5.
Un signore stava fumando una sigaretta, mentre ascoltava le solite lamentele della donna che aveva sposato.
Ma chi glielo aveva fatto fare?
E lei continuava. Lo umiliava, gli gridava contro le peggior cose.
E lui si sentiva sempre peggio.
Le ombre, agli angoli, si facevano sempre più forti, fino ad oscurare l'intera scena.
Mi svegliai per colpa di una botta, come se qualcosa fosse caduta a terra.
Mi girai immediatamente e notai il mio telefono a terra sottosopra mentre continuava a vibrare.
Lo presi velocemente e la vibrazione cessò. Controllai chi fosse stato a chiamarmi e aggrottai le sopracciglia confusa quando vidi il nome di Lien.
Perché mi stava chiamando?
E solo dopo ricordai cosa avevo in programma da fare; erano le sei del pomeriggio. Avevo dormito davvero tanto.
Il telefono squillò di nuovo, questa volta lo presi e aprii subito la chiamata.
«Pronto?» risposi mentre mi alzavo e aprivo l'armadio.
«Berenice! Finalmente rispondi!»
Spostai quasi con rabbia i vestiti. Non trovavo nulla che andasse bene.
«Scusa, mi sono addormentata, però mi sto preparando.»
Feci un enorme sorriso quando finalmente trovai i miei leggins preferiti.
«Bene, ti aspetto davanti il parco delle stelle. Non fare troppo tardi» rispose con voce quasi civettuola.
Chiusi la chiamata dopo averla rassicurata che avrei fatto presto e iniziai a prepararmi.
In meno di dieci minuti ero già pronta. Non ero una a cui piaceva fare aspettare, sapere che ci fosse qualcun altro che mi stava aspettando mi metteva una certa ansia.
Sistemai il poco trucco messo e mi fiondai fuori dalla porta della mia stanza, quasi inciampando su Dinco.
Lui miagolò come contrariato. Beh, gli avevo schiacciato la coda in effetti. Io lo presi in braccio, gli diedi un bacino sul muso e lo posai sul letto.
Sentii il rumore della tv, quindi mio padre era tornato, ma mia madre ancora no, lei staccava più tardi.
Uscii velocemente da casa, senza neanche avvertire mio padre, che forse nemmeno si era accorto di me, e mi diressi velocemente verso il parco maledetto anche conosciuto come parco delle stelle.
Dopo circa dieci minuti di camminata riuscii a vedere le sbarre grigie di cui è circondato il parco, e solo dopo intravidi Lien.
Stava parlando al telefono e sembrava anche piuttosto nervosa. Si rotolava una ciocca di capelli intorno al dito, mentre fissava l'altro lato della strada, senza vederlo realmente.
Mi avvicinai lentamente e sentii qualche parola, senza tuttavia capire a cosa si stesse riferendo.
«Va tutto bene, te l'ho detto. Piuttosto tu cerca di stare più attento, dopo tutto questo non voglio che rovini qualcosa.»
Strinsi gli occhi sospettosa e sbattei con più forza del necessario il mio stivale sul marciapiede facendo girare di scatto la ragazza.
L'avevo colta di sorpresa, non se lo aspettava.
Puntai i miei occhi azzurri nei suoi più scuri e sprofondai nella sua mente.
Un ragazzo, l'età indefinibile, era seduto su una sedia, sembrava guardare me, ma ovviamente stava solo guardando Lien
I capelli erano cortissimi, gli occhi due pozze scure. Aveva le maniche corte e potevo notare alcuni tatuaggi sulle braccia.
Sembrava avere la pelle chiara, ma non ne potevo essere sicura, la scena era colorata da uno strano giallo, con alcune sfumature rosa e rosse.
Lui sembrava arrabbiato, e lei aspettava solo che lui parlasse.
Ed era sempre più nervosa.
Alla fine lui aprì la bocca, ma tutto scomparve nella nebbia.
«No...?»
Lei mi fissava, attendeva una risposta, aveva appena finito di parlare e stava lì con il sorriso stampato sulla faccia.
Sbattei le palpebre più volte.
Non era mai successo di vedere la nebbia, di essere catapultata nel mondo reale, strappata dai ricordi.
Era successo solo quando i ricordi erano troppi, quando il loro potere mi sovrastava.
Ma mai così.
Rimasi a fissarla e Lien apparve confusa.
«Stai bene, Berenice?»
Scossi appena la testa, come per riprendermi, e poi annuii.
«Sì, tutto bene, che stavi dicendo prima?»
Lien rimase un attimo in silenzio, a guardarmi in modo strano. Notai che quel giorno indossava una maglietta completamente nera con un grande teschio stampato al centro, i jeans erano blu, semplici.
«Ti stavo chiedendo se ti andasse di andare al bar che c'è all'angolo della strada. Sembra molto carino, anche se ho notato che esistono davvero molti bar qui, quindi se vuoi andare da qualche altra parte...»
Scossi la testa.
«Tranquilla, possiamo andare lì.»
Lei fece quel sorriso smagliante e commentò: «Perfetto!»
Iniziammo ad allontanarci dal parco e lei iniziò subito a parlare.
«Ho sentito dire che questo parco è chiamato parco maledetto, come mai?»
Sembrava sinceramente curiosa, forse anche un po' divertita.
Le raccontai della leggenda e lei scoppiò a ridere.
«Questo è assurdo!»
Aveva una risata adorabile, ti spingeva a ridere con lei.
«Lo so, è davvero assurdo che alcune persone ci credano.»
Lei smise di ridere, ma rimase con un leggero sorriso sulle labbra.
Mi lanciò una fugace occhiata per poi tornare a guardare davanti a lei.
«Certe leggende, però, sono vere.»
La guardai senza capire dove volesse parare e lei tornò a guardarmi.
«Sai, alcune leggende, tipo quella di Halloween, sono vere, ma le persone non ci credono e non gli danno potere.»
Che c'entrava adesso Halloween?
«Leggenda di Halloween? Che vuoi dire?»
Lei si morse il labbro, guardò un attimo a terra, come a pensare cosa dovesse dire, per poi tornare a guardarmi.
«La notte di Halloween, il velo che separa il mondo dei vivi con quello dei morti si fa talmente sottile da poter essere oltrepassato. È vera questa cosa, ma nessuno ci crede, beh, quasi nessuno, quindi i morti non possono davvero oltrepassare il velo, o se possono non hanno il potere di andare dove vogliono loro.»
Io continuavo a non capire il suo discorso. Sembrava davvero seria e mi stava quasi preoccupando.
Eravamo arrivate vicino al bar quando lei si girò di scatto verso di me e scoppiò a ridere.
«Non posso crederci! Ci hai creduto!»
Io risi con lei, anche se il suo discorso mi aveva scosso.
Dopo essere entrate al bar e aver dato le nostre ordinazioni, lei tornò a parlare.
«Ci hai creduto, è davvero incredibile.»
«Sembravi davvero seria» sussurrai con un sorriso.
Lei ricambiò il sorriso, si sistemò i capelli con le mani, e si appoggiò allo schienale della sedia.
«Da quanto sei qui?» le chiesi dopo un po'.
«Da circa due settimane, non molto.»
Iniziai a farle altre domande, di tutti i tipi e scoprii che prima abitava a Roma, in Italia, con il suo ragazzo, ma poi, di comune accordo, avevano deciso di lasciarsi perché la cosa non andava più bene, e lei aveva deciso di andare via da quella città piena di ricordi per venire qui a Lewis.
Che coincidenza.
Anche lei, come me, si era lasciata da poco, e tra tutte le città del mondo aveva deciso di venire proprio qui a Lewis.
Era tutto così strano.
Ma le cose strane non erano solo queste.
Dopo aver finito il nostro caffè, decidemmo di uscire per andare a fare due passi nel parco "maledetto"
Avevo cercato più di una volta di entrare nella sua mente o a scoprire di più.
Chi era quel ragazzo che avevo visto? Forse il suo ragazzo? Eppure qualcosa mi suggeriva che non lo era affatto...
«Però dobbiamo proprio ammettere che questo parco è uno dei più belli» mormorò con lo sguardo fisso sugli alberi enormi.
Io annuì. Era un parco bellissimo.
Il parco delle stelle venivano chiamato così per via della strana forma con cui era stato costruito: aveva cinque angoli proprio come una stella.
Esisteva una leggenda metropolitana su questo parco.
Il parco esisteva sin dal 1820, era rimasto aperto per tanto tempo fino a quando, nel 1908, scomparirono tre bambini per tre giorni e i loro corpi furono ritrovati nel parco. Avevano gli occhi spalancati e c'era un enorme buco nel petto.
A tutti e tre mancava il cuore.
Rimase chiuse fino alla fine degli anni '90, fu riaperto nel 2000. Lo resero più grande, aumentarono la sicurezza, aggiunsero uno stagno con le anatre e misero giochi per bambini.
Adesso quel parco veniva frequentato da tantissime persone ogni giorno.
Alzai gli occhi nel cielo grigio scuro. Sicuramente si sarebbe messo a piovere entro poco.
«E i tuoi genitori?» chiesi, sedendomi su una panchina lì vicino.
Lei si sedette accanto a me. «Stanno bene. Abitano ancora a Parigi, sono nati lì e moriranno lì, mi sa.»
«E quando ti sei trasferita a Roma?»
«Poco dopo la fine delle superiori.»
«Ci sei andata da sola?»
«No, no, con il mio ragazzo, Xavier.»
«E avete vissuto lì fino...»
«Fino a due settimane fa, cioè parlo per me, lui è ancora là.»
«Perchè sei venuto proprio qui a Lewis?»
Lei non rispose, si girò verso di me sorridendo.
«Quante domande, Berenice. Ora lascia che te ne faccia alcune io, ora.»
Alzai le spalle e le dissi che poteva farmi tutte le domande del mondo.
Lei mi fissò, ci pensò bene.
«Come sta Yves?»
Quella domanda mi bloccò il respiro. Mi irrigidì, e spostai lo sguardo.
Probabilmente lei si accorse del cambio della mia espressione, ma non disse nulla, continuò a guardarmi aspettando una risposta.
«Yves... è morto» sussurrai con fatica.
La sua espressione non cambiò.
«Davvero? Come?»
Perché mi stava facendo quelle domande?
Scossi la testa e non risposi. Puntai i miei occhi a terra, senza guardarla, solo dopo un minuto di silenzio risollevai lo sguardo e la trovai ancora lì, a fissarmi.
La guardai negli occhi, pronta a sentire quella sensazione di vuoto dentro di me, ma non riuscivo a vedere nessun ricordo, c'era qualcosa che mi bloccava.
Solo dopo qualche secondo sentii quella strana sensazione che sentivo sempre, ma anche in quel caso non riuscii a vedere granché. Solo immagini sconnesse.
Delle sbarre fredde. Il ragazzo che avevo visto prima. Due persone una di fronte all'altra.
Verde, nero, rosso.
In sostanza non capivo niente.
Solo dopo notai un viso familiare.
Il mio respiro si bloccò di nuovo e, di nuovo, vennì quasi cacciata via dalla sua mente.
Lien era ancora davanti a me, stava sorridendo leggermente, ma i suoi occhi erano tristi.
«Mi dispiace, Berenice, mi dispiace davvero tanto per quello che è successo.»
Poi, prendendomi alla sprovvista, mi abbracciò stretta, ma io non ricambiai.
Ero ancora troppo sconvolta da quello che avevo visto, non potevo crederci. Avevo troppe domande nella mia mente.
Ma una era più importante di qualsiasi altra: perché nella mente di Lien avevo visto la bambina del bar?
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