IV. I Giochi Solari
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La Smeraldo navigava ormai da giorni e il principe Will, che comunque amava la sua nave, era stanco di vedere soltanto il mare all'orizzonte e ascoltare i noiosi discorsi del suo equipaggiamento che, per l'appunto, erano incentrati sul mare, sulla pesca e sul commercio.
Giurò che la prima cosa che avrebbe fatto una volta toccata la terraferma sarebbe stato offrire a quegli uomini una buona birra e una gradevole compagnia, così almeno per il prossimo viaggio avrebbero avuto qualcosa di più piacevole di cui parlare.
Will ripensava continuamente alla notte precedente, quando la nave era stata attaccata dall'atroce tempesta: il ponte pullulava di marinai non abituati e non addestrati per un evento simile, che gridavano preghiere sconnesse agli dèi.
Quella doveva essere una missione semplice.
Will avrebbe dovuto soltanto ristabilire l'ordine nei commerci del padre, perennemente intaccati dalla minaccia dei pirati. Depredavano la flotta reale continuamente, prima che il carico potesse giungere a Emergard: ormai erano diventati una piaga da estirpare e re Richard aveva mandato Will ad occuparsene. Di fatto, era riuscito a portare a termine l'ordine che gli era stato affidato e un gruppo considerevole di pirati marciva nella prigione della Smeraldo.
Almeno, finchè non si era abbattuta la tempesta: quella fu la prima occasione in cui il principe Will dovette fare una scelta difficile, misurando il suo valore come futuro sovrano.
Quella notte, infatti, il ponte era pieno di marinai che temevano per la loro vita e credevano che gli dèi avessero decretato il giorno della loro morte, ma il principe non poteva permetterlo. Doveva salvare quelle persone anche a costo di scendere a patti con i suoi nemici.
Fu una decisione non condivisa dalla ciurma quella di affidare il timone al capitano della Danger, un pirata che era nel mirino della Corona già da diverso tempo e che Will era riuscito a catturare. Il principe però sapeva che quello era l'unico modo per tornare a casa, per permettere ai suoi compagni di vedere la luce di una nuova alba.
I pirati, per quanto sudici e a volte spaventosi, erano marinai eccezionali e potevano vantare doti che molti, ad Auringon, potevano solo immaginare. Persino il principe. E per fortuna la fiducia in quell'uomo si rivelò fondata. Il capitano riuscì a portare in salvo la Smeraldo e tutti i suoi passeggeri, facendoli uscire dall'occhio del ciclone, ma non senza chiedere un favore in cambio.
Will fu costretto a lasciarlo andare insieme a tutta la sua ciurma, almeno per quella volta.
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Il sole ad Auringon era già alto e illuminava le leggere lenzuola del letto quando la principessa Alis fu svegliata da un boato. Mise pochi secondi per ricordare dove si trovasse: il sogno che aveva appena abbandonato era di certo migliore della realtà. Nella sua mente Killian era ancora accanto a lei, a cingerla con le sue possenti braccia e facendola sentire al sicuro.
La ragazza si portò la mano al collo e la posò sul medaglione dorato che portava; erano passati soltanto pochi giorni dall'ultima volta che aveva visto Killian, e ogni volta trascorrevano giorni e notti prima che i due potessero di nuovo incontrarsi per potersi amare alla luce della luna, nascosti da tutto e tutti. Ma adesso sarebbe stato diverso, Alis riusciva a sentirlo nel profondo del suo cuore.
Un secondo forte boato costrinse la fanciulla ad abbandonare i suoi pensieri e ad alzarsi dal letto. Elinor, la gentile domestica che il giorno prima aveva aiutato la principessa a vestirsi per la festa, era già vigile e stava sistemando sulla poltrona vellutata un vestito dai toni caldi, perfetto per il clima della sua nuova casa. Appena si accorse che la principessa era in piedi, le rivolse un inchino.
«Buongiorno, altezza. Spero abbiate riposato bene».
«Magnificamente, Elinor» la giovane fece una pausa prima di chiedere quello che davvero voleva sapere «Da dove viene tutto questo rumore?»
«Non dovrei dirvelo, principessa. Oggi si apriranno i Giochi Solari e voi non dovete pensare ad altro se non a divertirvi» a quel punto la curiosità di Alis aveva raggiunto le stelle. Non avrebbe mosso neanche un passo se la dolce Elinor non le avesse raccontato tutto.
«E va bene, altezza» si arrese la donna. «La scorsa notte ho lasciato il palazzo per andare ad accudire mia madre e, giù al paese, ho sentito alcune voci: le guardie del re hanno coraggiosamente arrestato alcuni banditi che tentavano di oltrepassare le mura del castello e violarne le difese. La sentenza di morte si concluderà oggi prima dell'inizio dei Giochi con l'uccisione di quei pirati» la voce della domestica si abbassò quando pronunciò l'ultima parola, come se ne provasse timore al solo pensiero.
Ma in quel momento era Alis ad essere terrorizzata. Le tornarono alla mente le parole di Killian, il suo sguardo deciso quando le aveva detto che avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di vederla ancora.
Il capitano era solito intrufolarsi all'interno delle mura del regno – quando la principessa era a Emergard lo faceva di continuo ogni volta che la nave attraccava al porto della città –, per questo la sola possibilità che avesse provato a entrare nelle mura di palazzo Gylden le fermarono il cuore. Doveva trovare un modo per lasciare la fortezza e vedere con i suoi occhi le facce dei banditi e assicurarsi che nessuna appartenesse a Killian.
«Non allarmatevi, altezza. Sono accadimenti che avvengono di continuo, specialmente in prossimità dell'apertura dei Giochi. Molti desiderano semplicemente parteciparvi» disse Elinor notando il pallore sul viso della principessa.
Ma Alis non la stava ascoltando.
«Avete detto che siete andata da vostra madre la notte scorsa: è malata?»
«Si, altezza. Ha la febbre da giorni ormai».
«E perché siete ancora qui? Andate da lei, io saprò cavarmela».
«Non potrei, principessa» la donna aveva quasi le lacrime agli occhi, commossa dalla gentilezza di Alis, ma anche consapevole che non avrebbe dovuto abbandonare il suo lavoro.
«Allora prendetelo come un ordine. Presto sarò la regina di questo regno e il mio primo dovere sarà quello di proteggere il popolo e dare le dovute cure alle persone come vostra madre», la voce della principessa si era fatta più autoritaria, ma aveva conservato allo stesso tempo il tono gentile e premuroso.
«Vi ringrazio, altezza» la domestica non aveva altre parole da aggiungere, ma rivolse alla principessa il sorriso più riconoscente che avesse e un inchino, prima di lasciare la sua stanza.
Alis sapeva che se qualcuno avesse scoperto della sua fuga in un momento importante come quello, ci sarebbero state non poche complicanze. Ma per la prima volta, mentre si dirigeva verso il centro del paese, pregava sinceramente gli dèi affinché non la giudicassero troppo avventata e la proteggessero.
Pregava affinché nessuno la vedesse uscire da palazzo e nessuno la riconoscesse una volta giunta al luogo dell'esecuzione, ma soprattutto pregava che tra quei banditi non ci fosse il suo Killian.
La piazza centrale di Atlas era un formicaio di gente che si accalcava davanti all'impalcatura in legno dove sarebbero stati giustiziati i pirati: lunghe corde pendevano dalla struttura e ognuna di esse terminava in possenti cappi che avrebbero tolto la vita a quegli uomini.
«Buon popolo di Atlas!» un imponente uomo con l'armatura dorata si assicurò l'attenzione della gente, che immediatamente si zittì.
«Anche in questo giorno glorioso gli dèi ci hanno messi alla prova, per ricordarci che il male dimora sempre accanto a noi e spronarci ad estirpare questa pianta malata» il generale dell'esercito reale fece una pausa, nella quale gli schiamazzi della gente si fecero più alti.
«La scorsa notte, questi nemici della nostra amata patria hanno provato a distruggere le difese del nostro regno, per entrare a palazzo e depredarlo di tutti i suoi beni. Ma noi, umili sudditi della Corona siamo riusciti a fermarli!» una nuova ondata di acclamazioni inondò le orecchie del generale, che si godette per un attimo quel momento di gloria.
Poi, il momento tanto temuto dalla principessa si materializzò davanti ai suoi occhi: il boia, custode silenzioso della morte, salì sul piccolo palco in legno e il generale chiamò i condannati, inaugurando una nuova serie di esultazioni. I banditi avevano addosso pochi stracci e un panno nero che ne copriva i volti. La tensione del pubblico salì alle stelle, le loro urla chiedevano di essere placate con la morte degli uomini. Ma il cuore della principessa cominciò a battere più forte e sentirsi stretto attorno a quel cappio, quando il boia strinse la corda attorno al collo dei pirati.
I tamburi cominciarono a suonare, ad accompagnare i condannati verso l'oscuro braccio della morte. E il pubblico, che sembrava assistere a una commedia piuttosto che a un'esecuzione, continuava a gridare ed esultare.
Poi il generale, con sguardo fiero e privo di ogni scrupolo, tolse il pesante panno dal volto dei condannati, rivelando le identità e tutte quante le loro sofferenze. Quell'atroce scena si ripeté per sei volte, tante quante erano i poveri malcapitati. Il cappio fu ben stretto intorno al collo, ma nessun pirata aveva il volto di Killian. Una magra soddisfazione per la principessa, che comunque dovette assistere a quell'orrore, a quella morte cruenta e dolorosa.
Su incitazione del popolo il generale diede il segnale, decretando con un gesto della mano la morte degli uomini.
Fu questione di un attimo, di un solo secondo e quei corpi, prima pieni di vita, si ritrovarono a combattere per un ultimo respiro.
I piedi e le mani legati tentavano di sfuggire a quel destino, le bocche tentavano di pronunciare un'ultima parola e gli sguardi erano soffocati e repressi dalla morte.
La principessa fu percorsa da un brivido, l'orrore e la paura si erano impossessate della sua mente e del suo esile corpo tanto che non si accorse nemmeno di starsi allontanando dal luogo del delitto.
Quando Alis si calmò e prese di nuovo conoscenza, la gente si era già allontanata ed era tornata ai suoi compiti giornalieri. La piazza si era svuotata, ma i corpi ormai inermi dei pirati continuavano a restare lì, al centro dello spazio come monito per chiunque avesse osato sfidare la potenza e l'autorità della famiglia reale.
Ma le emozioni forti, per quella mattina, non erano ancora finite. Presa da una sensazione di smarrimento, la principessa non si era nemmeno resa conto che le sue gambe avevano camminato fino al tendone nero, protagonista dei suoi pensieri e dei suoi incubi nel giorno e nella notte precedenti.
Alis non sapeva cosa ci fosse all'interno di quel capannone che sembrava invisibile agli occhi degli altri abitanti e, in fondo, una parte di lei le stava urlando di tornare a palazzo. Ma Alis non sarebbe mai scappata di fronte al pericolo, l'avrebbe affrontato a testa alta.
E così, fece affidamento sul suo coraggio e il suo corpo venne risucchiato all'interno del tendone scuro.
La fanciulla sbatté le palpebre più e più volte, ma la realtà non poteva che essere quella che aveva davanti agli occhi: il capannone era vuoto, non vi era all'interno nulla e nessuno.
Ma dentro a quel piccolo spazio circolare si congelava e un vento glaciale soffiava impetuoso e faceva volteggiare nell'aria gelida i capelli corvini della principessa.
Una strana sensazione la investì, aveva freddo, come se si trovasse incastrata dentro a un lago ghiacciato e tremava dal terrore, ma non ne conosceva il motivo e quella, forse, era la paura peggiore.
Per la seconda volta le sue gambe la condussero lontana dal pericolo e il suo viso poté godere di nuovo della calda e accecante luce del sole, anche se dentro al cuore continuava a persistere quel brivido di freddo.
La mente di Alis si riempì di nuovi pensieri e nuove domande, tutte prive di risposta. Ma chissà per quale motivo, la principessa era sicura che presto avrebbe capito ogni cosa, presto tutto le sarebbe apparso limpido e chiaro.
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L'aria che si respirava dentro le mura del castello era intrisa di pura gioia. Il momento in cui i Giochi Solari avrebbero avuto inizio era sempre più vicino e il mezzogiorno si stava avvicinando, aumentando l'euforia dei cavalieri, ma soprattutto dei nobili, che non vedevano l'ora di esporre pubblicamente le loro abilità.
Sebastian Lancaster era trepidante e il suo animo pieno di adrenalina. Non vedeva l'ora di riversarla sul campo di battaglia: il primo gioco, per quella giornata, era la gara di caccia.
Alle prime luci dell'alba il sovrano di Auringon aveva dato l'ordine di liberare nel bosco a ovest del palazzo una feroce fiera, un lupo bianco che mai era stato domato: la gara consisteva nel ritrovare quell'animale, ucciderlo e riportarlo al castello.
«Cercate di non rimanere ferito, caro fratello» la principessa Alis era ritornata a palazzo prima che la campana annunciasse l'inizio dei Giochi. Si era lasciata alle spalle le brutte esperienze vissute giù al paese e adesso aveva in mente un solo pensiero: i Giochi Solari.
«Sento che quest'anno la nostra famiglia vincerà» rispose il principe.
«Ascoltatemi, fratello. Vincere la gara di caccia sarà per noi impossibile. Lord Jamie e i suoi uomini sono cresciuti a palazzo, conoscono molto meglio i boschi e le trappole. È stupido, da parte nostra, combattere per qualcosa che non potremo mai ottenere. Rischieremo soltanto di perdere energie» Alis fece una pausa prima di continuare a esporre il suo piano. «Fidatevi di me. Lasciateli vincere, oggi. Daremo l'impressione di esserci impegnati, ma domani saranno molto più stanchi e noi carichi per affrontare la nuova sfida».
«Mi fido sempre di voi. Credo che il vostro piano sia geniale» negli occhi di Sebastian brillò una nuova luce e Alis si congratulò con se stessa per aver impedito al fratello di imbattersi in una sfida al di sopra della sue capacità. Proteggerlo era un compito arduo, dal momento che Sebastian sosteneva a gran voce di essere il maggiore e che doveva essere lui a proteggerla.
«Quest'oggi io, re Richard Gylden, al cospetto degli dèi e degli amici che ci hanno raggiunto in questo giorno lieto per il nostro popolo, dichiaro aperti i Giochi Solari!» la voce del re risuonò in tutta la foresta, accompagnata dal ticchettio che producevano le spade dei guerrieri a contatto con gli scudi metallici.
«Con immenso onore vi presento i partecipanti di questa edizione: in assenza di mio figlio, mio nipote, lord Jamie, sarà a capo degli uomini della casata Gylden di Auringon in questa gara di caccia, accompagnato da mia figlia, la principessa Aileen!» un coro di entusiasmo si diffuse tra i soldati dalle armature dorate quando i due nobili fecero la loro comparsa al fianco del re.
«E con altrettanto piacere vi presento i figli del qui presente re Aeron, il principe Sebastian e la giovane principessa Alis, che invece guideranno i soldati della casata Lancaster di Emergard» i loro uomini, vestiti di un'imponente armatura argentata, rinacquero allo sguardo della principessa che infuse loro coraggio e determinazione.
Altri nobili e altre casate furono presentate dal sovrano, ma gli occhi di Alis si persero nella radura circostante, negli alti alberi.
Al segnale del re gli schieramenti partirono guidati dai membri delle casate. L'evento più importante del regno aveva appena avuto inizio: quella doveva essere una gara che metteva a dura prova la forza dei suoi giocatori, soltanto chi aveva una grande conoscenza del luogo e una forza tale da sconfiggere il lupo bianco poteva aggiudicarsi la vittoria.
Ma i due nobili di casa Lancaster avevano un'altra dote da non sottovalutare: l'astuzia. Sotto consiglio della principessa, infatti, i loro uomini avrebbero fatto il minimo indispensabile per non saltare agli occhi dei nemici e avrebbero lasciato che vincessero, che si aggiudicassero la vittoria pensando di avere avversari deboli. In fondo la sorpresa era il miglior piano di attacco.
La principessa trascorse quelle ore in pace e beatitudine, cullandosi con il canto degli uccelli e il fruscio delle foglie che venivano calpestate dal cavallo. Nessun pensiero che non fosse rivolto ai Giochi turbava la sua mente.
Non che le importasse particolarmente vincere, ma almeno quello era l'unico modo per tenersi occupata e non lasciar che i suoi pensieri scivolassero altrove.
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Un piccolo villaggio a Solkas, a diverse ore di cammino dalla capitale del regno di Auringon, subiva il più crudele dei destini.
Un ragazzo, Evander Goldsand, si svegliò con il panico inciso in ogni fibra del corpo dopo che le urla ripetute della madre gli avevano intimato di aprire gli occhi. Ormai da settimane il padre richiedeva il suo aiuto con la piccola fattoria che possedevano e ogni giorno, al calar del sole, Evander si ritirava a casa stanco e con tutti i muscoli doloranti per lo sforzo e dormiva profondamente per recuperare le energie. Oppure, forse, erano gli incubi a tenerlo incatenato al sonno.
Sognava lande sperdute, un vuoto glaciale che si estendeva ovunque davanti a lui, la sensazione di essersi smarrito e il panico di non riuscire a trovare la via del ritorno.
Quando quella notte riaprì gli occhi, sentì soprattutto la puzza di fumo e, ai margini del suo campo visivo, vide qualcosa che bruciava in lontananza. Sua sorella Nimue era già in piedi, le pieghe all'abito che indossava e i capelli arruffati. Teneva per mano i loro fratellini, che piangevano e si dimenavano. Il padre, una folle lucidità negli occhi, ordinò a tutti di uscire.
La loro casa – che non comprendeva molto oltre ad una piccola sala dove si riunivano tutti a mangiare, la stanza dei genitori e un soppalco costruito con assi di legno e coperte dove dormivano Nimue e i fratelli più piccoli (mentre Evander occupava la piccola e stretta brandina accanto al fuoco) – era stata costruita dal padre tagliando gli alberi della foresta e non avrebbe mai resistito se il fuoco si fosse spinto fino alla dimora.
Evander fu l'ultimo a uscire, recuperando la spada che teneva accuratamente coperta da un vecchio lenzuolo nella cesta degli attrezzi appoggiata alla porta. Evander era affezionato alla sua spada, che aveva ripagato dopo interi mesi di lavoro prestando servizio presso il fabbro del piccolo villaggio.
Suo padre ne era rimasto affascinato, fiero che il giovane figlio avesse ambizioni ben più elevate delle sue e che sognasse di andar via di casa e intraprendere la carriera del cavaliere del regno; sua madre, invece, benché con lo scintillio dell'orgoglio negli occhi, si era rifiutata categoricamente di far entrare un'arma in casa propria, dove i figli più piccoli avrebbero potuto ferirsi credendola un gioco.
La gente era tutta riversata sul piccolo incrocio e urlava terrorizzata. Alcuni puntavano il dito verso l'alto, dove alberi e case bruciavano sopra la collina ai margini del villaggio. Evander seguì con la coda dell'occhio il punto indicato, ma non vedeva altro che fiamme.
Fiamme che molto velocemente si alzavano verso il cielo notturno e minacciavano di distruggere tutto.
Poi, quando gli occhi del giovane si abituarono allo scenario, vide qualcuno. Qualcosa che si aggirava per le strade. Sembravano uomini ricoperti dalla testa ai piedi di oscurità, le vesti leggere si allargavano al soffio del vento bollente.
Evander vide alcune persone gridare contro quegli strani uomini, ma nessuno di questi si voltò, neanche sembravano averli sentiti. Per questo, quando gli abitanti del villaggio marciarono loro contro con qualunque arma si fossero trovati per le mani, Evander li seguì stringendo l'elsa della sua spada.
«Dobbiamo raggiungere la costa!» Nimue afferrò la manica del fratello, strattonandolo dalla parte opposta. Lei aveva due anni più di Evander, era sempre stata molto protettiva nei suoi confronti, e lui la amava per questo.
«Devo fare qualcosa, non possiamo semplicemente abbandonare le nostre case» le rispose lui, il corpo elettrizzato dall'adrenalina.
Il padre, che lo aveva visto impugnare la spada, si avvicinò per trascinare lontano la figlia. «Andiamo, tesoro.»
«Ma padre...» protestò lei, aveva le guance arrossate dal calore delle fiamme e gli occhi velati di lacrime.
«Evander ha fatto la sua scelta, ed è una scelta onorevole» anche l'uomo aveva gli occhi scintillanti e umidi. «Ci raggiungerà insieme agli altri, quando le nostre case saranno al sicuro e le fiamme domate.»
«Grazie padre» riuscì soltanto a dire, prima di voltarsi e correre nella mischia di una piccola battaglia.
Evander non aveva mai ucciso nessuno, né tantomeno partecipato a una rissa. Si era esercitato con la spada, ma non aveva mai davvero avuto la necessità di usarla. Fino a quel momento.
Quando raggiunse gli altri uomini, erano terrorizzati: alcuni portavano avanti e indietro grossi secchi di acqua sperando di spegnere le fiamme e arginare l'incendio. Altri combattevano con le creature vestite di nero. Quando il ragazzo si avvicinò abbastanza da riuscirle a vedere, rimase quasi paralizzato.
Non erano uomini.
Ne avevano l'aspetto, con un viso e un corpo, ma non c'era nulla di umano in loro: gli occhi erano ridotti a cavità nere e profonde, le labbra a una linea sottile ricoperta di terra e sangue, la pelle smorta sembrava quasi appiccicata alle ossa sporgenti. Si muovevano sinuosi come ombre della notte, come se il loro unico comando fosse uccidere.
Evander si costrinse a scacciar via la paura dal suo corpo: quelli erano nemici veri che avevano attaccato il suo villaggio e lui era rimasto lì a difenderlo o, almeno, a dare agli altri la possibilità di fuggire. Corse verso uno di quegli esseri, colpendolo alle spalle con la spada. La lama si schiantò contro qualcosa di duro, ma la creatura cadde ai suoi piedi.
Evander rimase per un secondo lì immobile, il petto che si alzava e abbassava velocemente, come se l'aria non riuscisse a entrargli nei polmoni. Aveva appena usato la sua spada per uccidere. Non era sicuro che la vittima fosse umana, ma questo non importava. Era comunque un assassino.
La gente intorno a lui, gli abitanti del villaggio, continuavano a urlare: nessuno di loro era addestrato militarmente e si proteggevano come meglio potevano.
«Il Male dimora in mezzo a noi! Oh dèi proteggeteci» gridava qualcuno.
Quelle urla riscossero Evander, che si lanciò nuovamente nella mischia. Gli occhi bruciavano e tossiva a causa del fumo, ma non poteva fermarsi. Ora di fronte a lui c'era un'altra creatura oscura. Questa si avvicinò cautamente, l'ascia a mezz'aria. Si fermò improvvisamente, come se qualcosa richiamasse la sua attenzione. Di riflesso anche Evander si immobilizzò, non sapendo cosa fare.
L'ombra lo guardava con la testa piegata e sibilava qualcosa. Il ragazzo non riusciva a capire cosa stesse dicendo, sentiva soltanto un ringhio che sembrava provenire dal più oscuro dei mondi e che gli attraversava tutto il corpo, lanciandogli fitte congelate nelle ossa. La creatura alzò una delle sue dita ossute, puntandola verso il giovane e continuando a ripetere la sua cantilena.
Evander fece per attaccare, stringendo la spada con un'intensità tale che le nocche erano diventate quasi bianche, ma la creatura si dissolse prima che potesse raggiungerla. Le altre si voltarono a guardarlo e, come attratte da qualcosa, forse da lui, la seguirono poco dopo, perdendosi nel fumo che ardeva sopra le case.
Evander non riusciva a capire cosa fosse appena accaduto, ma il modo in cui l'ombra lo aveva guardato gli rimase cucito addosso, facendogli gelare il sangue nelle vene.
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