5. Dea letale.
"Gilgamesh si pose sul capo la sua corona.
Allora Ishtar, la principessa, volse gli occhi sulla bellezza
di Gilgamesh:
"Orsù Gilgamesh, sii il mio amante!
Donami come regalo la tua virilità!
Sii il mio sposo ed io sarò la tua sposa."
Epopea di Gilgamesh; VI Tavola.
Sconfitto Khubaba, io ed Enkidu abbattemmo alcuni dei cedri della foresta. Soprattutto, facemmo nostro l'albero profumato, il più inestimabile tra tutti. Lo stesso che Enkidu aveva guardato con un allegro sorriso prima di rivelarmi il suo desiderio.
«Con questo voglio creare una porta cui altezza sia sei volte dodici spanne e di una spanna dovrà essere il suo spessore. Anche la spranga, il cardine inferiore ed il cardine superiore dovranno essere di una spanna. E dovremmo portarlo a Nippur.»
«Così faremo», gli avevo risposto, ricambiando quel suo vivace sorriso e, tornati a casa, avevo subito avvisato gli artigiani e i falegnami di aiutare Enkidu durante la costruzione.
Ad Uruk sfoggiai orgoglioso la testa di Khubaba, trofeo e simbolo della vittoria ottenuta insieme con il mio fidato compagno. Fummo acclamati, lodati dal mio popolo. Nel loro vociare vi era un'immensa ammirazione, le loro mani che battevano erano indice di una rinnovata devozione verso il loro potente sovrano che aveva donato loro non solo il prestigio di esser governati dall'uccisore del temibile guardiano ma anche una nuova fonte di denaro, giacché il legno dei cedri sarebbe stato utilizzato sia nella costruzione che nei commerci, in quanto pregiato e assai costoso.
Giunto a palazzo ordinai alle mie ancelle un bagno caldo e profumato con i migliori oli per il corpo, riscoprendo un innato piacere nel sentire dopo tanti giorni la pelle a contatto con l'acqua priva del puzzo di sangue e sudore. Fu come rinascere ed incredibile è pensare che l'uomo possa provar sollievo e pace con qualcosa di tanto semplice eppure essenziale.
Non avrei mai desiderato altro dopo giorni di viaggi e battaglie.
Rivestito dei miei usuali abiti, presi io stesso le mie armi e cominciai a ripulirle una per una con grande calma. Era un'azione che trovavo rilassante, pertanto non mi mettevo mai fretta. Né avrei mai voluto farlo giacché un guerriero, nonostante questi sia anche un re, ha sempre una particolare relazione con le proprie armi, un rapporto particolare che solo un uomo d'arme avrebbe mai potuto comprendere. Avevano una grande importanza per noi e quest'importanza si specchiava nella cura che dimostravamo per quei nostri cari oggetti, anche se ciò richiedeva parte del nostro tempo.
Quel tempo che per me terminò quando la giornata stava volgendosi verso pomeriggio inoltrato, quando mi alzai dalla mia postazione ed indossai la mia corona per raggiungere la sala del trono e lì, con tutta probabilità, restare con Enkidu fino a quando non sarebbe stata pronta la cena. Tuttavia, mio malgrado, non fu il mio amato amico colui che scorsi una volta aperta l'ampia porta d'oro. Tutt'altro.
Al mio cospetto vi era una donna di una folgorante bellezza che mozzava il fiato. Possedeva lunghi e lucenti capelli castani, raccolti e annodati sopra il capo in una treccia attorcigliata a crocchia. I suoi occhi sembravano non avere un colore ben definito ma possedevano una perfetta forma a mandorla, con lunghe ciglia nere. La sua pelle colorata di un tenue dorato era priva di imperfezioni, liscia e levigata, ben esposta con quel suo fine e scarlatto abito che delineava ogni forma perfetta, a cominciare da quella dell'abbondante seno facilmente scorgibile attraverso l'ampia scollatura. Una figura eterea che poco aveva a che vedere con le donne mortali, troppo imperfette dinnanzi l'incarnazione dell'avvenenza, la Dea Ishtar, dea dell'amore, dell'erotismo e della bellezza.
«Ti stavo aspettando, re Gilgamesh», disse con melliflua e melodiosa voce. Le carnose e voluttuose labbra si erano curvate in un sorriso zuccherino.
«A cosa devo la sua onorevole presenza, dea Ishtar?» Le domandai, pur mantenendo le distanze.
«Preferisci avere conversazione per un po', oppure desideri che arrivi dritta al dunque?» Si mosse leggiadra verso di me. Notai come ogni suo movimento, ogni suo passo, fosse impregnato di sensualità. Il suo sguardo possedeva un magnetico potere, così come il suo corpo che più si avvicinava, più sembrava gridar un invito a cui ogni comune uomo avrebbe volentieri ceduto.
«La seconda opzione, se possibile.» Risposi con ton distaccato, allontanando con forza ogni pensiero o desiderio che la sua presenza avrebbe potuto scaturirmi. Ne valeva il mio stesso bene, la mia incolumità. E, seppur in quel momento non vi pensai -e di questo ne sento ancora la colpa- ne valevano anche i sentimenti di Enkidu.
La donna mi attirò a lei, senza preoccuparsi di celare il suo fremente desiderio, né con lo sguardo, né con il corpo.
«Orsù, Gilgamesh, sii il mio amante!» Mi sussurrò, ad un soffio dalle labbra mentre con i polpastrelli dell'indice e del medio mi accarezzava il labbro inferiore. Le sue parole erano ben scandite, lente abbastanza da risultar provocanti. «Donami la tua virilità! Sii il mio sposo ed io sarò la tua sposa. Ti farò preparare un carro di lapislazzuli e dai finimenti d'oro, d'oro saranno le sue ruote e le corna di diamanti. Vi farai alloggiare i demoni Umu come se fossero grandi muli! Entrerai nella nostra casa attraverso la fragranza del cedro e una soglia dorata bacerà i tuoi piedi. Re, nobili, principi si inchineranno al tuo cospetto! Avrai tutto questo se mi sposerai.»
«Cosa potrei darti in cambio una volta averti posseduta?» Soffiai anch'io contro le sue labbra, seppur con un differente tono. Ero distaccato, quasi ironico mentre le parlavo.
«Cosa?»
«Che cosa potrei darti, una volta aver soddisfatto i tuoi desideri?» Ripetei. «Anche se ti dessi oli e abiti in eterno, anche se ti procurassi cibo adatto agli dèi e bevande adatte ai re, cosa mi accadrebbe una volta che ti sarai sentita appagata? Tu sei come un palazzo che schiaccia i propri guerrieri, come una scarpa che morde il piede del suo portatore.»
Mi allontanai da lei, superandola e tornando a parlare prima che potesse anticiparmi.
«A quale dei tuoi amanti sei rimasta sempre fedele? Quale dei tuoi superbi fidanzati è salito in cielo?» Allargai le braccia; la voce impregnata di presuntuoso sarcasmo e diffidenza. Forse anche sdegno per quella malefica dea. «Vieni! Ti ricorderò uno per uno i tuoi amanti, quelli che tu hai ardentemente posseduto!»
Tutti i morti o maledetti per l'eternità. Uomini che credevano di aver ottenuto tutto prima di pentirsi dell'azione commessa.
Non ero stupido e se le storie su di lei non fossero bastate a convincermi, bastava interpretare le sue parole per comprendere il tranello. Un tranello in cui non sarei cascato, poiché io -e non mi reputo presuntuoso nell'affermar ciò- ero troppo astuto e scaltro per lasciarmi soggiogare, anche se avevo dinnanzi l'oggetto del desiderio per antonomasia.
Ishtar era la sorella della dea dell'Ade mesopotamico, Ereshkigal. Il suo legame con l'oltretomba era assai intimo.
I demoni Umu su un carro ricco di pietre ed oro, questo mi aveva promesso? E come potrebbero, dei demoni dell'oltretomba, raggiungere il mio palazzo?
Ella stava sì offrendomi il potere ma quel potere lo avrei assaggiato per un istante in vita, per poi maledirlo nella morte, quando avrei avuto quel carro a girovagar senza meta e senza scopo in quell'Ade maledetto. Mai avrei bruciato la mia esistenza per un'ardente notte con quella dea.
«Cominciamo da Dumuzi, l'amore della tua giovinezza, colui a cui hai decretato il pianto eterno. L'uccello Alallu a cui hai rotto le ali e che ancora oggi si nasconde nei boschi gridando invano "La mia ala!". Tu, proprio tu, hai anche amato il Leone dalla forza perfetta per cui hai scavato fosse. Hai amato anche il cavallo che esalata la battaglia, condannandolo poi alla briglia, al pungolo e alla frusta. Lo hai condannato a correre per sette ore doppie, bevendo acqua putrida e piangendo sua madre Silili. Poi vi è il pastore, il guardiano che costantemente per te sollevava focacce cotte nella brace, lo stesso che hai percosso e cambiato in lupo. Ora i suoi stessi aiutanti lo cacciano via e i suoi cani gli mordono i polpacci. Tu hai amato anche il giardiniere di tuo padre che sempre ti portava ceste piene di datteri e faceva risplendere la tua tavola. A lui hai detto "stendi la tua mano, portala alla mia vulva!" e perché egli ti rispose in modo diverso da quel che tu ti aspettavi, lo hai bastonato trasformandolo poi in una talpa. » Mi fermai qualche istante per scorgere l'ira e l'oltraggio che trasformò il suo volto perfetto. Poi conclusi con le parole: «Per quanto mi concerne, sì, tu per un poco mi amerai ma alla fine mi riserverai lo stesso trattamento. E non è questo ciò a cui aspiro.»
«Me la pagherai per quest'umiliazione, re Gilgamesh.» Sibilò a denti stretti non appena finii di parlare. «Per te vi sarà una punizione persino peggiore di tutte quelle che tu hai elencato.»
Pronunziate quelle parole, ella svanì come se fosse stata una brutta illusione. Sapevo, però, che non era tale, nonostante lo avessi voluto.
Enkidu entrò in quel preciso momento e subito scorse il mio volto teso, subito comprese che qualcosa non andava lanciandomi solo una veloce occhiata.
Ed io non potei fare altro che raccontargli quanto era accaduto.
Angolo dell'autrice.
Ecco con questo nuovo capitolo, quello che darà inizio a tutti i nostri dolori. Come sempre, spero sia di vostro gradimento!
Alla prossima settimana!
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