Epilogo
Aurelion era in piedi sul balcone delle nostre stanze, tra le dita faceva dondolare un bicchiere di idromele di un intenso color dorato, frizzante. L'estate stava finendo e così le nostre scorte di mele estive; il tempo era cambiato da quando la magia dell'oracolo aveva abbandonato i territori elfici. C'erano delle persistenti nube grige sull'Inghilterra, lontane dai ricordi che gli Elfi conservavano del vecchio regno. Avremmo dovuto imparare a coltivare una nuova terra, vedere i frutti crescere meno in fretta e guardato con maggior orgoglio i nostri sforzi.
Nonostante quei pensieri, la vita al villaggio era proseguita senza altri intoppi. I campi erano stati di nuovo coltivati e si era avviato un nuovo commercio di scambi con gli Elfi neri, i quali vantavano di avere molte riserve di minerali adatti alla fabbricazione di armi e utensili e il loro terreno era adatto per le piccole piante, come zucche, spinaci e cavoli. Fu una fortuna che andassero matti per la nostra uva spina.
Mi avvicinai ad Aurelion di soppiatto. Si era sciolto i capelli e alla luce del tramonto la sua pelle era di porcellana, perfetta. Saltai e gli rubai la corona dalla testa, posandola sulla mia. Era troppo larga e mi pendeva da un lato, con le foglie di alloro che mi pungevano e si impigliavano tra i ricci.
Aurelion mi sorrise.
Mi lamentai. «Sei un fidanzato tremendo. Hai finito l'idromele che ci aveva portato Calanthia e non mi hai dato neppure una goccia. Merito di Ahdeniel?»
«Sta facendo un buon lavoro, anche se non mi sfuggono di certo le avventure ai confini» precisò bacchettandomi e fischiettai per togliermi da quella conversazione.
Io e Ahdeniel condividevamo una passione proficua per i tornei clandestine con i nani e ogni mese gareggiavamo di nascosto a Tundle Bay, giocandoci le nostre monete più care. Aveva aperto varie fucine e dato lavoro a vari Elfi, ospitando parte dei cavalieri per dar modo di insegnare ad altri i mestieri più delicati. Mio cugino si era offerto volontario e il suo andirivieni su e giù faceva preoccupare zia Hirivine. Si era guadagnato il titolo di mastro fabbro reale – un'invenzione di Ahdeniel – e stava valutando l'idea di prendere parte all'esercito del re nero come cavaliere.
«Le storie d'amore sono molto diverse da quelle raccontate nelle fiabe» constatò. «Ma tu ci sei andata molto vicino. Ripensando a tutto quasi fatico a crederci. Mi hai trovato nei boschi, quella notte e ti sei offerta di sacrificare la tua vita per me. Sei rimasta al mio fianco, mi hai protetto e sei diventata regina.»
Mi tolsi la corona e gliela restituii. «Non fino alla prossima primavera. Non sono ancora tua moglie» giocherellai.
Avrei preferito potessimo svolgere la cerimonia di fronte alla luna piena, tuttavia le nuove difficoltà avevano portato a galla altri problemi, come la gestione del regno di Nergal, l'indecisione delle creature fatate nei territori neutrali, la regolazione degli scambi e la protezione delle vie commerciali, per non parlare della brughiera aperta.
Pensavamo di essere allo scoperto, eppure gli umani ancora evitavano quei territori vuoti e i Demoni si tenevano alla larga dall'impero del Nido, il quale ci aveva dimenticati e vivevamo vite opposte. I tempo incerto e le piogge del mare ci aiutavano, la nebbia avvolgeva le colline e i campi, lasciandoci la bellezza di pensare che fossimo gli unici esseri esistenti. A volte ripensavo a Damian, a suo figlio, e mi chiedevo come sarebbe andata la mia vita se avessi scelto di partire.
Presi per mano Aurelion e mi diede un bacio.
«La corona è già stata fatta» mi consolò. «E Calex mi ha detto di averci incastonato delle belle bacche preziose.»
Aveva avuto lui stessa l'idea il giorno della sua partenza, aveva proposto ad Ahdeniel di forgiare la mia futura corona nel loro regno, di legarla ad entrambi, ad un Elfo delle Ombre e ad un Elfo della Luce, in modo tale da sigillare la nostra pace. Morivo dalla curiosità di vederla.
«E io ho già fatto gli anelli» continuai. «Magari cambierò idea.»
«Troverai un altro amore? Un altro re con cui scherzare?»
«Tu adori i miei scherzi» puntai. «Sono la tua volpe. Ricordi cosa mi ha detto Nergal quel giorno, quando ti sei offerto di proteggermi? Ha detto che avrei rischiato di portarti alla morte, che ci saremmo feriti entrambi.»
«Una volpe» ripeté pensoso. «Mi ricordo. Nergal pensava potessi diventare una debolezza, gli è stato insegnato a disprezzare l'amore da nostra madre e non ha mai conosciuto la dolcezza di un abbraccio o di un bacio sincero. Se avessi continuato su quella strada senza di te avrei capito i suoi scopi.»
«Sono una debolezza?» chiesi piano.
Il suo fiato era dolce, di idromele e la pelle profumava.
«Sì, ma sono felice di averti trovata e di essere finito in quelle spine. Soffrire fa bene a volte. Aiuta a capire molte cose. Tu mi hai dato la fiducia e per fortuna non sei una volpe sveglia. Sei Nico, un'Elfa a metà e mi basta» sospirò, passandomi le dita tra i capelli e tracciando la linea tonda delle orecchie.
Abbassai lo sguardo, nascondendo il fatto di essere arrossita di gioia. Infilai la mano in una tasca della mantella e sfiorai un cerchietto di metallo.
«Ti ho fatto una cosa. Un regalo» annunciai fiera.
Glielo mostrai e lui lo studiò, ammirando la dedizione e la lucidatura. Era una treccina bruna attorcigliata tra una spiga e un filo d'erba, avvolta intorno al cerchio di ferro.
«L'ho fatto io. Ci ho messo un po' e... non sono brava con gli oggetti così piccoli, è bruttino. Mi piace più fare le spade» boccheggiai imbarazzata. Era la prima volta che facevo un regalo simile a qualcuno e glielo legai al polso. «Ecco, vedi, l'ho fatta in ferro così se una fata volesse prenderti si brucerebbe! Questa è una spiga del campo di granturco e questa e l'erba del confine, dall'incendio ce ne è rimasta poca.»
«E questi?» Indicò i ciuffi brunetti. «Sono i tuoi capelli?»
«È un pegno» spiegai. «Di quello che le ragazze fanno ai loro cavalieri. Isi me lo ha detto e ne ha fatto uno per Yor. È per quando non starò con te.»
Aurelion lo accarezzò delicato. «E lo hai fatto tu? Per me?» Gli mostrai i polpastrelli ruvidi, segno dei miei lavori nella fucina – e delle prese in giro di Bithi. «Chiederti di nuovo di cedere il titolo di primo cavaliere sarebbe un insulto, vero?»
Annuii. Avevo tenuto entrambi i titoli e avevo scoperto con grande rammarico che fosse difficile gestirli. Aurelion aveva mantenuto i suoi compiti e si occupava anche dei miei quando ero impegnata nelle schiere dei cavalieri, lontana dalla corte. Mi sentivo utile quando perlustravo le zone, le cave elettriche e le scogliere del nord. Volevo vedere il vero volto del mondo, proprio come aveva fatto mio padre.
«Ce la farai senza di me?» lo canzonai gentile.
«L'ho fatto per secoli senza una regina al mio fianco, riuscirò a sopravvivere. A meno che tu non voglia dichiararmi guerra.»
Ridacchiai. «Sarò come Persefone.»
«Chi?»
«Persefone. Mio padre ci raccontava le storie antiche e mia madre lo prendeva in giro chiamandolo come la moglie del re degli Inferi» dissi, accarezzandogli le nocche.
«Intendi Kiral?»
Scossi la testa. «È un vecchio mito greco, di quando gli umani ancora scrivevano le storie sulle creature magiche e i Demoni evitavano quel mondo che si stava rapidamente trasformando in ferro. Gli umani dicevano che il re degli Inferi, Ade, si innamorò di una fanciulla, Persefone, e la portò nel suo regno infernale per sposarla. Le diede da mangiare alcuni semi e anche se lei sapeva di non poter né bere né mangiare niente cedette all'invito. Da allora è maledetta a passare metà anno all'Inferno e l'altra metà nel mondo umano per portare la primavera.»
Aurelion abbassò le spalle sconfitto. La vita di un cavaliere era frenetica, avrei passato settimane lontana da lui a vagare per boschi e valli. Avrei tentato di mettere il piede in due scarpe. Avevo buone speranze se mio padre ci era riuscito.
«Una storia affascinante. È come te, destinata a condurre due vite. Io ti aspetterò.»
Volteggiai nel balconcino e alzai le braccia, lasciando che la brezza mi ripulisse la faccia dal sudore. C'era odore di pioggia, il terreno era umido e la terra profumava. Nei giardini reali erano comparsi nuovi fiori e quelli magici erano scomparsi, le dame di Calanthia si divertivano a raccoglierli e immergerli nell'acqua calda per creare nuovi intrugli contro il mal di testa.
Le sacerdotesse stavano pregando la statua dell'oracolo e pensai a lei, a quella figura divina che avevamo visto chiaramente. Guardando indietro mi sembrava di aver vissuto un sogno. Sperai che in qualsiasi universo si trovassero, lei e quella bestia si fossero ricongiunti. Avevo assaporato nella mente i loro sentimenti, il malessere di essere costantemente divisi, di rincorrersi come sole e luna.
Di nascosto, senza mai dirlo a nessuno, pregavo anche quella bestia.
Mi bloccai e lo guardai maliziosa. «Dovrei restituirti una cosa.»
«Cosa?»
Azzerai le distanze e lo baciai. In tutta risposta chiuse gli occhi e socchiuse le labbra. Il calore mi inondò le braccia e mi fece rabbrividire.
«Oh» esclamò Aurelion. «E perché questo bacio sarebbe mio?»
«È il bacio che ti ho rubato alla corte nera, quando volevi cacciarmi via!»
«E se io non lo rivolessi?»
«Non lo vuoi?»
«No. Dovresti proprio riprendertelo, mia regina» ribatté con le labbra vicinissime alle mie.
«Avevi ragione» mormorai tra un bacio e un altro. «L'amore è la maledizione più potente che esista.»
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