8. Sentenza finale.

«Ascoltami, amico mio: ho visto un sogno nella mia notte.
An, Enlil, Enki e Shamash si erano riuniti e consultati.
An aprì la bocca, parlò e disse a Enlil:
"Poiché hanno afferrato il Toro Celeste e lo hanno ucciso,
hanno abbattutto Khubaba che vive nella Foresta dei Cedri,
poiché hanno sradicato i cedri dalla montagna,
uno di loro muoia!"
Enlil aprì la bocca, parlò e disse:
"Muoia Enkidu, Gilgamesh non muoia."


Epopea di Gilgamesh; VII Tavola.


Non era mai di buon auspicio una riunione tra i grandi dèi, al contrario, era qualcosa che tendeva sempre a portar con sé sfortune e malesorti. Per questo mi tirai subito su a sedere quando Enkidu pronunciò quelle parole, colto anche da un improvviso brivido che mi percorse l'intera spina dorsale.
«Cosa hai visto, Enkidu?» Chiesi, la voce ancora impastata dal sonno seppur poco tranquilla.
Enkidu prese la mia mano tra le sue, inspirando profondamente prima di darmi risposta.
Compresi stesse cercando di calmarsi e questo gesto, quasi ironicamente, agitava per riflesso il mio animo.
«Ascoltami, amico mio. Nel mio sogno An, Enlil, Enki e Shamash si erano riuniti e consultati.» Esordì, ancorando il suo sguardo al mio e tentando ancor goffamente di camuffare il turbamento che gli angustiava l'animo. La sua presa sulla mia mano si fece poco più forte. «An fu il primo a parlare e disse ad Enlil queste esatte parole. "Poiché hanno afferrato il Toro Celeste e lo hanno ucciso, perché hanno abbattuto Khubaba e sradicato i cedri della montagna, che uno di loro muoia."
Enlil subito gli rispose: "Muoia Enkidu, non Gilgamesh", scatenando la pronta reazione di Shamash, unico contrario a questa scelta.
"Ora Enkidu, che non ha commesso mali, come dovrebbe morire?", diceva Shamash, ma Enlil si adirò per questa sua frase e continuò con tali parole: "Proprio tu osi parlare! Tu che ogni giorno scendi da loro, tu che ti sei avvicinato così tanto a questi due uomini, addirittura aiutandoli nelle loro imprese! La tua è un'opinione legata al sol fatto che tu sia ormai affezionato a quei due uomini che tanto ti lodano e non comprendi dove arriveranno di questo passo!"» Inspirò ancora profondamente, prima di continuare con un'ultima frase.
«Vidi Shamash pronto a rispondere per far valere la sua opinione ma il mio sogno si è concluso qui, con le parole di Enlil.»
Prima che potessi rendermene conto, la mia vista venne offuscata da lacrime che ininterrotte mi solcarono il viso. Rimasi immobile, privo del controllo dei miei muscoli e con la mente annebbiata da pensieri che riuscivano a serrare la gola tanto da farmi male, seppur fosse un male che solo inconsciamente avvertivo. Avevo perso qualsiasi cognizione dello spazio circostante, schiacciato violentemente da un'istantanea comprensione che cominciò a farmi tremare come una debole foglia.
Piangere era tutto ciò che riuscivo a fare, guardando perso e sconvolto il mio amato compagno che avvolse le sue braccia attorno al mio collo, cercando invano di nascondere i singulti di quel pianto che non voleva che io vedessi.
Ma anche se fosse riuscito a trattenere le lacrime non sarebbe stato in grado di dar consolazione al mio cuore, poiché tutto era già divenuto freddo e grigio ed io...io avevo già compreso che da allora sarebbe solo peggiorato, inghiottendomi in un abisso senza luce che per quella notte mi consentì solo una frase. Una frase confusa e quasi priva di significato.
«Amico mio, fratello mio preferito, perché invece del mio amico mi hanno abbandonato?»

Il mattino seguente, Enkidu sparì d'improvviso. Lo cercai a lungo, chiesi di lui a chiunque incontrassi, finché una anziana donna non mi suggerì la sacra porta costruita dallo stesso Enkidu. Le fui così grato, così dannatamente grato, che non badai a darle quel poco oro che avevo portato con me nella fretta -tale abbastanza da poter sfamare una famiglia per un anno intero se non anche di più- e corsi via, senza pensare a null'altro se non che raggiungere il mio prezioso amico. Quell'amico che ritrovai dinnanzi la sua opera, con una mano poggiata sopra di essa e le labbra che si muovevano, giacché lui stava parlando alla sua stessa creazione quasi fosse una creatura dotata di intelletto e comprendonio.
«O porta di montagna, sei proprio insipiente, non hai intelligenza.» Diceva, con malinconica voce assorta, in quel recinto che non ammetteva estranei ed al contrario rendeva lui stesso estraneo al mondo, tanto da non percepir la mia presenza nonostante fosse vicina abbastanza da udire le sue parole.
«Eppure io per venti leghe ho selezionato il tuo legno, finché non ho trovato uno splendido cedro. Nessun legno può eguagliarti, poiché la tua altezza è di sei spanne, la tua larghezza di due, e la tua soglia, il tuo cardine superiore e il tuo stipite inferiore sono fatti di un solo legno. Ti ho fatto io, io ti ho portato a Nippur. Ricorda, o porta, io ti ho fatto un favore, una buona azione solo per te.»
Quella mano che stava accarezzando il pregiato legno venne chiusa a pugno, rendendo bianche le nocche. Le labbra di Enkidu tremolavano ma, nonostante ciò, egli stava imponendosi di parlare, senza preoccuparsi della vibrante voce che stava infervorandosi ed acuendosi, esprimendo solo i suoi più oscuri pensieri.
«Sono stato io a sollevare l'ascia e tagliarti, ho trascinato il cindolo fino al tempio di Shamash e il santuario di Enlil è lì ti ho innalzato, ponendoti come sua porta. Sì, porta, sono stato io a lavorarti così da renderti degna degli dèi! Ad Uruk ti hanno accolta con ammirazione e sono certo che persino Ishtar ed An abbiano sorriso compiaciuti nel vederti! O porta, sono stato io a costruirti, io ti ho portato a Nippur! Eppure il re che verrà dopo di me, passerà attraverso di te...Gilgamesh passerà attraverso i tuoi stipiti e cancellerà il mio nome per apporvi il proprio! »
Compresi che la sua rabbia fosse pronta a raggiungere l'apice quando caricò il pugno con l'intenzione di distruggere la porta con le sue stesse mani. Io urlai il suo nome con gli occhi che tornarono a riempirsi di lacrime, fermandolo giusto un istante prima che la follia potesse compiersi.
«Tu eri così magnanimo e costante, tu avevi senno ed ora d'improvviso cambi a tal punto!?» Urlai, privo di controllo. La situazione disperata ed i comportamenti di Enkidu mi destabilizzarono completamente, lasciando che le parole sgorgassero fuori come un fiume in piena pronto ad accompagnar le lacrime di terrorizzata angoscia.
«Perché hai detto cose così insensate? La paura è grande e le tue labbra tremano come mosche! Eppure il tuo sogno è prezioso, Enkidu! E potrebbe ancora esserci speranza!» Un singulto bloccò quel flusso incontrollato per un secondo ma non bastò a fermarmi, nulla poteva riuscirvi in quel momento. Avevo bisogno di gridare, di piangere e di agitare le braccia ad ogni parola come una persona mentalmente malata. Avevo bisogno di distruggere il pesante macigno che bloccava il respiro e addolorava il petto.
«Loro hanno predetto dolore per l'uomo ma possiamo ancora placarli! Andrò a pregare, andrò alla ricerca della tua dea ed implorerò il tuo dio! Farò per te un'immensa statua d'oro da portare in dono al dio Enlil! E l'oro sarà abbandonante! Farò tutto ciò che è possibile, amico mio, tutto quel che è in mio potere per fermare tutto questo...»
Tornarono i singhiozzi ed io crollai in ginocchio, con la consapevolezza che ogni mia parola fosse vana. Erano parole d'acqua, parole incancellabili ma pur sempre parole.
Avrei potuto fare qualsiasi cosa avessi detto, l'avrei fatta se fosse servita.
Ma re Gilgamesh per la prima volta si trovava ad affrontare una difficoltà inespugnabile, dove l'oro od il potere non avrebbero potuto aiutarlo. E non potevano aiutarlo neanche l'amicizia o l'amore provato per l'unica persona per cui avrebbe rinunciato a tutto, persino ai suoi tesori ed il suo immenso palazzo.
Per quell'unica persona che scelse di non udire neanche una parola di quel mio vaneggiamento e non appena le genti si accalcarono come uccelli, corse via, in preda ad una rabbia che non concedeva orecchi neanche a me. Io, l'uomo a cui aveva giurato amore solo la sera prima.

E corse, Enkidu, corse a lungo, seguendo una follia che non conosceva eguali e da lui mai provata. Non si fece vedere per tutto il giorno ed io non ebbi forze per cercarlo, non dopo quel suo comportamento a cui non trovavo spiegazione.
Passò anche la notte e non appena le luci del Sole deliziarono l'erba con il loro caldi raggi, Enkidu si alzò in piedi, con le guance rigate dalle lacrime e gli occhi rivolti alla splendida alba.
«Io mi rivolgo a te Shamash, a seguito dell'azione a me ostile, a causa del cacciatore, il girovago che non mi ha trattato come il mio amico: possa il cacciatore non essere equiparato al suo amico, possa perdere i suoi guadagni e che le forze lo abbandonino! Egli ha infatti tolto al suo cospetto la sua quota, non lo ammettere alla tua presenza, o Shamash!»
Maledì così il cacciatore, giacché le voci maligne che albergavano nel suo cuore gli suggerivano questo. Eppure, quel cacciatore non era il solo che sarebbe stato maledetto da Enkidu; anche la prostituta Shamkat venne da lui tirata in causa.
«Vieni Shamkat, voglio fissarti il destino! Un destino che mai si attenui e duri per sempre! Voglio maledirti con una grande maledizione!» Urlò a gran voce. «Tu non farai della tua casa una casa di prosperità, tu non amerai i giovani pieni di vita, tu non li farai entrare nella casa delle donne. Sì, che la tua bella vulva sia sporca di escrementi, che il beone possa insozzare i tuoi bei vestiti con il suo vomito! Che i tuoi cosmetici siano la grezza creta e che l'oro e l'argento non entrino mai nella tua casa! Che il deserto sia l'unico luogo in cui tu possa dormire, e che spine e rovi ti circondino i piedi! E colui che penetra la tua vulva possa prendere la sifilide e che tu stessa ne sia poi affetta!»
Shamash ascoltò ogni parola e subito dal cielo si levò il suo grido.
«Perché, Enkidu, stai maledicendo la mia prostituta? E' lei che ti ha dato cibo adatto agli dèi, è lei che ti fece bere birra e che ti ha rivestito di abiti splendenti. Ed è lei che ha scelto per te come compagno il buon Gilgamesh. Ed ora Gilgamesh che è il tuo amato amico ti deporrà per riposare in un grande letto. Sì Enkidu, in un letto destinato all'amore lui ti farà riposare. Ti farà giacere in un luogo di pace, il luogo alla sinistra. I re della Terra baceranno i tuoi piedi ed egli farà in modo che tutta Uruk pianga per te, e gli uomini robusti si caricheranno il fardello per te.
E per quanto riguarderà se stesso, il buon Gilgamesh trascurerà il suo aspetto dopo la tua morte e con solo una pelle di leone indosso egli vagherà nella steppa.»
La voce del dio guerriero sparì ed Enkidu crollò a sedere sulla morbida erba. Il suo cuore si calmò, la rabbia cessò di offuscargli la mente e lo lasciò libero di ritornare l'uomo che tanto mi era caro.
«Cosa ho fatto, cosa sto facendo...» farfugliava, sconvolto da se stesso, dal suo inusuale comportamento che subito gli portò vergogna non appena la ragione tornò ad esser padrona di lui. «Vieni, o Shamkat, voglio cambiare il tuo destino. Che le mie parole di maledizione possano trasformarsi in parole di benedizione. Che possano amarti governatori e principi, che il comandante non arretri davanti a te, bensì slacci la sua cintura per te. Che ti porti in dono ossidiana, lapislazzuli ed oro; che possa donarti anelli e collane e che il divinatore possa condurti alla casa degli dèi. Questo è il destino che ti auguro, o Shamkat.»
Una volta pronunciate quelle parole, Enkidu tornò a palazzo. Compresi fosse lui dal modo in cui mi guardò, dal suo avvicinarsi per accogliermi tra le sue braccia e con amore stringermi.
«Mi dispiace, non ero in me...Io...io non ero in me.» Mormorava, mortificato e afflitto. Io lo strinsi a me e baciai la sua nuca.
«Non devi preoccuparti, non sono arrabbiato con te. Non potrei mai esserlo.»
Egli mi guardò negli occhi, mostrandomi i suoi, lucidi e tristi. Non vi era altro che angoscia ormai, anche durante i nostri abbracci e le amorevoli attenzioni.
Tutto aveva ormai inciso il dolore del futuro ormai prossimo e nulla potevamo fare se non che attendere, impotenti e rassegnati.
«Andiamo alla porta, Gilgamesh.» Mi esortò ed io ebbi timore di quella sua frase.
«Non lascerò che tu la distrugga.»
Enkidu scosse il capo. «Non voglio distruggerla, te lo giuro. Ma devo fare qualcosa là e desidero che ci sia anche tu.»
Mi presi degli istanti per riflettere su quella proposta ma gli occhi di Enkidu non mostravano alcuna cattiva intenzione. Era tornato in sé completamente e la sua porta, quella porta che con tanto impegno aveva costruito, non sarebbe stata distrutta senza alcun motivo.
Così ci recammo a Nippur, con le mani strette tra loro e le stelle ad osservarci silenti. Erano state più forti della luna che, troppo addolorata, non aveva le forze per mostrarsi a noi.
«O porta di montagna, mia cara porta che io stesso ho fatto.» Enkidu parlò con gentile solennità; la mano si appoggiò sul pregiato legno con affetto e non più con la precedente rabbia. «Ti ho costruito io e qui ti ho innalzato consacrandoti ad Enlil. Eppure è ormai chiaro che il dio non ti ha apprezzato, come non ha apprezzato i miei generosi e puri intenti per renderti degna degli dèi.» Si voltò verso di me, accennandomi un dolce sorriso. Poi tornò a parlare alla sua opera. «Per questo desidero consacrarti a qualcun'altro. Qualcuno che possa apprezzarti e che sicuramente apprezza ed ama me, quanto io apprezzo ed amo lui. O porta, d'ora in avanti sarai consacrata a re Gilgamesh, il mio amato compagno che saprà avere memoria di me e di te. Il mio amato compagno che ti ha salvato dalla distruzione. O porta, tu sei l'ultimo dono che potrò fargli e sono certo che nonostante tu sia insipiente e priva di intelligenza, apprezzi molto questa mia decisione, perché re Gilgamesh ti ha concesso la vita, ancor prima di ieri, giacché senza di lui io non sarei mai partito e non avrei potuto crearti. Possa egli vivere a lungo e possa tu sopravvivere a qualunque attacco. Questa è la mia benedizione per voi, per il mio amato e la mia creazione.»
Appoggiai anche io la mia mano su quel legno ora consacratami e, tornando ad intrecciare le mie dita a quelle di Enkidu, dissi: «O porta, finché sarò in vita nessuno oserà anche sol sfregiare il tuo nobile legno. Tu mi sei cara, perché il tuo creatore è quanto di più caro abbia. Avrò cura di te, come ne ho avuta di lui, anche se per lui non sono riuscito a fare quanto desideravo. Sì, porta, nessuno oserà scalfirti fintanto che vi sarà della vita in me.»

Note dell'autrice.
Ci tengo a precisare alcune cosette su questo capitolo della fic:
- La prima riguarda la porta. Come ben sapete le tavole dell'Epopea sono molto rovinate e molte sono le scene mancanti; diverse sono anche le traduzioni e in merito la scena della porta, mi sono ritrovata dinnanzi entrambe le cose. Infatti, oltre ad avere delle parti mancanti, gli studiosi hanno formulato diverse versioni: in alcune Enkidu distrugge la porta prima che Gilgamesh parli, in altre invece la consacra a lui. Tuttavia, proprio la scena finale viene a mancare e io mi sono permessa di parteggiare per la seconda ipotesi ed immaginarla completamente. Lo avevo fatto anche in altre scene (ad esempio parte dello scontro con Khubaba o le scene lemon) ma questa volta, essendoci in aggiunta una divergenza di traduzioni, ho preferito metter in chiaro tutto.

- La seconda riguarda Gilgamesh che racconta eventi in cui non è presente (quesito che mi era stato posto durante il capitolo in cui Ishtar parla con il padre). Ebbene, Gilgamesh racconta gli eventi dopo esser morto, in un ipotetico al di là o all'interno del mondo del Santo Graal (per chi segue Fate.) Per questo può raccontare eventi in cui non era presente: dopo la morte ha ottenuto una conoscenza completa della sua vita.

Detto ciò, porgo ad ognuno di voi dei fazzoletti. Credo potreste averne bisogno dopo aver visto persino Gilgamesh in lacrime e aver appurato che no, non vi sarà alcun finale felice.
Purtroppo...
Comunque, vi do appuntamento alla prossima settimana. A presto!  

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