33. Colpe e sofferenze
GIUSEPPE
"Ho visto un uomo che moriva per amore,
Ne ho visto un altro che piu' lacrime non ha.
Nessun coltello mai
Ti puo' ferir di piu'
Di un grande amore che ti stringe il cuor."
L'orgoglio era davvero una gran brutta bestia certe volte. Non sentivo né vedevo Emma da più di una settimana e stavo letteralmente per impazzire da un momento all'altro. Non riuscivo a lavorare nè a pensare con lucidità. Con stizza arrotolai le maniche della camicia e mi alzai per guardare fuori dalla finestra. Era un'abitudine che di solito riusciva a calmarmi, ma non questa volta.
Ad aggravare il tutto, ci mancava solo mia madre che mi chiamava e chiedeva notizie di Emma e della gravidanza. Quando il cellulare aveva iniziato a vibrare nella tasca, avevo sperato con tutto il cuore che si trattasse di lei e invece mi sbagliavo di grosso.
Se non fossi stato così nervoso e facilmente irritabile, avrei apprezzato volentieri il fatto che mia madre continuasse a preoccuparsi tanto per la donna che amavo. Presentare Emma alla mia famiglia, non era stato così traumatico. Dopo l'iniziale sgomento di vedere una donna tanto più giovane di me al mio fianco, i miei genitori l'avevano trovata molto amabile e dolce e non potevo certo dargli torto.
Ma la notizia che aveva dato loro più gioia, era sicuramente quella della gravidanza della mia compagna. Mia madre e mio padre non vedevano l'ora di conoscere il nuovo nipotino. Avendo mia sorella un anno più di me, non si aspettavano l'arrivo di altri piccoli in famiglia ed erano rimasti piacevolmente sorpresi dalla novità.
Mi girai sovrappensiero e trovai Rocco che mi fissava. Chissà da quanto se ne stava lì immobile come uno stoccafisso.
"Non si usa più bussare?" domandai irritato.
Fece un passo avanti per avvicinarsi con cautela. "In realtà l'ho fatto, ma non ho ricevuto nessuna risposta. Quindi sono entrato. Giuseppe, stai bene?"
"Secondo te?"
"Secondo me per niente. Questo significa che non hai ancora chiamato Emma..." constatò lasciando alcuni documenti sulla scrivania.
"Non l'ho fatto, hai ragione. Ma non capisco perché dovrei essere io a fare il primo passo. Non sono io quello che ha sbagliato."
"Non dovresti essere così inflessibile con lei. Ti ama e pensava solo di fare la cosa giusta."
"Facile parlare per te! Volevi che si dimettesse da quando hai scoperto della nostra storia!" dissi innervosendomi.
"Sì, lo ammetto. Ma questa volta io non c'entro niente. In fondo è una cara ragazza, ma capisci bene che non potevo che vederla come una minaccia..."
"Ok, hai ragione. Diciamo che facevi solo il tuo lavoro."
"Posso darti un consiglio?"
"Dimmi pure. Sono davvero curioso," dissi alzando un sopracciglio.
"Secondo me dovresti chiamarla e smetterla di torturare entrambi. Senza offesa, ma ultimamente sei insopportabile..."
Stavo per rispondere a tono, quando il cellulare che avevo nel taschino della giacca cominciò a vibrare con prepotenza. Lo presi in mano e vidi che si trattava di Emma. Sorrisi felice nel constatare che mi stava davvero chiamando e non era una semplice illusione.
"Giuseppe? Scusami se ti chiamo..." disse con voce tremante. Capii subito che c'era qualcosa che non andava e non riuscii a non interromperla.
"Emma, che succede? Stai bene?"
"Veramente no. Io credo di essere svenuta. Mi sono alzata dal divano e poi mi sono risvegliata sul pavimento. Mi accompagneresti..."
Ancora una volta non riuscii a non interromperla. "Stai tranquilla. Arrivo subito."
"Va bene."
Chiusi la chiamata e mi rivolsi a Rocco. Dovevo raggiungere Emma, non potevo aspettare un secondo di più. In quel momento il lavoro era davvero l'ultimo dei miei pensieri.
"Io devo andare. Inventati pure quello che vuoi."
"Emma sta male?"
"Sì... ha avuto uno svenimento..." confessai con un groppo in gola.
Ero così scosso dalla notizia. Se avessi messo da parte l'orgoglio, forse Emma non si sarebbe trovata sola mentre perdeva i sensi. Come avevo potuto essere così incosciente da abbandonarla in un momento simile.
"Giuseppe, mi dispiace tanto. Ma certo vai! Ci penso io qui."
Annuii e andai a prendere possesso di una della macchine a mia disposizione in caso di emergenza. Salii su una discreta 500 blu e pregai di arrivare il prima possibile a destinazione. Emma non abitava lontano, ma il traffico era un nemico sempre in agguato.
Per una volta la sorte non mi fu avversa e arrivai in poco tempo. La mia Emma mi aprì il portone e quando giunsi davanti alla sua porta di casa, lei era già lì sul pianerottolo ad aspettarmi.
Se ne stava lì cercando di mostrarsi forte, ma potevo solo immaginare che cosa stava passando in quel momento. Indossava le sue amate Converse, un paio di pantaloncini di jeans e una canottiera rosa pallido. Aveva un'aria così innocente.
Non ci vedevamo da troppo tempo e il modo in cui ci eravamo lasciati mi faceva sentire così in colpa che non avevo il coraggio di dire una parola. Combattendo l'istinto di abbracciarla e riempirla di baci, aspettai che fosse lei a fare il primo passo.
Mi guardò indecisa su come comportarsi. Fece un passo in avanti nella mia direzione, ma poi si bloccò.
Al diavolo! Non avrei sopportato un secondo di più quella inutile tortura...
Colmai la distanza che ci separava e l'attirai a me. Quanto mi era mancata. Le accarezzai i capelli soffici mentre mi circondava il busto con le braccia. Quel silenzio fra di noi valeva più di mille parole, ma non poteva durare a lungo. Non avevo dimenticato il motivo per cui ero corso così in fretta da lei. Mi staccai a malincuore dall'abbraccio e la guardai negli occhi.
"Come stai?" domandai sulle spine mentre le riportavo indietro una ciocca di capelli.
"Io sto bene, o almeno credo. Forse qualche livido. È per il bambino che sono preoccupata... però non ho avuto perdite e la ginecologa ha cercato di tranquillizzarmi. Anche se, senza visitarmi..."
"Certo lo capisco. Ma vedrai che non è nulla," dissi cercando di rassicurarla. Le accarezzai la pancia e sperai con tutto il cuore di avere ragione. Mi rifiutavo di pensare al peggio.
Iniziai ad esaminare la sua pelle candida in cerca di qualche segno della caduta. "Dove hai battuto?"
"Più che altro mi fa male il fianco, il braccio e anche un po' la testa."
"Piccola, mi dispiace tanto..." dissi posandole un bacio sulla fronte corrucciata.
"Io non sapevo se chiamarti, ma ho avuto così tanta paura... Ti ho disturbato?" domandò deglutendo nervosa mentre torturava il braccialetto che portava al polso.
Le presi una mano fra le mie per cercare di mettere un freno alla sua ansia. Come poteva anche solo pensarlo? Sentire la sua voce al telefono, era stato il primo momento di gioia dopo giorni e giorni.
"Disturbato? Emma, non lo dire nemmeno per scherzo. Piuttosto scusami se non mi sono fatto sentire..."
"Scusami tu. Mi dispiace tanto," disse con l'aria più colpevole che le avessi mai visto addosso.
"Ora non ha nessuna importanza. Dobbiamo andare, ma prima... lasciati baciare."
Le accarezzai dolcemente il labbro inferiore con il polpastrello e poi annullai totalmente la distanza che ci separava. Il suo respiro si fuse con il mio mentre la baciavo come se fosse la prima volta. La strinsi forte a me, deciso a non separarmi più da lei.
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