Capitolo 1
Apro di scatto gli occhi. Non ricordo di averli chiusi, e neanche di essere caduta distesa. Cerco di alzarmi, puntando i gomiti a terra, ma appena sollevo il capo avverto una fitta di dolore e un carico di pesantezza attraversarmi il corpo. Picchio la testa sul terreno rigido e gemo per il dolore.
Con gli occhi esamino il posto in cui mi trovo. È un intricato labirinto di tunnel sotterranei, ognuno indicato da un cartello che pende dal vuoto, bianco, su cui sono stampati simboli che non riconosco. Un alfabeto completamente estraneo a me e alle mie conoscenze.
Tento nuovamente di sollevarmi, ma questa volta più lentamente. Sento nuovamente il peso del mio corpo assalirmi, solo che è raddoppiato e non riesco a combatterlo. Ritento penosamente, fallendo ancora.
Con le dita della mano tasto il terreno. Duro, compatto, liscio. Batto le nocche contro la superficie e il dolore si espande dalla mano per tutto il corpo. Non so cosa mi stia succedendo, ma ho uno sgradevole presentimento. Mi sento incredibilmente rigida e impotente. Come se fossi una bambina che ha appena capito che il fuoco brucia, e il calore ferisce. Sento il dolore come se non lo avessi mai percepito, e non ne ho più il controllo.
Sbatto freneticamente le palpebre e mi sforzo di ruotare la testa di lato. Noto qualcosa. Una profonda e larga spaccatura nel terreno. Devo raggiungerla. Stringo i denti e sollevo le mani. Riesco ancora a coordinare alcuni movimenti del corpo, devo solo convincermi che posso farlo.
Sposto tutto il peso del mio corpo su un lato gemendo. Fa male, ma posso farcela. Devo farcela, o rimarrò incastrata qui dentro per sempre. Mi do una leggera spinta con le mani e mi ritrovo a pancia in giù. Perfetto penso.
Allungo disperatamente il braccio verso la spaccatura. Con le dita ne sfioro l'interno, è un materiale friabile, che mi graffia la pelle. Affero la punta di una sporgenza più solida e stringo forte. Con il corpo striscio verso il baratro finché sono costretta a sporgere la testa dentro.
È buio. Vedo solo un pesante velo nero, e improvvisamente sento le palpebre farsi più pesanti. Il mio corpo vorrebbe abbandonarsi ad un lungo sonno. La stanchezza mi avvelena la mente e offusca i miei pensieri. Ce la puoi fare Relia.
Non le ho pensate io quelle parole. La voce che le ha scandite nella mia mente è più grave e forte della mia, anche se mi arriva come un grido soffocato e lontano. Non voglio pensarci, voglio solo dormire. Però quella voce ha un'aria così familiare che non riesco a dimenticarmene.
Ce la puoi fare Relia.
Riconosco la voce, e d'un tratto la stanchezza, la frustrazione e il dolore sono scivolate via. Jacob. Jacob crede in me e mi aspetta. Devo farlo per lui.
Poso il mio sguardo nuovamente sulla voragine sotto di me.
Non è buio. Non è buio. Non è buio. Io non ho paura. Laggiù si trova la mia salvezza.
Con queste parole che riechieggiano nella mia testa con ritmo incalzante, mi butto nel vuoto, che improvvisamente non è più così triste e cupo. Non sto morendo. Non sto morendo. La paura si confonde con l'eccitazione.
Scorgo una luce infondo.
Non sto morendo, sto rinascendo.
Il bagliore bianco si rivela essere la luce gettata da una torcia. La mia torcia, quella che mi ha regalato mamma per il mio settimo compleanno, quando sognavo di scovare i fantasmi nelle vecchie case del mio quartriere. È sepolta fra i progetti che ho iniziato in tutti quegli anni, abbandonati in una squallida cassa nella soffitta di casa, ne sono sicura.
Il mio primo pensiero è Che ci fa la mia torcia qui? Sto delirando?
Eppure, quando sono caduta rovinosamente a terra dopo secondi che mi erano parse ore, avevo constatato che non solo ero sana e salva, ma era proprio quella la mia torcia.
La raccolgo fra le mani. La luce mi bagna le dita e illumina con il suo morbido pallore la parete alla mia destra. Non è rocciosa come mi sarei aspettata, ma ha comunque delle sporgenze taglienti e dure come la roccia. Di qualunque materiale si tratti, ha un colore scuro come la pece che causa un bizzarro gioco di prospettive.
Punto la torcia tutt'intorno a me. Sono circondata dalle pareti scure, eppure so che da qualche parte deve esserci una via di fuga. Sollevo lo sguardo e incontro soltanto l'oscurità.
Nonostante la mia paura degli spazi chiusi, controllo le emozioni e combatto il senso di smarrimento, cercando di non cedere al panico. Non sento più la pesantezza e la stanchezza, e cerco di concentrarmi solo sull'aria fresca che mi riempie i polmoni.
Inspira. Espira. Inspira. Espira.
L'aria mi solletica le narici e trasporta con sé un'odore pungente, simile a quello emanato dalla terra umida. Una ventata fresca. Una ventata fresca.
Devo trovare il punto da cui proviene. Dev'esserci un passaggio qui, da dove entra. Come posso trovarlo?
Una nuova brezza mi colpisce un fianco facendomi rabbrividire. Destra. È a destra.
Corro in quella direzione, tenendo la torcia salda nella mano, e tremo quando mi ritrovo davanti ad un'unica parete nera. Eppure l'aria continua a schiaffeggiarmi il viso, e proviene proprio da lì. Mi muovo incerta, spostando i piedi nervosamente.
Allungo una mano. Sfioro la superficie graffiante della parete. Rabbrividisco e la ritraggo.
Devo avere fiducia. Devo fidarmi dei miei sensi, della sola certezza instabile che soltanto fidandomi dell'ignoto potrò uscire da lì. Sembra così facile, eppure è la cosa più difficile che mi si possa chiedere di fare.
Per trovare un po' di coraggio ripenso alla voce di Jacob nella mia testa. Ti voglio bene, Jacob.
Affondo le mani nella parete e con uno slancio mi ci tuffo dentro.
La voce di mia madre mi scuote la mente. Sento i ricordi riaccendersi tutti contemporaneamente, e gli occhi mi lacrimano. Non sento nessun dolore fisico, ma un perenne martellare nella testa che crea un vuoto nel mio stomaco.
Mi sto perdendo. Sta per finire tutto. Non sarò più io.
Non cado. Non fluttuo. Non sono immobile. Non sono consapevole dei miei movimenti.
Prima che l'eco incessante si amplifichi tanto da non permettermi di pensare, cerco di comunicare con Jacob.
Ci ho provato.
Silenzio.
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