XIII. Il discorso del principe
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«Non dovrei essere qui, mio signore. Chissà cosa pen-seranno gli altri nobili a palazzo» la ragazza era adagiata sul divanetto di velluto rosso della stanza di lord Jamie e sventolava un ventaglio ricamato all'altezza del candido collo, nella speranza di trovare sollievo dal caldo torrido di quella mattina.
La stanza di lord Jamie era la più grande dopo quelle del re e della regina di Auringon. In realtà quella stanza, con vista sui curati giardini reali, spettava al principe Will, ma sua altezza reale l'aveva perduta in una divertente sera-ta di gioco. Jamie era sempre stato più acuto del cugino, più scaltro quando si trattava di locande e bevute. Di inganni e insidie di corte.
«Vostro padre dovrebbe prendersi più cura di voi, allora. E non dovrebbe permettervi di trascorrere così tanto tempo nelle mie stanze. E poi, da quando vi danno fastidio i pettegolezzi di corte?» la sua voce non faceva trasudare alcuna emozione. Lord Jamie era in piedi, accanto alla fine-stra e ammirava i giochi d'acqua delle fontane con sguardo annoiato.
«Da mai, milord. Anzi, sapete bene quanto ami essere fonte di discussione nelle allegre conversazioni delle dame di corte, ma mio padre spera ancora che un giorno mi chiederete di sposarvi» la famiglia di lady Blair possedeva molte terre nella vicina regione di Daelas, ma suo padre aveva contratto molti debiti a causa della sua debolezza per il vino e per i salotti di nobili poco rispettabili. Ma continuava a sperare che l'amicizia tra la sua primogenita e il ricchissimo lord Jamie potesse risolvere tutti i problemi.
Jamie rise. «Sapete meglio di chiunque altro che ho smesso di credere nell'amore tanto tempo fa».
Lady Blair lo raggiunse, i capelli scuri erano sciolti e le ricadevano oltre le spalle, sulla leggera sottoveste che portava. «Voi fingete, mio caro amico. La vita è troppo breve per donare il cuore ad una sola persona».
Un tempo lo credeva anche lui. Pensava che l'amore fosse passeggero e servisse solo per assecondare gli animi e placare gli istinti. Viveva per il divertimento, amava confondere le giovani donne con le sue false lusinghe. Fu in quel modo che incontrò lady Blair Knightfell.
La corteggiò per molto tempo, la portava a fare lunghe passeggiate, le scriveva lettere passionali. Ma nessuna delle parole che usava era vera e sincera. Credeva di averle fatto perdere la testa, di avere il suo cuore tra le mani, ma in realtà Blair era esattamente come lui. Manipolatrice, subdola ed egoista. Ma era anche incredibilmente fedele e leale.
Diventarono amici, cominciarono a confidarsi i propri segreti e si resero conto di essere anime affini. La loro era un'unione di menti, una relazione quasi spirituale, occasionalmente anche fisica ma restava sempre un'illusione. Niente che avrebbe potuto concretizzarsi nella realtà.
Ma mentre Blair era rimasta sempre la stessa, un'anima libera e svincolata da qualsiasi forma di catene, la donna che illudeva i cuori di chiunque si affezionasse a lei per puro divertimento, che amava senza etichette e poi tradiva senza rimpianti, Jamie era cambiato profondamente. Aveva perso tutto quando aveva perso lei. Aveva commesso il terribile errore di innamorarsi, di donare a un'altra persona anima e corpo. E poi lei lo aveva abbandonato. Aveva scelto un altro. E, come se la sua sofferenza non fosse già sufficiente, l'aveva persa. Gli dèi avevano reclamato la sua dolce anima.
«Non potete smettere di amare perché lei vi ha...» lady Blair non voleva continuare, sapeva quanto il suo amico fosse sensibile sull'argomento, ma non riusciva proprio a capire come una donna potesse condizionarlo fino a quel punto. Fino a farlo diventare impassibile di fronte ad ogni tipo di sentimento. Per lei l'amore era una conquista, non una gabbia.
«Adesso basta, Blair» gli occhi zaffiro di Jamie puntarono quelli scuri di Blair. Se non fosse abituata a quello sguardo tagliente, probabilmente ne avrebbe avuto paura. Ma Blair non era una ragazzina fragile e indifesa, non si sarebbe mai lasciata intimorire da un uomo.
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Will era nervoso. Camminava avanti e indietro lungo uno stretto corridoio. Aveva fatto riunire l'esercito – il suo esercito – nella grande radura nel lato sud del castello, dov'era solito allenarsi con sir Achille. Era giunto il momento di dare la notizia anche ai suoi fratelli d'arme, doveva iniziare ad addestrarli per l'imminente battaglia contro re Harald.
Nell'ultimo periodo molte fila si erano aggiunte all'ingente esercito di Auringon, e presto si sarebbero unite anche le truppe di Emergard. Ma a quell'esercito serviva un comandante, qualcuno che li guidasse saggiamente. E il destino aveva scelto Will.
«Sento il vostro cuore battere da qui, fratello» il principe Owen, il più piccolo ma anche il più testardo della dinastia Gylden, era languidamente appoggiato ad un pilastro, e guardava con aria divertita il fratello maggiore.
«Lascialo in pace, Owen. Nostra madre non ti aveva detto di andare nelle stalle e dare da mangiare ai cavalli?» Aileen fece la sua maestosa entrata, raggiante in un abito azzurro costellato di perle, accompagnata dalle sue dame.
«Ma non ha mai detto che devi essere la mia balia!»
«Se pensi che sia la tua balia, vuol dire che te ne serve davvero una» sorella e fratello amavano punzecchiarsi.
«Mi fa piacere sapere che stai bene, Aileen» disse Will quando Owen si era ormai allontanato sbuffando. Fu grato alla sorella per averlo mandato via, non voleva che assistesse al suo discorso.
«Nostro padre ha detto che hai convocato l'esercito, cos'è successo?» la voce della principessa era incerta, titubante. Sua madre non le permetteva di partecipare alle riunioni del Consiglio, dicendo che gli affari di Stato sarebbero stati troppo noiosi per lei, ma in realtà Aileen sapeva di essere in grado di gestirli. Voleva essere indipendente come Alis, avere il potere di prendere in mano la situazione e avere la facoltà di scegliere e agire.
Ma sapeva che il suo regno era ben protetto nelle mani del fratello.
«Oh, mia dolce sorellina. Vorrei proteggerti da tutto questo, ma io...» Will non riuscì a continuare la frase che venne interrotto da Achille, che intanto aveva raggiunto il fianco del principe senza produrre il minimo rumore.
«Altezze, perdonatemi. È ora».
Will rivolse un ultimo sguardo a sua sorella e seguì sir Achille.
Le legioni erano schiarate e le loro armature dorate ri-flettevano la luce del sole. Gli araldi portavano lo stemma della famiglia Gylden: un sole a cinque punte, da sempre il simbolo della fortezza e della prosperità di Auringon.
Il principe Will era di fronte ai suoi cavalieri, accanto a re Aeron e suo padre, che gli rivolse uno sguardo di comprensione. Will avrebbe voluto che quel compito toccasse al padre, al re. Ma Richard lo aveva guardato dritto negli oc-chi, gli aveva posato le mani sulle spalle e gli aveva detto che sarebbe stato forte, che sarebbe stato un buon re, persino migliore di lui.
«Vorrei tanto che Alis fosse qui con me. Lei saprebbe cosa dire» Will sussurrò alla spalla di sir Achille, in modo che nessun altro lo ascoltasse.
«Ma questo è il vostro esercito, altezza. Il popolo adora la vostra principessa almeno quanto voi, ma ricordate sempre che, prima di ogni altra cosa, i soldati morirebbero per il proprio comandante, per il proprio re e per il proprio regno».
Will, con la mano stretta attorno all'elsa della spada, respirò profondamente l'aria già calda.
«Miei cari amici, compagni e fratelli, vi starete chiedendo perché siete qui, in tempo di pace, schierati e nelle vostre armature scintillanti. Non voglio mentire a nessun di voi, non voglio illudere nessuno con parole superficiali. Il tempo di pace è finito, siamo in guerra».
L'esercito non si scompose, ma Will riusciva a leggere le espressioni turbate di coloro che occupavano le prime file, sapendo che tutti si stavano ponendo la medesima domanda.
«Un nemico antico almeno quanto la fondazione del nostro Continente si abbatte ora sul nostro regno e sul vicino Emergard. La principessa Alis ha fatto ritorno nelle sue terre, con l'augurio di ritornare qui con buone novelle che possano aiutarci a sconfiggerlo. Le storie che vi hanno raccontato da piccoli, le storie di un re malvagio che governa l'inospitale Nord, che siede paziente in attesa della sua vendetta, sono tutte vere. Re Harald non è una leggenda, ma il nostro nemico. E voi, noi, abbiamo il dovere di proteggere le nostre famiglie, le persone che amiamo e anche il nostro regno. Capisco che nessuno di voi ha mai combattuto un nemico tanto grande prima d'ora, io stesso ne ho timore, ma so anche che la paura mi dà la forza di lottare e contrastarlo. Ma non ho alcuna intenzione di assumere il titolo di tiranno, le battaglie non si vincono con le false promesse, ma con la lealtà e la fiducia. E per questo voglio essere il vostro comandante, il vostro leader, perché mi fido di ognuno di voi e perché so che noi, uniti, possiamo affrontare anche questa battaglia!» Will era a corto di fiato, ma vedere i suoi uomini carichi e incoraggiati dalle sue parole, gli fece perdere ogni preoccupazione.
I cavalieri urlavano, battevano con le spade sui pesanti scudi, riempiendo con quel clangore la radura del palazzo.
Un ragazzo ruppe le fila e venne avanti, il capo chino. Si inginocchiò di fronte al principe e sfilò l'elmo dalla testa, riponendolo ai suoi piedi.
«Altezza, sono certo di parlare a nome di tutto il vostro esercito. Siamo onorati della fiducia nei nostri confronti, e noi riponiamo la nostra in voi, e nella principessa Alis. Combatteremo per le nostre famiglie, per le persone che amiamo, per il nostro re, per voi e per il regno».
«Alzatevi. Qual è il vostro nome?» Will tentò di nascondere la commozione e restare regale, porse la sua mano al prode cavaliere.
«Evander Goldsand, mio signore» si alzò piano, rivelando un viso dai lineamenti giovanili. Probabilmente aveva l'età di sua sorella, pensò Will. Così giovane e già così coraggioso.
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Dopo diverse ore, l'esercito si era congedato e la radura era stata sgomberata dai vessilli e dalle fiammeggianti bandiere del regno, ma il principe aveva chiesto a Evander di restare e partecipare alla cena che si sarebbe tenuta quella sera in onore del ritorno della principessa Alis, sperando che portasse con sé buone notizie. E il giovane aveva accettato l'invito del suo principe.
In qualche modo, Will vedeva in Evander la stessa tenacia che aveva lui alla sua età, quando era convinto di avere il mondo nelle proprie mani.
«Da dove venite, cavaliere?» Will raggiunse il ragazzo nella sala del Consiglio, si avvicinò al tavolo ruvido e versò due bicchieri di vino.
«Solkas, altezza. Vostro cugino, lord Jamie, mi ha reclutato. E non sono un cavaliere, ma spero di poterlo diventare, un giorno. La mia famiglia possiede solo una fattoria».
«Mio cugino deve aver visto qualcosa di speciale in voi.» la voce del principe si fece più profonda, come se cercasse di capire quale talento, in quel ragazzo, avesse sconvolto tanto l'animo di Jamie al punto da reclutare un semplice contadino.
«Spero di non deludervi, altezza» Evander chinò il capo per pochi secondi e quando tornò a guardare il principe, Will gli rivolse un sorriso, porgendogli il lungo calice.
«Prima non lo avete fatto».
Evander doveva essere una persona molto curiosa, Will lo guardava voltare gli occhi da una parte all'altra della sala. Più volte la sua attenzione si era soffermata sulle due spade incrociate, inchiodate al muro roccioso, sopra il camino spento.
«Quelle sono le armi del Primo Re di Auringon, re Charles Gylden» disse Will, fiero di conoscere l'incredibile storia di colui che aveva dato vita alla sua dinastia. Suo padre gli aveva raccontato tutto su di lui e di quanto fosse amato dal popolo.
«Conosco bene la minaccia di cui avete parlato, altezza» disse ad un certo punto il ragazzo, dopo minuti di silenzio.
Will si voltò a guardarlo, aveva ora lo sguardo spento e il volto attraversato da una strana oscurità.
«Le ombre di re Harald hanno attaccato il mio villaggio, a ridosso della costa di Solkas» disse lui senza espressione.
«Le avete combattute?»
«Ci ho provato. Alla fine hanno visto... qualcosa e se ne sono andate» rivelò Evander.
«Quanti anni avete?» Will cambiò discorso. La battaglia era imminente, ma avevano ancora del tempo per pensare ad altro.
«Sedici, altezza» Evander tornò dal principe. Si era costretto ad assumere un'espressione diversa, Will riusciva a notarlo.
«Siete molto coraggioso, per essere così giovane e per aver affrontato ciò che avete affrontato. Anche prima, siete stato il più coraggioso degli uomini».
«Ho fatto solo quello che andava fatto. Ho avuto modo di parlare con molti dei vostri cavalieri e sono tutti pienamente fiduciosi che farete la cosa giusta. E lo sono anch'io».
Will avrebbe voluto rispondergli, ma una preoccupata Aileen entrò nella stanza, senza bussare. Aveva il volto pallido, le vene azzurrine che risplendevano sotto la pelle.
«Will, posso parlarti?»
Il principe si scusò frettolosamente con il giovane e raggiunse la sorella sull'uscio della porta.
«Come sarebbe che siamo in guerra?» la sua voce era bassa e tremante, come se cercasse di trattenere le lacrime. Will le appoggiò le mani sulle spalle, cercando di infonderle coraggio. Era così esile, così fragile. Eppure, Will lo sapeva, dentro di lei si nascondeva il cuore di un leone.
«Aileen, non devi preoccuparti. Andrà tutto bene».
«Ho paura, Will...» i due si strinsero in un abbraccio e le mani del principe si posarono sulla schiena della principessa disegnandole piccoli cerchi, come facevano quando erano piccoli.
«Ho paura per te, fratello» rivelò Aileen tra i singhiozzi, a fil di voce.
«Anch'io starò bene, non preoccuparti» Will pensò che la vita era stata troppo crudele per la sua sorellina. Era cresciuta lontana dal mondo e, per continuare a vivere, doveva combattere ogni giorno e molto più di chiunque altro.
Voleva proteggerla da ogni tipo di affanno e dalla sofferenza, ma purtroppo nessuno era immune al dolore, e questo Aileen sembrava saperlo molto meglio del fratello.
«Quello che ti serve ora è una distrazione, dolce sorella. Perché non fai vedere al nostro ospite il castello, mentre io andrò al porto ad aspettare il ritorno di Alis?» il principe asciugò le guance umide della fanciulla e lei annuì debolmente.
Mentre si allontanava, Will non poteva far altro che pensare alla rabbia che provava in quel momento. Pensava al giovane Evander che aveva abbandonato tutto per seguire un sogno, alla sua sorellina, caparbia e altruista, ad Alis che l'aveva lasciato per seguire indizi inesistenti. Pensava al suo popolo.
Quante persone innocenti avrebbero sofferto per via di quella guerra?
Quanti amici avrebbe perso sul campo di battaglia?
Quanto ferito ne sarebbe uscito lui?
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Le acque del mare erano più scure del solito, non c'era la luna ad illuminarle e persino le stelle sembravano essersi spente. Will guardava l'orizzonte e non vedeva altro che buio, temeva che il viaggio della principessa potesse rivelarsi pericoloso, che le navi dalle vele nere dei pirati avrebbero potuto aggredirla, com'era accaduto a lui.
Sarebbe dovuto andare con lei. Avrebbe dovuto proteggerla.
Ma presto una luce rischiarò le tenebre nella sua mente e dalla nebbia emerse la nave che portava i vessilli della sua famiglia e di Emergard. La principessa era tornata e il cuore di Will divenne più leggero. Vide scendere una piccola scorta di soldati, una fanciulla dai capelli dorati. E poi finalmente vide la sua principessa. Dopo un tempo che gli parve infinito trascorso in viaggio, la sua mancanza si era fatta sentire e il principe non era stato l'unico a soffrirne. Anche il popolo sperava che la sua principessa tornasse incolume e con le risposte che cercava.
«Siete qui!» la voce di Alis era raggiante, più luminosa delle stelle vagabonde di quella notte.
«Ve lo avevo promesso» il corpo del principe fu attratto come una calamita a quello di Alis. La prese per la vita, facendola volteggiare nell'aria salmastra del porto.
Poi, gli occhi zaffiro di Will incontrarono quelli profondi di Alis.
«Cos'avete scoperto?»
«So cosa dobbiamo fare, ma non vi piacerà, Will. E non piacerà neanche a vostro padre».
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Il cielo era scuro e minacciava morte sulle terre di Iskalgard. La spiaggia nera dell'isola vibrava, come se sotto di essa le viscere della terra si stessero risvegliando. Un'ombra guardava dall'alto il mare oscuro che si infrangeva sugli scogli. Il vento soffiava forte, ma a lui non importava. Quasi non lo sentiva. Re Harald ammirava sotto di sé, ai piedi della Fortezza Nera, un esercito immobile. Il soffio impetuoso del vento gonfiava gli stracci neri che portavano i soldati, ma non c'era alcun turbamento nei loro visi. Alcuna reazione. Alcun segno di vita. Soltanto le stelle riflettevano la loro luce tremula sulle armature nere, risplendendo su di esse come nel firmamento.
Harald li aveva sentiti destarsi dal loro sonno. Aveva sentito la magia confluire nelle vene e poi i soldati chiamarlo. Non erano voci umane, non lo erano più da tempo. Ma il re del Nord aveva sentito il fruscio degli alberi, l'incresparsi del mare, e aveva capito che anche i suoi soldati erano tornati. E lui li controllava tutti.
Uomini che, troppo tempo prima per ricordare com'era la vita umana, gli avevano consegnato le loro anime per permettergli di attingere da esse e condurre una guerra contro i suoi nemici. Harald aveva consumato ogni grammo di quelle vite e l'odio che provava le aveva prosciugate interamente, rafforzando la sua magia.
E quando l'ultimo soldato si era consegnato al re del Nord, Harald aveva sentito la magia esplodergli nelle viscere, una potenza così forte che, per la prima volta, capì cosa volesse dire essere un dio.
Ma il suo esercito non era scomparso, gli uomini non erano morti: non avevano sacrificato la loro vita per la grandezza del Demone. Semplicemente, erano cambiati.
I corpi si erano ridotti a pochi strati di pelle pallida e grigiastra e ossa appuntite, gli occhi erano diventate profonde cavità nere e ogni barlume di vita era scomparso per sempre. Erano diventati ombre e come tali si aggiravano per Iskalgard. Potevano essere uccisi da una qualunque lama, ma erano instancabili, inflessibili. Non c'era alcuna paura a paralizzarli, alcun timore che li facesse vacillare.
Erano stati creati per uccidere e rispondevano solo agli ordini del loro padrone.
Re Harald si era beato delle grida dei contadini quando aveva lasciato il suo esercito di ombre seminare la distruzione nel villaggio a sud della Grande Muraglia. Avevano bruciato ogni cosa, e al loro passaggio avevano disseminato polvere e cenere. E re Harald aveva riso quando le fiamme dell'incendio avevano raggiunto il cielo, sicuro che gli dèi lo stavano guardando, anch'essi spaventati.
E, ora, guardava le sue ombre immobili e attendeva il momento in cui il fuoco sarebbe divampato ancora, bruciando l'intero Continente.
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eccoci alla fine di questo altro capitolo!!
Che ne pensate di Evander? ❄️
se posso darvi qualche spoiler, é mooolto più importante di quanto sembra e, se siete stati attenti, avrete già capito qualcosina 👀🪽
se vi va, commentate e lasciate una stellina! ☆☆☆
vi voglio bene,
aphrodite
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