Capitolo 27 • Brutta notizia
Quando il secchio smise di salire, la ragazza afferrò con entrambe le mani la carrucola arabescata che reggeva la fune, con un agile salto balzò oltre i bordi del pozzo e, seguita da Freccia, cominciò a correre rapida verso il Palazzo Centrale. Doveva avvertire i Ribelli. Non poteva perdere nemmeno un secondo.
L’aria che aleggiava tra le stradicciole e le case della Base pareva addormentata, immobile. Nemmeno una presenza, al di fuori della ragazza o dell’Ippogrifo, sembrava non essere stata ancora avvolta dalle braccia del sonno.
– Andriamo, Freccia, più veloce, sbrigati! – lo incitò Berenice.
Superò silenziosa la Piazza della Fontana, sgusciò rapida tra gli stretti vicoli della Base fino a che, finalmente, raggiunse il Palazzo Centrale. Senza il minimo indugio spalancò il grande portone d’ingresso, catapultandosi all’interno della sala, e cominciò a correre a perdifiato verso la Torre del Grifone, certa di trovarvi il Mago. Oltrepassò il grande corridoio che conduceva alle diverse camere, poi si voltò. Freccia non la seguiva più.
* * *
All’orizzonte andava disegnandosi sempre più nitida la sagoma di alte mura avvolte da una fitta coltre di edera. Ormai ce l’avevano quasi fatta.
Erioforo osservò Iris. Gli occhi chiusi si muovevano appena, come percorsi da scosse costanti. Le labbra socchiuse erano pallide e immobili, attraversate da una pallida nuvoletta di vapore. La morbida pelle era candida e i capelli disegnavano arabeschi dorati sulla fronte resa rovente dalla febbre.
Fu solo in quel momento che il soldato notò quanto fosse bella, ma scacciò subito quel pensiero e riprese a guardare davanti a sé. Il profilo del villaggio della Robinia si avvicinava sempre di più, stagliandosi nettamente sul cielo spruzzato di stelle luminose.
* * *
Berenice si infilò nella stretta porticina all’estremità di un lungo corridoio le cui pareti erano coperte da pesanti drappeggi color porpora. Davanti a lei si presentò un’angusta scala a chiocciola i cui gradini di marmo erano consumati dagli innumerevoli passi che avevano sorretto. Il lato sinistro della scala era un tutt’uno con la parete, l’altro invece si avvitava attorno ad un’alta e grossa colonna bianca dalla superficie minuziosamente incisa da strani simboli.
La ragazza sbuffò e, liberandosi la fronte da un ciuffo di riccioli scompigliati, si precipitò in avanti, correndo all’impazzata nonostante i gradini pericolosamente ripidi. Ne aveva abbastanza di scale per quel giorno.
* * *
Quando ormai solo poche decine di metri separavano i soldati dal grande portone in legno scuro incastonato nelle mura del villaggio della Robinia, uno degli uomini che erano corsi in aiuto di Erioforo, Platano e Giacinto sollevò lo stendardo che fino a quel momento aveva lasciato sfiorare la neve al suolo. La bandiera, sorretta da una lunga e sottile asta d’oro, era di velluto verde giada. Un lato era occupato dalla figura di una quercia dorata, lo stemma di Hekislia, capitale di Sempreverde. L’altro, invece, era percorso dai rami di un albero dalla corteccia ricamata da una filo bronzeo, la cui rigogliosa chioma era puntinata da delicati fiori bianchi riuniti in piccole cascate chiare.
Non appena i tre Elfi in piedi ai lati del portone scorsero lo stendardo, spalancarono i palmi coperti dalle armature dorate e con un frusciare di legno sulla neve, il portone si aprì, mostrando una breccia tra le mura.
Quando varcarono, stremati, ma vittoriosi, le porte della città, le andature dei cavalli che andavano rallentando, Erioforo scorse i soldati a guardia della città osservare Iris con estremo sospetto. L’uomo fece loro cenno che non c’era nulla da temere e riprese a guidare i compagni.
All’interno, il villaggio della Robinia brulicava di decine soldati che si aggiravano frenetici tra le piccole armerie e le botteghe.
Nell’aria, un susseguirsi di parole concitate si mescolava ad un rumore di spade battute dal ferro. Probabilmente erano pronti a sferrare un attacco ad una città di Roccascura. O, forse, si preparavano a riceverlo.
* * *
Era passato del tempo, ma ancora Roandhel non aveva risposto alla sua richiesta di aiuto.
Quando Castor aveva saputo che la città in cui erano diretti i soldati era Robinia, aveva pensato che rimanere fermo ad aspettare invano non sarebbe servito a nulla. Così aveva aveva destinato un Andheron, antico incantesimo attraverso cui parole affidate al vento da un Elfo della Tempesta erano in grado di raggiungere chiunque in qualsiasi luogo, ad uno dei pochi Ribelli che erano riusciti ad insediarsi nella città camuffandosi da soldati affinché potesse prestargli soccorso. Lo sapeva, non era un piano con vaste possibilità di riuscita e l’Anderhon non sempre arrivava a destinazione, ma, solo, fuori dalle mura di una città nemica con il compito di salvare una Custode dell’Antico Potere, era l’unica alternativa che gli era rimasta.
Quando i suoi occhi si posarono sulle mura della Robinia, sul suo viso si disegnò un’espressione preoccupata. Se Roandhel non gli aveva risposto significava che qualcosa gli impediva di farlo, qualcosa di grande, probabilmente. Senza sue notizie non c’era modo in cui sarebbe riuscito ad entrare con facilità nel villaggio e, qualora ce l’avesse anche fatta, non sarebbe mai stato in grado di recuperare Iris da solo. Doveva trovare un altro modo.
Una fitta di dolore gli si fece spazio tra le costole e socchiuse gli occhi, stringendo le dita attorno all’elsa della spada. Era da ore ormai che correva ininterrottamente. Fino a quel momento la rabbia che gli ardeva nel petto era riuscita a vincere la stanchezza; ora, però, quel furore stava cominciando a spegnersi, sommerso dall’impeto dello sforzo che minacciava di avere la meglio su di lui.
Rallentò appena, poi si nascose dietro ad un masso a qualche centinaio di metri dalle mura del villaggio. Estrasse da un passante della cintura una bisaccia rivestita da uno spesso strato di cuoio ramato e se la portò alle labbra. Sentì l’acqua gelata inondargli la gola, spegnendo il fuoco che gli ardeva nel petto. Si abbandonò contro la fredda superficie della roccia, esausto, e alzò il volto al cielo, le palpebre abbassate, mentre una brezza fredda gli scompigliava i capelli scuri.
Attese un istante, immobile, e non appena ebbe recuperato un po’ di forze si affacciò cauto oltre il masso erto verso il cielo a nasconderlo, il cappuccio calato a celare il volto. Ad eccezione di pochi soldati posti a proteggere l’ingresso della città, attorno alle mura non sembrava esserci nessuno. Se non poteva entrare nella città, pensò, avrebbe comunque potuto aggirarla. Doveva solo liberarsi delle guardie. Se l’avessero visto avrebbero certamente chiamato altri soldati e allora le cose sarebbero di gran lunga peggiorate.
Si sfilò l’arco di spalla, estrasse una freccia dall’impennaggio blu notte dalla faretra e la incoccò, gli occhi socchiusi puntati su uno dei tre soldati. Dopo qualche secondo lasciò la presa sulla corda dell’arco. Si udì un sibilo sottile fendere l’aria, poi la freccia, inevitabile e fatale, raggiunse rapida il petto soldato. L’uomo emise un grido soffocato e cadde riverso sulla neve fresca, immobile. Castor incoccò rapido una seconda freccia e, prima che gli altri soldati avessero il tempo di reagire, questa, come la prima, colpì la seconda guardia, che cadde in ginocchio prima di accasciarsi al suolo. L’ultimo soldato ebbe solo il tempo di voltarsi e rendersi conto di cosa fosse successo. Poi anche lui fu avvolto dal buio mentre scivolava lentamente a terra, senza un suono.
* * *
All’interno della Stanza del Grifone il Mago stava trafficando con una moltitudine di mappe consumate e ingiallite dal tempo, la fronte solcata da una profonda ruga che si insinuava scura tra le sopracciglia aggrottate. Afferrò freneticamente una delle carte, studiandola con attenzione.
Ci scribacchiò velocemente qualcosa con una sottile matita di corteccia scura, prima di appoggiarla distrattamente sopra una pila di grossi volumi ammonticchiati accanto alla grande sedia in legno intagliato sulla quale era seduto. Con un gesto rapido e frettoloso del braccio si liberò di tutto quello che occupava la superficie del tavolo e, sbuffando sonoramente, spalancò un cassetto, tirando con forza il pomolo in ottone. Afferrò una dozzina di lettere rosso scarlatto, le sfogliò una ad una e dopo averle rimirate attentamente le fece ricadere sul tavolo con un moto di insoddisfazione ed impazienza.
Ad un tratto, la ruga che gli solcava la fronte si appianò per lasciare spazio ad un'espressione di ritrovato entusiasmo. In mano reggeva l'unica lettera che ancora non aveva scartato e teneva appoggiato sulla sua superficie ruvida uno sguardo fiducioso. Il foglio che ne estrasse, una pergamena ripiegata in tre parti, era fitto di parole scritte in una calligrafia frettolosa ed era cosparso in più punti da macchie d’inchiostro. La percorse rapido con lo sguardo, come se, nonostante ne conoscesse a memoria il contenuto, fosse alla ricerca di qualcosa che ancora non era riuscito a cogliere. La appoggiò aperta sul tavolo e fece per prendere un rotolo di pergamena incastrato verticalmente tra due grossi volumi quando qualcuno irruppe bruscamente nella stanza.
Di scatto, il Mago si alzò in piedi, sul volto scolpita un’espressione dapprima furiosa e poi attonita. Davanti a lui, tutta trafelata e ansimante, c’era Berenice. Comprese che la Custode era sul punto di dire qualcosa, ma ogni volta che ci provava un respiro più affannato del precedente sormontava le sue parole. Gli occhi del Mago, cupi e nervosi, squadrarono Berenice per un istante che parve interminabile, senza riuscire a trovare nella semplice vista della ragazza qualcosa che gli permettesse di capire con precisione cosa fosse successo. – Che ci fai qui? – sbottò seccato, - Non dovresti essere dal Guardiano del Lago a quest’ora?
Detestava essere interrotto durante le sue ricerche, Custode o meno che ne fosse responsabile, soprattutto quando presagiva tutt’altro che buone nuove all’orizzonte.
Berenice non riusciva a prendere fiato. – Allora? Che ti è successo? – tuonò di nuovo il Mago.
Dalle labbra della ragazza, tra un respiro e l’altro, si affacciò un debole nome, pronunciato in un sussurro forzato. – Iris.
– Cosa? Cosa le è successo? E perché né Castor né lei sono con te? – La voce del Mago, ora, s’infrangeva contro le sue orecchie violenta come un’onda nel mezzo di una tempesta. - Avanti, ragazza, parla!
– Iris. – ripeté con difficoltà Berenice, portandosi una mano al petto per lo sforzo. – È stata rapita.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top