Capitolo 26 • L'inseguimento - pt 2
Avanzavano sempre più rapidamente, l'angoscia e la paura che attanagliavano loro la gola. Non era un carico di poca importanza, quello che gli era stato affidato, e ormai erano rimasti in tre.
– Credo sarebbe meglio chiamare rinforzi – propose Giacinto, massaggiandosi il braccio.
– Non possiamo – lo respinse Erioforo, la fronte imperlata di sudore e la voce tesissima. – Un numero maggiore di noi non potrebbe che attirare l'attenzione.
– Converrei con te se solo non fosse l'unica possibilità che ci rimane. Non riusciremo mai ad arrivare a destinazione con le nostre sole forze – ribatté Platano con voce calma.
Il compagno tacque. – Così sia – si arrese infine – Suonate il corno.
Platano strinse le dita attorno al legno scuro e arabescato del corno che fino a quel momento era rimasto legato alla cintura dorata che portava in vita e se lo portò alle labbra, soffiando delicatamente.
Come in risposta a quel silenzioso suono, un mormorio flebile e indistinto, simile all'ondeggiare delle fronde dei salici nella brezza, si levò dagli alberi.
Se qualcuno si fosse soffermato ad ascoltare si sarebbe accorto che quel mormorio, quelle parole sussurrate e incomprensibili, erano la voce stessa degli alberi. Una voce antica di millenni. Una voce che aveva detto tante parole e che tante, ancora, doveva pronunciare.
* * *
L'urlo di Berenice fendette l'aria, cupo e gelido. In piedi, dietro di lei, un uomo molto anziano, consumato dall'implacabile passaggio del tempo.
Sul volto rugoso e cadente erano incise profonde cicatrici, che risaltavano bianche sulla pelle cotta dal sole. Sul mento cresceva ispida una barba grigiastra, i capelli erano arruffati, lunghi fino alle spalle. Gli occhi, piccoli e azzurri, fissavano la ragazza con un'espressione aspra e avida; le labbra, invece, erano contratte in quello che voleva essere un sorriso, ma non lo sembrava affatto.
Il vecchio non parve spaventato dall'urlo improvviso della ragazza. La guardò, invece, come se davanti a lui si trovasse qualcosa di immensamente prezioso che aveva a lungo desiderato ardentemente. – Shhh, signorina. Non è prudente gridare in queste gallerie – mormorò indicando il soffitto con il dito raggrinzito e magro. – È pericoloso, lassù. Qualcuno potrebbe sentirti – continuò, la voce impaziente come lo sarebbe stata quella di un ladro di fronte al tesoro a lungo bramato.
Per qualche attimo che le parve interminabile, Berenice non seppe cosa dire, e proprio quando fu sul punto di domandare l'identità del vecchio, l'uomo premette la mano sulla parete, che si lacerò in un varco buio e silenzioso da cui prese a spirare una corrente gelida.
– Ormai non ci sono più posti sicuri – continuò il vecchio, e scomparve in un attimo, repentino e misterioso com'era arrivato, quasi il varco stesso l'avesse inghiottito. Poi, quando questo si richiuse nuovamente, Berenice si ritrovò a domandarsi se quell'incontro non fosse stato frutto della sua immaginazione, travisata dalla stanchezza e dalla paura.
Deglutì a stento, gli occhi fissi sulla parete. – Andiamo, Freccia – mormorò in un soffio, incitando l'Ippogrifo a proseguire. – Se incontro un altro psicopatico come questo non reggo.
* * *
Passò del tempo, abbastanza da indurre i tre soldati a credere che, quella volta, il Richiamo degli Alberi non avesse funzionato.
Ormai erano allo scoperto. Il paesaggio che poco tempo prima li aveva circondati in una foresta amica in grado di nasconderli si era ora trasformato in una vasta distesa di neve fredda e compatta, intervallata da morbidi rilievi che si confondevano in lontananza con l'orizzonte buio e gelido.
Stavano cominciando a perdere le speranze, le gambe che si infiacchivano ad ogni passo, quando, ad un tratto, un rumore di zoccoli sulla neve ghiacciata irruppe in quella notte stellata.
Davanti ai tre soldati, una decina di cavalieri in sella a maestosi cavalli avanzava sicura verso di loro, le armature dorate splendenti alla luce delle stelle. A quella vista, il peso che aveva incurvato verso la neve immacolata le spalle dei soldati fino a quel momento parve d'improvviso alleggerirsi, permettendo ai tre Elfi di trasformare la loro camminata in corsa così da poterli raggiungere più in fretta.
Una volta montati in sella alle cavalcature che i compagni avevano predisposto per loro, i soldati si disposero ordinatamente affinché Erioforo, che teneva saldamente Iris stretta a sé, fosse il più protetto.
– Il villaggio della Robinia dista poche miglia da qui, ma dobbiamo sbrigarci – gridò uno dei cavalieri giunti in loro soccorso. Erioforo e Platano annuirono, impazienti di raggiungere la meta. Giacinto rimase immobile, il volto contratto da una smorfia di dolore.
* * *
Teneva puntato lo sguardo su di loro. Da quando erano usciti dalla foresta non aveva smesso un solo momento di farlo. Lì sarebbe stato facile colpirli con delle frecce, ma erano troppo lontani e se avesse commesso un errore, se non avesse colpito subito il soldato che reggeva Iris, si sarebbero accorti della sua presenza.
Si rese conto che da un centinaio di metri aveva cominciato a recuperare vertiginosamente il vantaggio su di loro, probabilmente si stavano stancando.
Ma fu proprio quando un sorriso sicuro affiorò sul suo volto che udì un rumore di zoccoli venire verso di lui e un'imprecazione attraversò inudibile le sue labbra. Se i soldati avevano chiamato rinforzi, le possibilità che aveva di salvare Iris si facevano sempre più fragili.
Appena qualche minuto dopo ebbe la certezza di ciò che aveva sperato non accadesse, quando altri soldati di Sempreverde li raggiunsero in sella ai loro cavalli.
Ad un tratto, uno degli uomini giunti in soccorso dei rapitori di Iris gridò, abbastanza forte perché Castor potesse sentirlo. – Il villaggio della Robinia dista poche miglia, ma dobbiamo sbrigarci.
Dunque era lì che erano diretti. Al villaggio della Robinia. Non potè trattenersi dal lasciarsi sfuggire l'ombra di un sorriso. Quel villaggio brulicava di soldati. E tra quei tanti soldati, perfettamente nascosto sotto falsa identità, c'era qualcuno che, lo sapeva, avrebbe potuto aiutarlo.
* * *
Davanti a lei, in corrispondenza dell'ultimo gradino di quelle scale che parevano interminabili, c'era una piccola porticina in legno. Era coperto da uno strano alone scuro, come se non fosse stato asciutto da molto tempo.
Berenice trasse un sospiro di sollievo e scivolò dal dorso di Freccia. – Siamo arrivati.
Anche l'Ippogrifo parve sollevato. L'incontro con quello strano uomo l'aveva reso inquieto.
Dopo che la ragazza fu a terra, Freccia tastò la superficie della porticina con uno zoccolo fino a che questa, con un sinistro cigolio, non si aprì.
Quando Berenice vide ciò che c'era dall'altra parte il suo viso si contrasse in una smorfia disgustata. Ne aveva abbastanza di piccole sale circolari con le pareti bianche.
Quando entrò, si ritrovò a constatare come, però, a differenza di quanto era accaduto in precedenza, da quello spazio non fosse possibile accedere a nessun altro passaggio o galleria. Avrebbe temuto potesse trattarsi di un vicolo cieco, non fosse stato che a qualche spanna da lei penzolava, fisso ad una fune intrecciata con fili argentati, un grande secchio finemente intarsiato. L'aria di quel piccolo luogo era umida, impregnata da un pungente odore di acqua stagnante. Istintivamente guardò in alto.
Sopra di lei vide brillare candida la luna, circondata da una miriade di stelle luminose. Probabilmente erano passate solo poche ore da quando era entrata nel passaggio, anche se le era sembrata un'eternità. Sorrise, sollevata di essere nuovamente all'aria aperta. Immaginò che quella saletta circolare fosse stata un pozzo, una volta, e indovinò che attraverso quell'apertura fosse poi stata costruita quell'immensa galleria, motivo per cui il pavimento pietroso e le pareti erano umidi.
Freccia puntò il becco contro il secchio, incitando Berenice a salirvi. La ragazza sollevò due lembi della gonna e ci saltò agilmente dentro seguita dall'Ippogrifo che adagiò placido il muso sulle sue ginocchia. Dopo che si fu ben sistemato, Freccia serrò nel becco la fune, prese a tirarla verso il basso e il secchio iniziò a salire, mentre Berenice fissava quel meraviglioso cielo notturno, impaziente di informare il Mago su ciò che era accaduto.
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