Capitolo 7 - Apertura
Questa mattina mi sono svegliato con un leggero senso di ansia. Come quando qualcosa di nuovo ti aspetta e non vedi l'ora, ma allo stesso tempo non sai come andrà e quindi ti sale un po' il panico. Ti si chiude lo stomaco, non hai fame e ti viene anche quel tipico mal di pancia.
Il mio motivo è Camille, anzi, Riley.
Siamo rimasti d'accordo che, da oggi, al centro ci andremo insieme. Lei inizia il turno alle 8.30, mentre "Gli Invincibili" si radunano alle 9.00, ma non mi dispiace alzarmi mezz'ora prima. Alla fine si tratta solo di una volta a settimana.
Il motivo della mia ansia però, non è tanto la ragazza in sé, quanto fare il tragitto con lei, sulla sua auto. Di cosa parleremo? Cosa posso domandarle per non sembrare indifferente ma nemmeno un totale idiota? E lei? Cosa potrebbe domandarmi?
Sono le otto in punto e io sono seduto sul letto, già lavato e vestito.
Mi bagno le labbra all'incirca ogni minuto, cosa che faccio spesso quando sono nervoso.
Tuttavia mi accorgo che sono davvero patetico ad essere così agitato. Insomma, non è del tutto una sconosciuta, ci ho parlato più volte, anche se per pochi minuti, e mi sembra che quella che ha fatto più figuracce fino ad ora sia stata lei.
Ripenso alla prima volta che l'ho vista, a quando mi ha soprannominato "bel morettino", a quando è caduta rovesciando la mia limonata, a quando me ne ha offerta un'altra e perfino a quando abbiamo fatto il tragitto dal bar al parcheggio del centro insieme.
Che posso dire di lei? Sembra simpatica e a posto, ma ho davvero poche nozioni per esprimermi di più sul suo conto. Quindi questi futuri piccoli viaggi insieme non saranno altro che occasioni per conoscerla meglio.
«Shawn, è solo una ragazza. Non sarà così traumatico» mormoro a me stesso, passandomi entrambe le mani sul viso. Rilascio un sospiro dovuto allo stress e mi butto all'indietro sul morbido materasso del mio letto.
«Credo che tu abbia ragione»
La voce squillante di mia madre mi fa sobbalzare e di scatto ritorno seduto. Mi volto verso di lei, in piedi sulla soglia alle mie spalle.
«Mamma! Stavi origliando?» chiedo, guardandola di traverso.
La donna sorride e alza gli occhi al cielo.
«Può darsi» risponde, per poi sedersi accanto a me e accarezzarmi i capelli. La guardo negli occhi, di un verde intenso, e penso a quanto il suo sguardo sia dolce e sempre sincero.
«Sei agitato perché passa a prenderti la tua amica?» mi chiede, la sua mano ancora tra la mia folta chioma scura. E' così rilassante...
«Diciamo che è da due ore che penso a qualcosa da poterle dire durante il tragitto di un quarto d'ora, per non sembrare uno sfigato» confesso alzandomi dal letto e guardando poi l'orologio. A minuti dovrebbe arrivare.
«Oh tesoro» mormora la donna una volta alzatasi anche lei. «Vedrai che le parole verranno da sole. Non stare a tormentarti per paura di fare una brutta figura. Se si è offerta di passarti a prendere vorrà dire che antipatico non le stai, giusto?»
In effetti non ci avevo pensato.
«E poi so che sei un ragazzo educato, gentile e rispettoso. Perché dovresti fare una figuraccia?» domanda incrociando le braccia al petto, in attesa di una risposta.
«Perché è una ragazza? Quante volte mi hai visto tenere una conversazione con una persona del sesso opposto al mio, che non fosse un "grazie" o un "arrivederci" detto a una cassiera o a una commessa? Mamma, non ho mai avuto amici, men che meno di genere femminile, quindi scusa se sono un po' nervoso» sbotto.
Solo dopo aver sputato quella frase mi accorgo di essere stato un po' troppo brusco.
Scuoto la testa mortificato e mi avvicino a lei per abbracciarla.
«Scusa mamma, non volevo» le soffio tra i capelli. Profumano di miele e per qualche secondo mi perdo nel loro odore. Sento le braccia di mia madre stringermi forte a sé e in quel momento mi sento meno ansioso. E' come se quell'abbraccio mi desse il coraggio necessario.
Nell'istante in cui ci sciogliamo l'uno dall'altra, qualcuno suona il campanello.
E' lei.
Sento mio padre urlare il mio nome dal piano di sotto, poi la sua voce che irrompe nell'ingresso.
Deglutisco e nel mio petto il cuore martella più del dovuto.
Afferro il portafoglio e il cellulare e li metto nelle tasche dei jeans, dopo di che prendo in mano le stampelle e mi dirigo verso le scale.
Giunto in cima, guardo in basso e lei è lì. Indossa una maglietta bianca un po' corta - tanto che le si vedono due centimetri di pancia -, un paio di pantaloncini corti color senape e delle scarpe da ginnastica azzurre, in tinta con l'immancabile cerchietto che ha in testa.
Sta parlando con mio padre ed è sorridente, d'altronde quando non lo è?
Sono così intento a guardarla che, nella distrazione, appoggio male il piede sul gradino e per poco non perdo l'equilibrio.
Dio, quanto sono idiota.
Fortunatamente non si accorge di nulla, ma poi, quando sono ormai a metà rampa, solleva lo sguardo e mi vede.
«Ciao Shawn!» mi saluta raggiante.
Ricambio il saluto con un misero "ciao" perché la mia mente non riesce a partorire niente di meglio, e la affianco.
«Ciao, io sono Clara, la mamma di Shawn» esclama la donna alle mie spalle, sporgendosi di poco in avanti per stringerle la mano e osservarla meglio.
«Buongiorno, Camille, o Riley, come preferisce. Ha una gran bella casa, lo stavo dicendo proprio ora a suo marito» risponde la giovane, poi aggiunge, con un tono di voce più basso, «ho visto la fede al dito, altrimenti non mi sarei mai permessa.»
La sua precisazione mi fa sorridere. E' così buffa che mi viene da ridere. Infatti rido e, prima lei, poi i miei genitori, mi seguono a ruota.
Dopo le specifiche raccomandazioni sull'andare piano in macchina dei miei e i loro ringraziamenti per essere stata così gentile da essersi fermata a prendermi, usciamo di casa e ci dirigiamo alla Suzuki rossa posteggiata sul vialetto.
Butto le stampelle sui sedili dietro e, una volta chiusa la portiera, mi accomodo accanto a lei.
Mette in moto, preme la frizione e, con un piccolo colpo di gas, partiamo.
-
«Come stai?» mi domanda al primo semaforo rosso che troviamo, praticamente in fondo alla nostra strada.
Bella domanda, penso. Non lo so di preciso. Sono schiacciato dal peso di una malattia incurabile, ma allo stesso tempo sono in macchina con te, quindi diciamo che non sto né bene, né male.
«Potrebbe andare meglio» mi limito a rispondere. «E tu?»
Riley riparte perché la luce è tornata verde e, sorridendo, mi risponde. «Molto bene. Mi ha fatto piacere sapere che siamo vicini di casa. Sai, non ho molti amici, anzi, non ne ho proprio nessuno se vogliamo dirla tutta. Ogni tanto vedo mia cugina, ma entrambe lavoriamo quindi facciamo fatica a incastrare tutto. E poi lei abita dall'altra parte della città»
La ascolto attentamente e mi piace il fatto che mi parli a manetta di lei. Vuol dire che, in qualche modo a me sconosciuto, le ispiro un po' di fiducia, no?
Non so esattamente come replicare alla sua confessione, così opto anche io per la sincerità.
«Se ti può consolare nemmeno io ho degli amici, nemmeno un cugino, quindi hai trovato chi è messo peggio di te.»
Molto peggio di te, vorrei aggiungere.
«Nah, non ci credo. Con quel viso è impossibile che tu non abbia amici. Immagino che a scuola avrai avuto un sacco di ragazze ai tuoi piedi» afferma convinta.
Ciò che sento pronunciare dalle sue labbra mi fa scoppiare in una grassa risata. Lei, però, mi guarda senza capire.
«Non sai quanto ti sbagli. Posso avere anche un bel viso, come dici tu, ma nessuno si è mai avvicinato a me perché...»
No. Non posso dirglielo. Se lo sapesse cambierebbe idea sul mio conto ed io perderei l'unica persona che si sta dimostrando carina nei miei confronti.
«Perché? Cos'hai di strano? Puzzi? Non mi sembra. Al contrario, trovo che tu abbia un buon profumo. Cos'è, Hugo Boss, vero?»
Sorrido. E' una macchinetta. Passa da un argomento all'altro con una velocità disarmante, ma è proprio questo che, a mio avviso, la rende quella che è.
In ogni caso non rispondo alla sua domanda, ma ne approfitto per porgergliene io una diversa.
«Quali sono le tue origini? Cioè, sei nata qui o...?»
Con gli occhi sempre fissi sulla strada, mi spiega che sì, lei è nata qui, ma sua madre è cubana ed è per quello che il colore della sua pelle non è come il mio.
Mi affretto a precisare che per me non è assolutamente un problema e che non sono razzista, ma che la mia era solo curiosità.
«Tranquillo, l'ho capito subito che non sei come gli altri. A me il colore della mia pelle piace molto, sembro abbronzata tutto l'anno, vero?»
Ride appena e mi contagia. E' così solare che il suo buon umore credo mi faccia proprio bene. Da quant'è che non ridevo così? Direi troppo.
«Eccoci arrivati, signore» esclama una volta parcheggiata l'auto davanti al centro.
Scendiamo e, dopo aver recuperato le mie nemiche stampelle, ci avviamo verso l'entrata.
«Magari una di queste sere possiamo uscire se ti va!»
Non so dove io abbia trovato il coraggio di pronunciare quella frase, dato che il solo pensare di uscire da solo fino a un mese fa mi terrorizzava, ma l'ho fatto e me ne stupisco.
Riley, di poco più avanti di me, si volta e rimane a fissarmi qualche secondo, poi le sue labbra si incurvano rivelando il prezioso brillante sul dente.
«Mi piacerebbe molto Shawn» sussurra dolcemente e, dandomi nuovamente le spalle, si allontana lasciandomi con le farfalle nello stomaco.
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