavoro attorno alla vita stretta. C'era un delizioso sapore di crostata alle pesche, il suo cavallo da battaglia e mi venne l'acquolina in bocca. Zio Falastor strinse la sacca di carne, si domandò se fosse giusto tenerla o meno, poi ci indicò la cucina di andare a mangiare in silenzio.
Là ci aspettava Isidora. Era mia cugina ed era quel genere di bellezza che riscuoteva molto successo al villaggio. La sua pelle era bianco latte, i capelli ramati le incorniciavano un volto a cuore delicato, labbra rosse e occhi verdi. Indossava un abito elegante, bianco, con dei decori sulla vita e delle catenelle ai polsi che tintinnavano ad ogni suo movimento. Erano fastidiosi.
Isidora era la figlia minore di Falastor e Hirvine, tuttavia d'aspetto pareva la maggiore, una donna d'un pezzo, sempre con il mento rivolto verso l'alto e un sorrisetto altezzoso in faccia. Lavorava a corte come damigella della dama Calanthia, sorella del re Aurelion, ed era una delle sue fanciulle da compagnia. Viveva nel lusso e ogni tanto ci portava regali costosi, come stoffe pregiate o frutta esotica mai vista, succosa e dolcissima, e ogni mattina faceva colazione a casa. Per quanto amasse i vizi, non trovò mai una torta più buona della crostata di pesche di Hirvine.
Stava bevendo del succo quando mi vide arrivare, ero sporca dalla testa ai piedi, con i capelli spettinati e delle brutte occhiaie in faccia.
«Di nuovo in giro tutta la notte, Nico? Dovresti trovarti proprio un ragazzo con cui passare le ore» mi rimproverò astuta.
Il suo dono era quello di tirare frecciatine gentili, senza mai cadere nella volgarità. Era un talento che aveva riscosso parecchio successo a corte dato che Calanthia l'aveva subito tenuta con sé come un gioiello.
Ai reali manca proprio qualche rotella, pensai.
«Un uomo? Non ci farei nulla» risposi. «Potrei mangiarlo, se è buono.»
«Gli uomini sono molto buoni.»
Sua madre aprì la bocca e le puntò un dito contro. «Attenta a come parli, Isi. Cosa ti insegnano a corte? Lascia in pace Nico.»
«A lavorare con l'ago, a pettinare i capelli e cantare. E parliamo un sacco di uomini» scherzò.
Hirvine scosse la testa e mise sul tavolo la crostata appena sfornata. La torta era profumata, croccante e la confettura alle pesche fumante. Calex si sedette vicino a me, strofinandosi la faccia per svegliarsi, dopodiché addentò un pezzo di torta e mangiò mogio.
«Oggi è il tuo turno in forgia» mi disse Falastor e io annuii.
L'idea di farmi un'intera giornata nella fucina a colpire spade, alimentare il fuoco della fornace, spalare carbone e appiattire metalli mi fece stare male. Avrei voluto mettermi sotto le coperte di pelli del mio letto in soffitta e dormire fino a cena.
Annuii sconsolata e lui mi fece un sorriso gentile. Rimanere arrabbiati tra noi era impossibile. Hirvine diceva che gli ricordassi molto mia madre, almeno per via del mio comportamento. Anche lei era una ribelle, una combinaguai, e sposarsi in segreto con un umano era l'emblema dello sconfinare tra ribellione e stupidità.
Sapeva che Fannie avesse avuto una tresca con qualcuno che non fosse un Elfo, certe cose si possono immaginare, e aveva cercato di proteggermi. Da quando Taras era morto mi aveva presa con sé come una figlia e aveva impedito a chiunque di noi di avvicinarsi ai cavalieri.
Taras era stato uno di loro, gli stessi che erano andati in prima fila a morire durante quella notte dalla quale molti Elfi non avevano fatto ritorno. Calex avrebbe voluto diventare cavaliere, se non il primo cavaliere, posto che in quegli anni aveva preso Handir. Essere cavaliere ti garantiva l'accesso a corte, cibo squisito e una retribuzione generosa, per non parlare del successo con le donne. Togliendo il fatto che si poteva morire da un giorno all'altro era un ottimo impiego. Al contrario Falastor lo aveva messo a lavorare in fucina.
Era un lavoro duro, bello, però Calex non lo aveva mai perdonato per aver distrutto il suo sogno, il voler seguire le orme di Taras.
Appena Hirvine ci lasciò da soli a fare colazione, Calex batté la mano sul tavolo. «Sei contenta? Ora devi farti perdonare prima che pianga di nuovo.»
Mi pulii la bocca dalla marmellata con una manata. «Devi? Dobbiamo» lo corressi. «Io sono uscita di notte, ma tu mi hai seguita. Sei colpevole anche tu. I giochi pagano bene, potremmo...»
Isidora sbiancò. «Sei andata nella foresta di Tundle Bay per vedere i giochi?» sillabò, mescolando ira e stupore. «Nico, è illegale, se lo scoprissero...»
«Non mi hanno mai scoperta» puntualizzai.
«Lo hai fatto altre volte?»
"Colpevole" accusò Cel per poi ronfare di nuovo.
«Cal, a corte si mormorano cose... I cavalieri sono agitati e persino la mia signora è preoccupata. Dice che si sono visti degli umani vicino alla brughiera, soldati...» iniziò e si guardò intorno. A Falastor non piaceva parlare dell'Esercito, tanto meno degli esseri umani. «E se entrassero, se...»
«Non entreranno» gli garantì Calex rabbrividendo. «Combatterò io.»
Avrei voluto dire che anche io lo avrei fatto, difeso la mia casa e la mia famiglia, però mi mangiai la lingua. A Hirvine non piaceva il fatto che lavorassi nella fornace, era pericoloso e molte volte era capitato che qualche tizzone mi volasse addosso per sbaglio – le mie cicatrici su braccia e gambe ne erano la prova – ergo combattere come un uomo era per lei fuori discussione.
Durante l'infanzia non avevo mai passato troppo tempo con i miei cugini e Taras per me era un estraneo. Non me lo ricordavo nemmeno. Ero cresciuta con i miei genitori e mia sorella nella foresta, quasi nel mondo umano e avevo visto più orrore di quanto avessi raccontato loro. Non ero una ragazzina oramai, non avevo bisogno di protezione.
Isidora annuì cupa. «Stai lontana da quella foresta, Nico, non è uno scherzo. I nani sono disgustosi!» Da sotto la veste prese un tubicino e se lo passò sulle labbra, cercando di metterne un po' anche a me. La evitai schizzinosa. «È un po' di burro colorato.»
«Se vado a nuotare poi avrò la faccia tutta colorata» mugghiai.
«L'acqua del fiume è gelida e poi non hai una veste adatta.»
«Per questo mi tolgo i vestiti.»
Calex si strozzò.
«Cerca di essere meno strana, per favore. Ai ragazzi non piacciono i problemi, specie con i tempi che corrono. Hai i capelli tutti in disordine, dovresti pettinarli un po'» propose.
Se lo avessi fatto sarebbero esplosi in una massa peggiore, mamma una volta ci aveva provato e avevo pianto per giorni, fino a che papà non era tornato dal Nido per aiutarla. In base a ciò che ricordavo, anche lui aveva la pelle scura e i capelli ricciuti.
«Come devo comportarmi?» domandai curiosa.
Avevo tanti amici maschi, ma nessuno di loro mi aveva mai preso per mano o regalato dei fiori. Isidora aveva ammiratori ad ogni via e tornava spesso a casa con mazzi di rose e regali.
«Be'... in modo carino, pacato. Sei una ragazza. Non vuoi trovare un marito?» chiese. «Potrei portarti a corte, un giorno di questi e farti vedere...»
Scossi il capo. Il castello non era luogo per una come me. Preferivo lavorare nella forgia e giocare nei boschi.
«Tu lo faresti impazzire, un uomo!» ringhiò collerica.
Feci spallucce. «Meglio andare a caccia di Demoni in campagna» dissi.
«Demoni?»
«Sì, Demoni. Nelle notti di luna nuova è facile vederli. Dovrebbe essercene uno...»
Isidora scosse la testa. Dopo quella reazione non sapevo cosa dire. Parlare con lei era impossibile. Eravamo troppo diverse e non eravamo andate mai troppo d'accordo per via dei nostri interessi e obiettivi opposti.
«Ieri notte ho visto una persona nella brughiera.»
Avevo bisogno di dirlo ad alta voce per capacitarmi di ciò che avessi visto. Il ricordo del re Aurelion stava già svanendo e mi pentii di non aver studiato con maggior ardore i suoi occhi verdi. Volevo tenermelo stretto un po'.
Calex finì la seconda fetta di torta. «Lunghi capelli d'argento e armatura reale, ti ricorda qualcuno, sorellina?»
Isidora corrugò la fronte.
«Ho visto il re Aurelion» rivelai e lei spalancò la bocca.
«Mi stai prendendo in giro?» Scossi il capo e lei interpellò Calex. Lui alzò le spalle. «Te lo sei inventato! Perché il re avrebbe dovuto essere lì?»
Sospirai. Mentire su una cosa simile non aveva senso. Dicevo solo bugie utili.
«Be', il re mi ha quasi mozzato la testa!» esclamai. «Zac! I cavalieri hanno invaso il campo dei nani, ma lui era impegnato altrove. Ne sono sicura, non sto mentendo. Io sono una bugiarda cronica, se fossi una fata sarei già morta soffocata dalle mie menzogne, ma da me te lo aspetteresti. Il re, che è tanto onesto, che faceva? Hai detto che ci sono degli umani.»
«Forse!» fece eco lei. «Forse ci sono degli umani. E abbassa la voce o mamma ti sente.»
«Allora di' alla tua signora di spettegolare meglio. Gli umani ci sono eccome, ecco perché lui era nella brughiera» mugugnai.
Lei sbuffò acida. «Sei una disonesta.»
«Mai detto il contrario.»
Si alzò da tavolo e se ne andò senza dire una parola. Litigare con mia cugina era una tortura dato che avrei dovuto subirmi i suoi silenzi e le proteste di zia Hirvine sul nostro comportamento. Finché se ne stava a corte poteva godere di trattamenti di favore, io non le avevo mai indorato la pillola.
«Un'altra persona sulla lista» calcolò lui fiacco. Mi sarei scusata più tardi. «Spero che tu abbia imparato la lezione.»
«Certo che sì.»
«Andrai di nuovo ai giochi, vero?»
«Di sicuro.»
Ripensai ancora ad Aurelion. Lo avevo già visto un paio di volte a qualche evento ufficiale, come il torneo dei cavalieri dove Handir era uscito vincitore, o a dei discorsi pubblici. Usciva di rado dal castello e mi sarebbe bastato allungare la mano per toccarlo. Il latte mi ricordava il colore dei suoi capelli.
«Sai chi è il re del regno delle Ombre?» chiesi a mio cugino.
Annuì e mi guardò strano, domandandosi come facessi a ignorare una tale informazione. Non ero mai andata a scuola, mamma mi aveva insegnato a leggere il silvano e l'ogenyum, le lingue antiche delle creature terrestri e marine, mentre papà ci aveva educato alle arti del combattimento, della caccia. Ero una cacciatrice migliore di tutti quelli della mia età.
«Nergal» disse e bevve del latte come per pulirsi la bocca da tale nome. «È il fratello minore del re Aurelion. Anche a lui piacciono quei giochi. Il suo primo cavaliere è Ahdeniel. Entrambi sono guerrieri molto dotati.»
«Credi che Nergal sia fedele al nostro re?»
«Forse, ma mi è sempre parso come uno che è fedele solo a se stesso. La gente non lo vuole su questo territorio. Il re Aurelion gli ha dato il territorio nero per allontanarlo e persino Calanthia evita di stare in sua compagnia, scommetterei diedi monete che non gradisce affatto il suo regno. Voleva quello della Luce» raccontò. «A che pensi?»
«Al re» rivelai.
Lui sogghignò. «Sei sicura di non aver battuto la testa?»
Lo guardai male. «Sei uno stronzo.»
«Tu di più. La storia mi puzza un po', tutto qui, e poi da quando ti interessano gli uomini? Ti avrà scambiata per una criminale se ti ha visto in quella zona, ti avrebbe giustiziata sul posto. Ha scorto il tuo volto?»
«No, ovvio, o sarei già in catene. Non sono così folle, Cal» protestai stanca.
«Meglio così, tanto non lo vedrai più.»
Mi sfiorai i capelli e mi rimbombarono le parole del re in testa. Se gli avessi spiegato cos'era successo mi avrebbe creduta e capita. Forse no. Anzi, di sicuro no. Era un bene che fossi scappata senza dire altro, mi ero risparmiata una pessima figura e altri insulti. Ero una criminale per lui e sarei rimasta tale.
Cel mi aveva salvata. Ancora.
«Ehi, vuoi sentire la mia nuova battuta?» proposi per distrarmi e alzai la voce affinché sentisse anche Hirvine, la quale rientrò dalla porticina sul retro con i residui di mangime sotto le unghie. «Che differenza c'è tra l'oracolo e una banana?»
Calex rise già mentre mia zia si fermò a pensare. Gli Elfi veneravano il culto dell'oracolo, era una figura presente all'inizio della nostra storia e rappresentava il cerchio della vita e la natura. Appena le dissi che l'oracolo lo conservavi nel cuore e la banana in un altro posto ci mandò in fretta e furia al lavoro, prendendoci a calci.
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