Capitolo 5 - Vicini

«Aspetta!»

La sua voce mi richiama e mi costringe a incollare nuovamente lo sguardo ai suoi occhi.

Il suo viso è tornato luminoso, come la prima volta che l'ho vista, e il suo sorriso è gioioso. Me ne domando il motivo.

«Ho finito il turno, per oggi. Ho una visita tra un'ora all'ospedale, ma prima passo da casa. Possiamo uscire insieme» esclama.

L'ultima frase mi spiazza, ma solo per pochi secondi, perché poi aggiunge «fino al parcheggio intendo».

Ovvio. Credevo davvero che intendesse uscire insieme a uno storpio come me?

A quel mio pensiero rido, e Camille, ignara del perché del mio gesto, si incupisce.

Mi affretto a spiegarle che non ridevo di lei, e le faccio spazio per lasciarla passare.

Percorriamo il corridoio in totale silenzio, ma noto che lei mi sta accanto senza affrettare il passo, e non so se la cosa mi dia fastidio perché sembro ancora di più lo sfigato che sono, o se invece mi fa piacere perché è un gesto di rispetto nei miei confronti.

Probabilmente entrambe le cose.

Giunti in prossimità del parcheggio mi fermo e assottiglio lo sguardo alla ricerca di una Jeep blu pavone.

«Allora ci vediamo, buona giornata Shawn»

Camille mi saluta con garbo ed io faccio altrettanto sorridendole sinceramente. «A mercoledì» aggiungo, e ha tanto l'aria di un appuntamento, ma non mi dispiace.

La sto ancora guardando andare verso la sua auto, una vecchia Suzuki rosso metallizzato, quando un'auto più alta di me, mi si para davanti.

«Per fortuna che non era una tua amica, eh figliolo?»

Mio padre.

Col finestrino abbassato mi parla da dentro l'abitacolo, senza mai togliersi quel sorriso malizioso dal volto.

«Hai assistito a tutta la scena?» gli domando leggermente infastidito.

«Sì, sarebbe stato bello avere dei pop corn» si affretta a rispondere proprio mentre sto chiudendo la portiera.

Gli tiro una gomitata sul braccio e, ridendo di gusto, riparte.

Giunti al primo semaforo, proprio di fianco all'uscita del parcheggio, noto la macchina di Camille ferma davanti a noi.

Faccio finta di nulla, non vorrei mai che mio padre ricominci la solfa.

In ogni caso, e non so nemmeno io perché, la tengo d'occhio per tutto il tragitto, meravigliandomi del fatto che sta percorrendo la nostra stessa strada.

Poi d'un tratto si ferma, e quando mi accorgo dove siamo, sento una stretta allo stomaco.

Non è possibile.

Eppure Wilmington non è così piccola. E' la capitale della contea di New Hanover, per l'amor del cielo!

Le ruote dell'auto di famiglia - sì, abbiamo una sola auto perché la mia infernale malattia ha fatto sì che i miei genitori dovessero vendere l'altra macchina per racimolare soldi per curarmi, fantastico - percorrono altri trecento metri prima di fermarsi.

Già, davanti a casa.

«Non è la ragazza del centro quella che è scesa dalla Suzuki rossa laggiù?» chiede mio padre indicando, con l'indice sporco di morcia, il fondo della nostra via.

Dio, ma non gli sfugge proprio nulla a quest'uomo! E' peggio di una madre.

Seguo la traiettoria del suo dito, come se non l'avessi già notata da solo Camille, e annuisco.

«Sì, mi sembra lei» dico soltanto, recuperando la seconda stampella e dirigendomi verso la porta di casa.

«Beh, non vai a dirle nulla?» continua l'uomo, che, non so per quale motivo, è sceso anche lui dall'auto.

«Non devi tornare in officina?» domando io, evitando di rispondere alla sua, di domanda.

Lui sbuffa, ma con lo stesso sorriso furbo che ha indossato per tutto il tragitto, e rimonta in macchina per poi andarsene.

Sospiro, e prima di entrare in casa butto nuovamente l'occhio verso la Suzuki. Camille però non c'è più.

Magari è solo di passaggio, magari è casa di sua nonna.

No, mi ha detto che doveva passare da casa prima di una visita in ospedale, quindi quella villetta a due piani color pesca dev'essere per forza casa sua.

Strano però che io non l'abbia mai vista in zona. Voglio dire, l'avrei sicuramente notata una macchina rossa nel vialetto. No, se lei è sempre al centro.

Mentre parlo mentalmente da solo, non mi accorgo di essere ancora sulla soglia di casa fino a quando la signora Janckins, nostra vicina da quando sono venuto al mondo, mi sorprende alle spalle con la sua vocina stridula.

«Ciao caro!» urla facendomi prendere un colpo.

Mi volto verso di lei e, mostrandomi il più cordiale possibile, la saluto.

«Buongiorno signora Janckins, come sta?» domando per nulla interessato alla sua condizione di salute.

Lei fa una smorfia e si tocca un ginocchio con la mano rugosa.

«Oh, se sapessi mio caro! Ho dolori ovunque, ormai le gambe non mi tengono più in piedi. Per non parlare di tutte le medicine che devo prendere. Ah ma vedrai, quando sarai vecchio anche tu capirai di cosa sto parlando» borbotta per poi girare i tacchi e tornarsene da dove è venuta.

Scuoto la testa e, finalmente, mi decido ad entrare in casa.

Solo una volta giunto in camera mi accorgo di che ore sono. Quasi le undici e mezza.

Osservo il pianoforte, la voglia di suonare è tanta, ma ho ancora in mente Camille. O meglio, non riesco a credere che abitiamo non solo nello stesso quartiere, ma anche nella stessa strada, e non me ne sia mai accorto.

Mi siedo sul letto, con le mani in mano, per qualche minuto, ma dopo poco il mio sguardo si posa sulla scrivania, più precisamente sul computer.

Decido di dare un'occhiata ai social, dato non ci entro dall'inizio dell'estate e, ovviamente, non ho nessuna notifica.

Su Facebook, scopro che uno dei miei ex compagni di classe si è sposato in agosto, e che la ragazza per la quale avevo una cotta alle elementari è al quarto mese di gravidanza.

Mi assale la malinconia.

Alla mia età, loro sono felici e contenti, si sono sposati e avranno dei figli, mentre io sarò costretto a restare da solo per sempre.

«Non è giusto» mormoro a bassa voce e, in un istante, la malinconia si trasforma in rabbia. Mi alzo di scatto rischiando di inciampare nei miei stessi piedi, e afferro le stampelle che avevo precedentemente appoggiato al piano.

Ho il respiro affannato, ma la voglia di distruggere qualcosa è troppo potente.

Alzo i "bastoni di ferro" in aria e col sangue che mi ribolle nelle vene li scaravento contro l'armadio, che si ammacca subito.

Con le lacrime agli occhi, osservo il buco venutosi a creare sull'anta, poi il mio sguardo passa alle stampelle, cadute in maniera scomposta sul pavimento.

Mi pizzica il naso, perché ormai sono sul punto di scoppiare, se non fosse che un suono, come di una notifica, mi giunge alle orecchie.

Sorpreso e confuso, ricaccio indietro le lacrime e mi volto verso il portatile acceso, notando il simbolo di una nuova notifica su Facebook.

Mi chiedo chi possa essere, dato che nessuno mi ha mai calcolato e tutti gli "amici" che ho su questa piattaforma li ho aggiunti io.

Senza sedermi afferro il mouse e faccio scorrere il cursore fino al numerino rosso in alto a destra.

Quando leggo, mi sale ancora di più il nervoso.

Max Walker ti ha invitato a partecipare ad un evento.

Mi scappa un'imprecazione di quelle pesanti, e chiudo tutto con una mossa repentina. Non ho intenzione di farmi prendere per il culo e illudermi ulteriormente, quindi decido di andare a fare un giro. Da solo.

Guardo l'orologio. Sono passati solo venti minuti da quando sono arrivato a casa, il che significa che non ho molto tempo prima che arrivi mia madre dalla libreria.

Tuttavia, ho bisogno di sfogarmi, di distrarmi, di fare qualcosa per non morire di depressione.

Velocemente metto mano all'armadio sbeccato, afferro una tuta comoda e la indosso, abbinandola con le scarpe da ginnastica grigie. Poi afferro le chiavi di casa, il telefono e le stampelle prima di scendere i gradini e uscire in cortile.

Se i miei sapessero quello che sto per fare mi ucciderebbero. No, okay, sto esagerando, ma non sarebbero molto contenti di sapere che me ne vado in giro da solo.

Una passeggiata intorno al quartiere sarà sufficiente, penso uscendo dal vialetto, appena prima che una macchina mi affianchi rallentando.

E' una Suzuki rossa, la sua.

Mi abbasso per guardare all'interno dell'abitacolo e il suo sorriso vivace mi fa tornare un po' di buon umore.

«A quanto pare siamo vicini di casa!» esclama, sembra sinceramente contenta di scoprirlo.

Le dico che non l'ho mai vista in zona, e risponde che ha cambiato macchina la settimana scorsa e che, a causa dei turni al bar, quella è la prima volta che torna a casa di mattina.

«Avrei potuto vederti nei week end» replico allora, ma mi spiega che è da quando si è trasferita in questa via, due anni fa, che ogni fine settimana parte con suo padre per andare dai nonni a Wrightsville Beach.

Le faccio un cenno di comprensione e mi appresto a salutarla, ma lei non ha intenzione di lasciarmi andare.

«Potremmo andare al centro insieme, al mercoledì» asserisce, poi, notando probabilmente la mia espressione incredula, continua. «Sempre se può farti piacere»

Rimango imbambolato a guardarla per più tempo del dovuto - e del voluto -, ma non riesco a farne a meno. I suoi occhi scuri sono così sinceri, così benevoli da infondermi fiducia, tanto che sento di potermi fidare.

E' strano, perché è una sensazione che non ho mai provato fino ad ora ma che ho sempre desiderato provare. Fidarmi di qualcuno che non fossero i miei genitori, sentire di essere, almeno un po', importante per qualcuno.

«Ho fatto un'altra gaffe, vero? Sei fidanzato e pensi che stia flirtando con te.. Sono patetica» sussurra Camille, la quale posiziona al meglio le mani sul volante e sembra pronta a ripartire.

«No, aspetta!» prorompo, aggrappandomi al finestrino abbassato. «Uno come me secondo te è fidanzato?» chiedo per poi riprodurre una risata ironica.

«Non vedo perché no. Solo perché hai le stampelle non significa che tu non possa avere una ragazza... o un ragazzo»

E' seria, cioè è seria sul serio.

Okay, pensa che sia gay o era solo un'ipotesi?

Sono confuso.

«Non sono gay» mi affretto a precisare.

Lei sorride, poi si sporge leggermente verso il sedile del passeggero dove è posata la sua borsa. Ne estrae una biro e un foglietto, e la prima cosa che penso è che voglia lasciarmi il numero di cellulare.

La osservo mentre scrive e per sicurezza mi do un pizzicotto sul braccio, non sia mai che sto sognando. Ci rimarrei troppo di merda.

Quando mi porge il pezzo di carta, mi accorgo che sì, mi sono illuso, ma nemmeno troppo.

Camille Riley Foster

Leggo quelle tre parole, scritte nero su bianco con una calligrafia precisa e tondeggiante, e afferro subito che è il suo nome completo, ma non ne capisco il senso.

«Se vuoi, cercami su Facebook, o su Instagram» mi delucida, dopodiché mette in prima e riparte.

Guardo la Suzuki allontanarsi e all'improvviso sento il cuore più leggero.

La rabbia è sparita.


Fighter's Space:

Hola gente!
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e che, in generale, fino a qui la piega che sta prendendo la storia vi piaccia. Se volete ditemi cosa vi piace o non vi piace ❤️
Ci tengo a farvi presente che per una settimana intera non aggiornerò perché a breve partirò per Amsterdam per festeggiare il nuovo anno.
Quindi il prossimo aggiornamento, probabilmente, ci sarà alla fine della prossima settimana.
Baci xx

Ps: questa storia partecipa al concorso Plump Words di SentencesPower

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