10 - Epilogo - Salute e arrivederci, amico mio.
"[...]ti deporrò per riposare in un grande letto;
in un letto destinato all'amore ti farò riposare;
ti farò giacere in un luogo di pace, il luogo alla sinistra.
e gli uomini robusti si caricheranno il fardello per te;
[...] e io trascurerò il mio aspetto dopo la tua morte,
con indosso soltanto una pelle di leone vagherò nella steppa"
Epopea di Gilgamesh; VIII Tavola
L'alba baciava già le mura di Uruk in quella mattina di lacrime e dolore, eppure mentirei se dicessi di averla scorta. Non notavo più nulla, non ne ero capace.
Avevo pianto a lungo, piansi e piansi fino a quando non ne ebbi più le forze. Urlai, anche. Sì, ricordo di aver urlato in preda al dolore. Ricordo la gente del palazzo che provò ad entrare ed io che la scacciai, non permettendo neanche ad uno di loro di varcare la soglia di quella porta.
Semplicemente, nessuno doveva infiltrarsi nel mio dolore e quella stanza, la stanza in cui giaceva il corpo ormai privo di vita di Enkidu, era solo mia. Era la mia landa delle lacrime.
Mia e di quel corpo. Avrei colpito chiunque, uomo o donna che fosse, se avessero profanato il mio intimo spazio.
Prostrato in ginocchio, invocai un triste lamento per Enkidu. Che il sole pianga, che gli alberi piangano. Che tutti potessero piangere, perché in quella mattina vi era spazio solo per il lutto ed il dolore.
Non una risata doveva librarsi, non un sorriso doveva curvare le labbra di un uomo. Neanche il sole avrebbe dovuto risplendere, in verità, ma gli dei si beffeggiarono di me anche in questo modo! Fecero splendere il sole durante la mia tempesta peggiore.
Quando riacquistai un minimo di lucidità, io accostai la mia mano sul petto di Enkidu. Il suo cuore aveva smesso di battere e le sue membra cominciarono a divenire pura argilla.
Inspirai profondamente, ordinando che mi fosse portato un velo, il più pregiato che vi fosse a palazzo. Era bianco, come l'aspetto morto del mio amato compagno. Bianco come ci si aspetta che sia un morto, effettivamente.
Lo rigirai tra le mie mani e lasciai un lento bacio sulla fronte di Enkidu, prima di coprire il suo intero volto come quello di una sposa. Era giunto il momento di dirgli addio, sebbene il mio cuore non volesse. Non era ancora pronto per questa violenta, tragica separazione.
Camminai avanti e indietro per la stanza, spogliandomi dei pochi anelli rimastomi tra le dita e decidendo che non ne avrei mai più indossati. Gli dèi non avevano ascoltato la mia preghiera, tutt'altro, li immaginai sogghignanti e divertiti per quella mia reazione ma...non importava. Avevo ormai preso la mia decisione e questa era irrevocabile.
Uscii poi dalla stanza, con attorno la servitù e lo sciagurato sacerdote, già propenso col piede destro a varcar la soglia. Lo fulminai con lo sguardo.
Non avevo ancora detto che la stanza fosse accessibile poiché tale non era ancora.
«Che nessuno osi entrare in mia assenza.» Intimai a denti stretti, guardando a turno ognuno di loro. Poi mi congedai per raggiungere la città ed incaricare i fabbri, gli artigiani e gioiellieri di costruire una statua.
«Fabbri, lavoratori di rame, gioielli ed artigiani, desidero che voi costruiate una statua del mio amico Enkidu. Dovrà essere ad altezza naturale, ricoperta d'oro e pietre preziose.»
Con un rispettoso e servile inchino, gli uomini si misero presto a lavoro, con la promessa di terminare il prima possibile il lavoro affidatogli.
Io tornai a palazzo, nella camera della morte. La servitù aveva ripreso con i soliti lavori, il sacerdote si accomodò nel corridoio, pazientemente in attesa di un mio ordine.
Pover'uomo, quasi provai pena per lui e il trattamento subito. Quasi.
«Ti deporrò per riposare in un grande letto, in un letto destinato all'amore ti farò riposare.» Dissi, con gentil tono, alle spoglie del mio compagno. Come faceva male la sua vista, come mi piangeva il cuore. Ma non avevo più lacrime, i miei occhi gonfi non erano più capaci di versare anche una sola lacrima.
«Ti farò giacere in un luogo di pace, il luogo alla sinistra. E i re della terra baceranno i tuoi piedi», continuai, accarezzando con i polpastrelli la veste all'altezza del petto, «farò in modo che il popolo di Uruk possa piangere, possa emettere lamenti per te. Gli uomini robusti si caricheranno il fardello per te. Ed io...io trascurerò il mio aspetto dopo la tua morte e con indosso soltanto una pelle di leone vagherò nella steppa.»
Questa fu la mia promessa. Detta a lui ma fatta in realtà a me stesso.
Non avrei più potuto fargli promesse e con quest'amara consapevolezza, chiamai finalmente il sacerdote.
«Può dare inizio ai preparativi per il funerale», gli dissi. «Che sia maestoso, come quello di un re. Che non manchi nulla e che tutto il popolo sia in lutto.
Questo sarà il nostro ultimo saluto per Enkidu, l'amato compagno di Gilgamesh, re di Uruk.»
Angolo dell'autrice.
Ed eccoci qua, con l'ultimo capitolo della fic.
Ah, come avrete notato, il capitolo è molto piccolo e me ne dispiaccio. Era mio desiderio farlo su tutto il funerale ma, ahimé, questa tavola è particolarmente rovinata. Non ho potuto neanche optare per l'inventiva per paura di incongruenze storiche.
Non conosco il rito funerario sumerico, né ho trovato molto su internet. Piuttosto che rischiare di scrivere assurdità, ho preferito accorciare il capitolo.
Detto questo, credo sia giunto il momento dei ringraziamenti.
Grazie davvero a tutti voi che avete letto questa fanfic, che mi avete seguito e avete amato con me questa splendida otp. Un grazie di cuore grande così.
Continuerò ancora a scrivere sulla GilKidu, mi conosco molto bene per poterlo affermare con certezza e spero di vedervi ancora lì, a leggere le piccole pazzie che mi vengono in mente.
Grazie, grazie.
E alla prossima!
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