9. Memento mori - La notte che sostituisce l'alba.

"Il mio amico ha visto un sogno indecifrabile".
Il giorno in cui egli aveva visto tale sogno volse alla fine.

Enkidu giacque un giorno, giacque un secondo giorno;
la malattia di Enkidu quando questi giaceva nel letto,
si aggravò, le sue forze si affievolirono."

Epopea di Gilgamesh; VII Tavola

Quando lo vidi il mio cuore sembrò balzarmi in gola ed io rimasi immobile, osservandolo mentre si metteva su a sedere a fatica.
Lo avevo visto, solo la notte prima stava bene. I suoi occhi brillavano sotto al cielo notturno, la sua pelle era rosea e perfetta, priva di ogni umana imperfezione mentre mi sorrideva dopo le parole pronunciate alla porta.
Eppure, cosa potrebbe accadere in una notte che una comune mente non possa elaborare? Può un corpo conciarsi davvero a quel modo, così veloce da non lasciar speranze? Così devastante da terrorizzarti in un attimo e prosciugare anche il più minimo pensiero positivo? «Ascoltami, amico mio, ho avuto un sogno questa notte.» La sua voce era stanca, le labbra sembravano affaticarsi ad ogni parola e i suoni della sua voce fuoriuscivano lenti, flebili.
Non riusciva neanche a tenere ben aperti gli occhi, quegli occhi che d'improvviso mi parvero opachi e privi della loro meravigliosa brillantezza che tanto amavo guardare. Quegli occhi divenuti vuoti dall'angoscia e la tacita accettazione della fine.
«Terra e cielo parlavano ed io mi trovavo tra loro. Lì vi era un giovane, simile ad Anzu, con zampe di leone e gli artigli di un'aquila. Egli mi prese per la chioma e mi usò violenza. Io cercai di contrastarlo, di reagire ma... egli prevalse, calpestandomi e colpendomi con ferocia. Io ti chiamai, urlai il tuo nome ma tu non venni a salvarmi. Non importava quanto urlassi, quanto mi dimenassi. Tu non sei mai venuto. Avevi paura. O forse, forse semplicemente non potevi farlo... non saprei dirlo. So solo che rimasi lì da solo ed ora comprendo quanto reale sarà quella solitudine.»
Inspirò profondamente, chiedendomi di porgergli la brocca piena d'acqua per le sue labbra e la gola secche. Mentre bevve, pensai che mai avevo visto le sue labbra scorticate, colorate del colore degli ammalati. Mi soffermai sulla pelle, così bianca, cerea al pari di un morto, tanto che ne scorsi le violacee e bluastre vene al di sotto di essa ed inevitabilmente rabbrividii, ringraziando che proprio in quel momento il mio compagno stesse ricominciando a parlare. Quella visione che mi recava dolore, andava a contrastare l'immagine che avevo della persona più cara.
Era come vedere il sole spegnersi per sempre.
«Quel giovane mi trasformò in una colomba e mi condusse all'abitazione della Dea degli inferi, nella casa della quale chi entra non può più uscirne, la casa in cui gli abitanti sono privati della luce, dove il cibo è polvere e il pane argilla e vi è spazio solo per le tenebre.
Poi entrai nella Casa della Polvere e alzando lo sguardo vidi le corone ammucchiate di coloro che avevano governato la terra. Proprio quest'ultimi offrivano cibo e bevande ad An ed Enlil. Lì, nella casa della polvere, vi erano anche i Sommi sacerdoti e i loro accoliti, vi erano anche i purificatori e gli indovini.
Nella casa della polvere abitano le divinità degli inferi e Belet-Seri, la scriba, era inginocchiata ai piedi della dea regina di quel luogo: Ereshkigal. Teneva alzata una tavoletta e leggeva per la regina, la stessa che mi guardò e disse: "Chi ha preso quest'uomo?"»
Si fermò ancora, prendendo dei respiri più profondi. Due colpi di tosse abbandonarono le sue labbra ed io gli accarezzai il volto con una mano.
Era gelido, gelido come l'acqua d'inverno. Gelido e secco, come se potesse sgretolarsi in qualsiasi momento.
«Enkidu...»
«La mia fine è vicina, mio amato amico. Questo è il messaggio del mio sogno, la distruzione della mia ultima speranza. Non ho nulla da dirti se non che chiederti un'ultima promessa.» Riprese ancora una volta fiato, ponendo la mano sull'affaticato e addolorato petto.
«Promettimi che mi ricorderai, che ti ricorderai di me che ho vissuto ogni sorta di faticosa avventura al tuo fianco e ti ho amato più di qualsiasi altra cosa. Ricorda tutto ciò che ho patito, tutto quel che abbiamo vissuto.
Ti prego, ricordati di me. E' la mia ultima richiesta.»
Le mie labbra si schiusero, pronte a parlargli.
Ma non riuscirono mai ad esprimere quel che volevano dire in quell'istante. Non era destino che dicessero qualcosa di prevedibile, nonostante le loro parole sarebbero state le più adeguate da pronunciare. Dovevano morire in gola.
Dovevano essere sostituite da un pesante groppo impossibile da mandare giù nel stesso momento in cui altri colpi di tosse emersero dalla gola di Enkidu, più forti dei precedenti. Urlai subito a gran voce di chiamare un sacerdote di Gula, mentre Enkidu cominciava a prendere profondi respiri giacché la tosse stava togliendogli persino l'ossigeno. Sembrava stesse per soffocare, con quei suoi occhi languidi e sgranati e la bocca completamente aperta.
Ed io ero impotente. Uno spettatore privo di utilità che arrivò persino a congelarsi sul posto quando l'amico tolse le mani dalla propria bocca, mostrandone i palmi macchiati di tiepido scarlatto e opaca argilla.

Un incubo, argilla e sangue.
Fu in quel giorno che la fine giunse.
Fu allora che il sole cominciò a spegnersi.
La malattia di Enkidu si aggravò e cura per il suo male non esisteva. Ogni tentativo di guarigione fu nullo ed io non potei fare altro che arrendermi, osservandolo morire lentamente davanti i miei occhi.
Quella visione, quelle maledette, dannate immagini, mi dilaniarono l'anima fino a farla sgretolare. Erano marchiate a fuoco nei miei pensieri e non mi avrebbero mai più abbandonato.
Ricordo chiaramente di aver pensato che se proprio era desiderio della sorte che lui abbandonasse la mia mano, lasciandomi in una solitudine priva di consolazione, avrei preferito che accadesse in un lampo. Un attimo, un secondo. Un istante di distruzione totale che non avrebbe portato ad Enkidu quelle atroci sofferenze. Sofferenze che sentivo sulla mia stessa pelle come se le stessi vivendo io. Io insieme a lui.
Io che morivo, non nel corpo ma nel cuore, al suo fianco. Io che in quella morte sarei stato quello a pagarne il prezzo peggiore, costretto a vivere senza una parte di sé e con la scura e fredda ombra del dolore al proprio fianco fino alla fine.
«Solo due giorni fa io e te parlavamo e scherzavamo allegramente, Enkidu.» Questo stavo dicendogli dopo cinque giorni di agonia. Stavo accarezzandogli il volto spigoloso e sofferente, seduto accanto al suo letto e non abbandonandolo mai, se non per le umane esigenze. Avevo anche smesso di mangiare, e di bere se ne parlava solo quando la servitù portava delle brocche per paura che potessi lasciarmi morire lentamente. Oh, mentirei se dicessi di non aver contemplato quell'idea per più di una volta. Di non aver desiderato di morire al suo fianco ed affrontare insieme quell'ultimo nemico, l'unico che non avremmo mai potuto sconfiggere e della quale sconfitta avrei accettato fintanto che mi avrebbe concesso di stare con il mio amico. Non desideravo altro, in fondo. Volevo solo...volevo solo stare con lui e nulla di più.
Enkidu sembrava essersi calmato dopo l'ennesimo vaneggiamento seguito da una tosse dal colore scarlatto. Stava dormendo, eppure mugolava nel sonno dei lamenti. Il dolore era così atroce che neanche le droghe o le erbe riuscivano a lenirlo completamente. Al massimo, riuscivano solo ad affievolirlo per concedergli un poco di sonno, mentre io lo guardavo ricercando qualcosa che non sarebbe mai tornato indietro.
Inspiri ed espiri ma sei davvero tu, Enkidu?Dov'è il tuo sorriso, dov'è la tua voce? Dove sei...dove sei tu?
«Cosa darei...cosa darei per poterlo farlo ancora. E invece sei qui, su questo letto, pronto ad abbandonarmi.» Presi quella sua gelida e ossuta mano e la portai sulla mia guancia, bagnandola con le mie inevitabili lacrime. Stringendola tra inevitabili parole di dolore.
«Perché non apri i tuoi occhi, amico mio? Non puoi lasciarmi, ti prego... non farlo. Ho bisogno di te...Ho ancora bisogno di te!» Il mio tono di voce aumentò d'improvviso, accompagnato dai singhiozzi. «Per favore, Enkidu. Non lasciarmi. Sei tutto ciò che ho, sei tutto quel che d'importante possiedo. Portami con te se proprio devi! Ma... non abbandonarmi.» Tentai di asciugar le mie lacrime con il dorso della mia mano e alzai lo sguardo al soffitto, cominciando ad urlare in preda all'angoscia più pura.
«Dèi, non portatemelo via! Rinuncerò a tutto quel che possiedo, donerò voi tutto il mio oro!» Mi tolsi con forza i miei bracciali, le mie collane ed i miei anelli, gettandoli violentemente a terra. «Ecco, non indosserò più alcun gioiello! Abbandonerò ogni lusso! Ma rendetemi il tesoro più prezioso che ho. Salvate l'unica persona a cui io tenga davvero.»
Crollai in ginocchio, coprendomi il volto con le mani e tornando a singhiozzare.
In quel momento, tornarono anche gli incubi di Enkidu.
«Gilgamesh!» Tentava di urlare con quella sua flebile e rotta voce, dimenandosi. «Gilgamesh dove sei? Non lasciarmi da solo!»
Immediatamente mi alzai, tornando a prendere la sua mano.
«Sono qui, Enkidu. Sono qui! E' un'illusione quella che stai vedendo, una misera illusione!»
«Gilgamesh!» Continuava ad urlare, «Lo avevi promesso! Avevi promesso che non ti saresti dimenticato di me. Non...non dimenticarmi...»
«Io non potrei mai dimenticarmi di te. Dovunque tu sia adesso, dovunque tu andrai, ricorda che non potrei dimenticarmi di te!»
Lo vidi rilassarsi d'improvviso, quando una lacrima scese dal suo occhio destro. Sussurrò qualcosa ma non lo compresi. I suoni da lui emessi erano fin troppo fievoli.
Mi avvicinai al suo orecchio ma lui non parlò più. Immaginai che non riuscisse a farlo.
Solo adesso, solo adesso so cosa cercava di dirmi. Mi dispiace. Erano state queste le sue parole.
Mi dispiace.
Eppure, non avendone alcuna idea, io tornai a sedermi, appoggiando la testa sui miei avambracci e continuando a piangere sommessamente fino a che il sonno non prevalse.
Enkidu, se ti avessi ascoltato, se ti avessi compreso, avrei detto che dispiaceva più a me.
Ma non sono riuscito a dirti neanche questo, in quel momento.

All'ottavo giorno anch'io ero ormai irriconoscibile. Sudicio e scarno, con la barba incolta e il corpo che diveniva sempre più magro. Quel corpo che veniva a malapena nutrito per il sostentamento.
«Vostra Altezza, non c'è più nulla da fare per Enkidu.» Mi diceva il sacerdote, «ma non per questo lei deve ridursi in un tale stato. Affronti il dolore e continui a guidare il suo popolo.»
«Tacete!» Gli urlai contro, guardandolo con il peggior sguardo furente che potessi assumere. «Non si permetta di dirmi cosa devo o non devo fare! Potrei ucciderla seduta stante se lo volessi.»
«M...ma, re Gilgamesh», balbettò l'uomo, nel frattempo indietreggiato dalla mia persona e irrigidito dalla paura, «Lo sto dicendo per il v...»
«Ho detto di tacere!» Urlai ancora, più forte di prima, alzandomi di scatto dalla sedia che subito cadde a terra e prendendo per il colletto il sacerdote.
«Non mi ha sentito?» sibilai, velenoso come una serpe e furente come un toro impazzito. «Dica solo un'altra parola ed io la uccido! Esca fuori di qui! Se ne vada e non faccia ritorno fino a quando non sarò io a chiamarla!»
L'uomo, terrorizzato, corse subito via, quasi inciampando sui suoi stessi piedi.
Io, invece, tornai subito al fianco di Enkidu, tornato preda dei suoi folli incubi. Doveva esser stata colpa delle mie urla. Chissà cosa stava percependo lui, in quegli inferi che presto lo avrebbero accolto strappandomelo via.
«Gilgamesh...»
«Perdonami, non era mia intenzione urlare. Non avere paura, Enkidu. Non sta accadendo nulla. Sono qui e non ti lascerò.» Baciai le nocche della sua mano, accarezzandone il dorso.
«Presto finirà tutto ed io sarò l'unico che vivrà nel terrore di una vita vuota.»
«Brucia, qui tutto brucia. Ho paura.»
«No, Enkidu, nulla brucia. Allontana quell'incubo, puoi farlo.» Bagnai una pezza e gliela passai sui polsi, le braccia, il collo. Infine gliela posi sulla fronte, dopo avervi lasciato un bacio, e lui sospirò di sollievo, mugolando ancora qualcosa di incomprensibile.
«Ecco, ora non brucia più.» Mormorai, prendendo ad accarezzargli i capelli. Quei capelli privati della lucentezza e del loro profumo di fiori.
Lo avevano perduto già da qualche giorno. Erano appassiti insieme con le mie ultime speranze.
Oramai avevo solo la parola e seppur fosse inutile, io continuavo a parlar al mio sofferente Enkidu. Avevo bisogno di farlo, di illudermi che potesse rispondermi. Da bravo sciocco, volevo convincermi che le parole avrebbero potuto ottenere qualcosa. Volevo sperare che gli dèi ascoltassero e tornassero indietro sui loro passi.
Non accadde mai.
Semplicemente, non era destino che accadesse.
«Sai, una parte di me vorrebbe davvero dimenticarti e lasciarti morire, amico mio. Sarebbe tutto più semplice. Dimenticare e andare avanti, sigillare il cuore ed usare la testa.Ma come potrei farlo?
No...Non potrei mai. Non potrei perché, nonostante tutto, non voglio perdere i ricordi che mi legano come le catene che insieme usavamo per combattere. Sono così stupido. Lo sono così tanto che, quando apro gli occhi spero, spero invano di poter di nuovo incrociare il tuo sguardo e vederti sorridere. Sai? Stanotte ho sognato che lo facevi. Mi sorridevi e tendevi la tua mano, dicendomi che tutto era stato un folle incubo. Io ti abbracciavo forte, mi inebriavo del tuo profumo di fiori e tu mi sussurravi che saremmo stati insieme fino alla fine.
Ma quando ho riaperto gli occhi, mi resi conto che ormai vivevo nell'incubo e tu non saresti mai tornato tra le mia braccia, non sentirò più il tuo profumo e i tuoi sorrisi mi tormenteranno da sveglio, dandomi consolazione solo nei sogni. Ora non sono visibili, amico mio, ma quando te ne andrai, sarò cosparso di cicatrici e tutto comincerà ad avere il tuo nome, ricordandomi per sempre quel che ho perduto. Perché, semplicemente, so già che vivrò nei ricordi. So già che sarò pervaso dalla paura e in quella paura, l'unica cosa che avrà un senno e rimarrà indelebile saranno le nostre promesse e i ricordi che ho di te.» Inspirai profondamente, guardando le nostre mani strette attraverso la mia presa. Desiderai che la stringesse anche lui, bramavo che potesse darmi un cenno della sua presenza anche solo per un secondo.
Eppure sapevo che non mi stesse ascoltando, non percepiva quasi più nulla ormai. Ma io ci speravo. Ci speravo così tanto da voler convincermi che semplicemente Enkidu non aveva le forze per ricambiare quella stretta ma, in cuor suo, stava memorizzando le mie parole, accogliendole come un ricordo da conservare nell'aldilà.
E cos'altro avrei potuto dire ancora? Quali altri parole potevano emergere dalla mia bocca?
Nella mia mente i pensieri erano così tanti, eppure nulli. Tutto e niente.
Amore e morte che si osservavano attraverso un medesimo specchio, oltrepassandolo per congiungere le mani e risucchiarsi. Inglobandosi in un unico essere che non poteva che sparire via, lontano da tutto quel che di felice era stato.
Lontano dalle preghiere e le promesse.
Lontano da me ed il mio Enkidu, della quale storia era ormai giunta al suo termine nel più tragico dei modi.

Desidero vedere il mondo con te, Gilgamesh.
Enkidu stava ancora sorridendomi, seduto al mio fianco sulla morbida erba del palazzo.
Guardavamo il ciel sereno, spensierati e felici. La nostra amicizia era appena iniziata, eppure avevamo già dei progetti e dei desideri da realizzare insieme.
Lo vedremo, Enkidu. Gireremo il mondo e lo conquisteremo. Ogni bellezza sarà nostra.
Me lo prometti?
E' una promessa.

Ora Enkidu era dall'altra parte del vasto giardino, distante da me seppur ancora visibile.
La sua mano era appoggiata ad un albero e mi guardava con occhi delusi e tristi.
Me lo avevi promesso.
Questo diceva, quando delle lacrime gli solcarono il volto.
Me lo avevi promesso, ma non sei riuscito a mantenere la tua parola. Ora non c'è più tempo. Ora andrò via ed il mondo resterà per me un desiderio inesaudito. La promessa mai mantenuta del mio amato compagno.
Mi alzai di scatto e gli corsi incontro. Correvo e correvo il più veloce possibile.
Ma più avrei dovuto avvicinarmi, più lui si allontanava. Più il mio fiato veniva meno e più Enkidu diveniva un'ombra lontana, dissoltasi prima ancora anche potessi raggiungerla.
Mi dispiace! Urlavo, urlavo invano. Enkidu, non andare! Ti prego non andare!
Tuttavia, lui andò via comunque ed io mi svegliai di soprassalto, urlando il suo nome.
Quella era la notte dell'undicesimo giorno. La luna brillava nel cielo, l'aria era tiepida e piacevole. Tiepide erano anche le mie lacrime, l'ennesime che non potei controllare ripensando a quel sogno e che accompagnarono un'amara apprensione.
Era tutta colpa mia. Questa la mia ultima risposta.
Ogni colpa gravava sulle mie spalle, premeva il petto tanto da affaticarne il respiro; aggrediva la pancia che inutilmente tentava di opporsi a quell'orribile sensazione.
«Scusami, amico mio.» Singhiozzai. «Ora ho capito...ho capito che è tutta colpa mia. Mi stai odiando, nevvero? Dovresti farlo! Lo merito! Merito il tuo odio, merito il tuo disappunto, merito che tu mi tormenti nei sogni e mi rinfacci ogni cosa!»
Abbassai lo sguardo, torturandomi le mani. «Se ti avessi ascoltato, quella notte, se mi fossi tirato indietro...non sarebbe accaduto nulla. Se non avessimo affrontato Khubaba, Ishtar non mi avrebbe considerato. Non ci sarebbe stato alcun Toro Celeste, nessuna sentenza! E tu saresti qui, sdraiato al mio fianco, stretto al mio petto e beatamente addormentato! Invece la mia arroganza prevalse ed ora è stata punita. Punita nel peggiore modi. E tu...tu che colpe non ne hai mai avute se non che quella di avermi amato, stai patendo quel che dovrei patire io. Perché solo così io potrei soffrire davvero! Solo così la mia punizione sarebbe stata devastante. Perdonami, amico mio. Perdonami, perdonami se puoi! Anche se mi odierai, ti prego perdonami!»
Ripresi la sua mano, stringendola tra le mie. In quei giorni quel gesto lo avevo fatto continuamente come quand'eravamo in vita, era l'unico contatto in cui riuscivo, anche se flebilmente, ad avvertire una connessione con lui.
«So che mi stai ascoltando, dovunque tu sia adesso. So che puoi sentire la mia voce, avvertire il mio tocco. Devi, perché non oso immaginare di star parlando al nulla.» Udivo la mia voce rotta, roca. Parlare era una tortura ed i pianti non facevano altro che aggravare il tutto.
«Mi dispiace. Mi dispiace per non aver ascoltato le tue parole e mantenuto le mie promesse. Non c'è perdono per questo.
Ma voglio che tu sappia, prima che voli via lontano, che senza di te non vi sarebbe stata alcuna grazia nella mia vita. Tu hai parlato al mio cuore e al mio essere. Hai preso il mio tempo e lo hai plasmato nei ricordi più preziosi che conservo. Enkidu, voglio che tu sappia che ricordo tutto, ogni tuo gesto o parola. Non potrò mai dimenticare come mi sentivo con te accanto, tutto quel che hai fatto per me...il modo in cui mi hai amato come nessun'altro aveva mai fatto.
E non...non importa più di nulla ormai. Ho provato ad immaginare noi due che rimanevamo affianco fino alla fine ma adesso in quella visione non ci sei più! Sei andato, andato per sempre. Ma mi aspetterai, vero? Ti rivedrò quando sarò io a morire? » Mi fermai ancora, sfidando la vista offuscata per scorgere la sua indistinta figura.
«Ti amo, mio unico amico e fratello. E lo farò per sempre, fino al momento in cui non ci rivedremo, quando giungerà il mio tempo e dall'altra parte ti stringerò a me con tutta la forza che avrò. Fino al momento in cui potrò sciogliermi ancora una volta dinnanzi al tuo splendido sorriso. Questa è la mia ultima richiesta: tieni sempre ben in mente queste mie parole, amico mio. Solo così potrò provare almeno un minimo sollievo.»
Passarono dei secondi interminabili. Attimi in cui tutto aveva perduto la consistenza, volteggiandomi intorno senza che lo scorgessi davvero. Tutto mi parve un limbo risonante, il sussurro di una calma apparente.
Poi, una stretta. Una debole, leggera stretta sulla mia mano.
Alzai lo sguardo incredulo, quasi convinto di star impazzendo. Una pazzia a me benvenuta se consentiva al mio Enkidu di aprire i suoi occhi e stringere la mia mano.
«Enkidu!» Esclamai, asciugandomi forzatamente gli occhi.
Non potevano offuscarsi. Dovevano vedere. Dovevano vedere quel volto così amato.
Dovevano farlo per l'ultima volta.
«Amico mio...» Sussurrò Enkidu, la voce così sottile, addolorata, che dovetti avvicinarmi sempre di più.
«Sono qui, Enkidu, sono qui.»
«Ti ho ascoltato e ti perdono, Gilgamesh, nonostante tu non abbia nulla di cui farti perdonare.»
Baciai le sue guance, la fronte. Per un attimo mi illusi che potesse ancora esserci speranza.
«Gli dèi mi hanno concesso di dirti un'ultima cosa prima di andar via, mio amato compagno.»
Egli spostò con grande fatica la sua mano su una mia guancia e incrociò il mio sguardo. Per un istante scorsi ancora la sua rosea bellezza, mi sembrò di vederlo sorridere frantumando l'immagine del suo volto che non riusciva più a far nulla.
«Sappi che non ho rimpianti, amico mio e non devi averne neanche tu. Poiché io ti ringrazio Gilgamesh, mio amato, superbo Gilgamesh, per ogni momento che abbiamo vissuto. Sei quanto di più prezioso questa vita mi abbia concesso, non dimentic...non dimenticarlo.»
Queste le sue parole prima che le labbra rimanessero dischiuse, gli occhi che mi fissavano vuoti. La sua mano scivolò via dalla mia guancia ma io la afferrai, portandola ancora su di essa. Non poteva, no, non poteva!
«No!» Gridai con quanto fiato avevo in gola.«No, resta!Ti prego, resta! Parlami! Non posso lasciarti andare, non posso mollare! Continua a parlarmi, Enkidu! Non andare!»
Ma...fu tutto inutile.
Distruggere la mia voce e prosciugare le lacrime non servì a nulla.
Chiamarlo non aveva nessun senso ormai in quella nera mattina, dove il sole stava cominciando a deliziare la città con i suoi raggi.
E all'alba del dodicesimo giorno il mio amico emise il suo ultimo respiro, morendo tra le braccia di colui che tanto lo aveva amato.

Angolo dell'autrice
Ed eccoci qui, con il capitolo più angst, quello più straziante. Il capitolo che tanto volevo scrivere e che allo stesso tempo speravo di non scrivere mai.
Non so se sono riuscita a renderlo doloroso come volevo; spero di esser riuscita a trasmettere ciò che volevo nel modo giusto. Spero che abbia dato a voi lettori l'impatto a cui miravo, nonostante lo abbia scritto senza la mia solita calma dato gli ospiti avuti in casa per dieci giorni.
Ma questo me lo direte voi. Io lascio il capitolo qui, con il cuoricino rotto per questi due.

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