9.2 • Avere paura
"When pain knocks on your door, welcome it.
Let it in. Sit with it. Have tea with it.
Understand it. Then let it leave"
Najwa Zebian
Song: Atlantis - Seafret
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Questo capitolo contiene, verso la fine (ve lo segnalerò con un simbolo rosso uguale a quello qui sopra esposto), riferimenti a violenza sessuale. Il seguente capitolo non è stato assolutamente scritto per moda o simili, ma come critica sociale e manifesto di quello che succede, e soprattutto come un evento simile può avere molteplici ripercussioni sulla vita delle vittime.
Non voglio approfondire il perché io abbia scelto di inserire un determinato passato nella vita di Ariadne, ma spero di essere riuscita nel mio intento.
Non è colpa vostra, non dice nulla di voi.
Non è assolutamente mia intenzione turbarvi, perciò vi consiglio di procedere nella lettura del capitolo con cautela e, eventualmente, io metterò nei commenti il riassunto (privo di scene esplicite) di quanto accade nei commenti. Siate gentili con voi stessx, saltate pure l'ultima parte se non ve la sentite, noi ci vediamo con il capitolo 10, nel caso🤍.
Amatevi, sempre, che li fuori c'è tanta gente che scambia la possessione per amore.
«Comunque», tentai mandando giù rumorosamente la saliva, «Come mai non ti fai curare da noi?»
«Da te mi sto facendo curare, la tua domanda è priva di senso», replicò guardando le fiamme nel camino.
Sembrava che il calore gli si stesse imprimendo negli occhi, formando delle figure danzanti, che si allontanavano e si riavvicinavano. Era un ballo disperato.
«Hai capito cosa intendo», dissi frizionando delicatamente le bruciature con un panno pulito, trascinando via particelle di sporco e qualche agglomerato di sangue.
Nathan non disse niente, quindi non provai ad insistere. Ero stanca, e noi non eravamo così in confidenza da poterlo costringere a parlare se non voleva. Sapevo qual era il mio posto.
Feci saltare il tappo anche ai contenitori con la lavanda e l'iperico, i cui fiori e foglie erano stati tritati, probabilmente con un mortaio. Li mischiai nel palmo della mano, dando vita ad uno strano colore tra il viola e il giallo, poi li spalmai sulle ferite di Nathan, sigillando il tutto con un ulteriore pezzo di stoffa.
«A posto», dissi trionfante. Non era come prima del Rituale, ma era la cosa che più ci si avvicinava, e me la feci bastare. «Forse ti si formerà qualche bolla, non schiacciarle per cortesia.»
«Come fai a conoscere tutte queste cose?», mi domandò lui osservando la mano fasciata come se fosse un miracolo.
«A volte qualche Silente passa da Brental», risposi, «e diciamo che... Beh, non sono molto propensi a farsi toccare dall'Idro.»
Alcune volte era fin troppo esplicita e pedante la paura che i Silenti provavano nei nostri confronti. Ormai vivevamo quasi in simbiosi, eppure continuavano a categorizzarci - cercando in vano di nasconderlo - come degli scherzi della natura. Per loro le Grandi Madri erano solo un'idea che avevamo inventato per passare il tempo, per credere che non fossimo marchiati dalla malvagità sin dalla nascita. Probabilmente avrebbero ricondotto a questa idea persino la mia voglia, un altro segno del mio essere impura.In cosa credessero loro, non mi era concesso saperlo: non ero mai stata così vicino a qualche Silente che volesse conversare con me di sua spontanea volontà; solo quando le mie conoscenze erano fondamentali alla loro sopravvivenza. «Vuoi che dia un occhio anche alla gamba? Ho visto che zoppichi», dissi pensando alle sue mani che si massaggiavano il ginocchio, quando ancora eravamo in mezzo al nulla.
«Sto... sta bene. Era solo il freddo», mi rispose abbozzando quella che - ne ero sicura - era una mera scusa.
Mi alzai spazzandomi via dalla gonna dei residui di lavanda, che si sparsero sul pavimento come centinaia di fiocchi di neve.
A Brental in inverno nevicava sempre moltissimo; l'unico posto in cui non riusciva ad attecchire era la Fontana della Grande Madre, in cui scorreva acqua perpetua.
Mi avvicinai alla pila di vestiti che ci avevano lasciato e presi una maglietta e dei pantaloni in pelle marrone, che sembravano essere della mia taglia, sperando che all'accademia mi avrebbero permesso di indossare le mie gonne.
«Grazie, Dani.» Era l'unico che mi chiamava in quel modo, ed era strano ma, almeno, era una cosa in meno che mi facesse pensare alla mia vecchia vita.
«Figurati», replicai sistemando sia i vestiti che le boccette tra le braccia.
«Vado a cercare Emma per restituirle le cose», continuai indicando con la punta del naso le fiale, iniziando a camminare cercando di non traballare.
«Vengo con te, tanto devo cercare il bagno.»
Annuii mentre varcavo la soglia della stanza, per ritrovarmi in mezzo ad un corridoio che si apriva sia a destra che a sinistra.
Verso quest'ultima direzione, alla fine dell'andito, c'era una porta dalla quale filtrava una luce.
«Penso che siano di là», ipotizzai.
Nathan concordò con me e iniziò a camminare, tenendo anche lui i vestiti fra le mani bendate. Sperai che il modo in cui le avevo legate, nonostante la poca stoffa a mia disposizione, reggesse.
Quando arrivammo alla porta, attraversando file di quadri e ammenicoli vari, alzai il braccio per bussare ma, prima che potessi farlo, la voce di Alastair mi arrivò alle orecchie profonda e autoritaria: «Quel ragazzo non è morto, lei l'ha portato via, dannazione.»
Sgranai gli occhi, mentre Nathan si appoggiava con l'orecchio alla porta, facendomi cenno di fare lo stesso.
Il legno mi accarezzò la pelle mentre Nathan mimava con la bocca screpolata: «Cosa vuol dire?»
Chiusi gli occhi e scossi la testa, per fargli capire che non ero sicura di cosa avessimo appena sentito.
«Non crederai che li abbia mandati lei, i sylkukkonen.»
Questa era Vivienne.
«Vivs, sai benissimo anche tu che può essere stata solo lei», le ripose Alastair alzandosi in piedi e spostando la sedia, che gracchiò contro il pavimento.
Da sotto lo lo stipite della porta venivano proiettate ombre di passi, che oscuravamo momentaneamente il corridoio in cui ci trovavamo. I miei occhi non fecero fatica ad abituarsi al cambio di luce, avendo passato tutta la notte al buio.
«Sai che ha ragione», disse la voce che ancora conoscevo poco, quella di Edan. «I sylkukkonen non si spingono mai così fuori dalla protezione delle foreste.»
Sentii all'improvviso un tonfo alle mie spalle e, girando la testa di scatto, una scheggia di legno mi graffiò l'orecchio. Trattenni un gridolino morendomi il labbro inferiore.
«Divertente?», chiese Else-Nora incrociando le braccia al petto.
Nathan provò a bofonchiare un: «Noi...», ma io gli pestai il piede prima che potesse dire una stupidata.
Mi allontanai dalla porta in punta di piedi, massaggiandomi l'orecchio tra i polpastrelli dell'indice e del pollice.
«Non volevo interrompere la vostra avventura da spie, ma sta salendo Emma», sussurrò la ragazza spostandosi dietro le orecchie i capelli, che però dal lato destro sfuggirono a questa costrizione, incorniciandole il viso spigoloso.
«Grazie», borbottai mentre cominciavano a sentirsi i passi della guaritrice sulle scale.
«Mi chiamo Nora, so che il mio nome completo è un po' una palla da dire.»
Annuii, ricordandomi come l'aveva chiamata Vivienne.
Presupposi che la ragazza dovesse già essersi cambiata, perché non portava più i vestiti sgargianti della notte precedente. Al loro posto, le gambe erano fasciate da degli stretti pantaloni neri, in netto contrasto con la canottiera grigia, sicuramente non della sua taglia, che le ricadeva morbida sulle spalle. Le braccia scoperte erano abbronzate e cosparse di lentiggini, vecchie cicatrici e lividi più freschi. «Sono Ariadne», mi presentai a bassa voce, tenendo le mani rigide lungo i lati della mia gonna, o quello che ne rimaneva.
Spostai lo sguardo verso il pavimento, dove i piedi di Nora, nascosti da delle pesanti calze di lana, erano saldamente ancorati alle assi di legno.
«Nathan», continuò le presentazioni il ragazzo dietro di me, alzando la mano bendata in segno di saluto.
«Che ci fate qui fuori?», domandò dalle spalle di Nora una flebile voce femminile.
Emma salì l'ultimo scalino guardandoci con circospezione, tenendo la mano ben salda sul corrimano di metallo. Aveva la pelle sporca di sangue rappreso.
«Cercavo il bagno per cambiarmi», risposi in fretta tentando di nascondere Nathan con il mio corpo, ciondolando per seguire i suoi spostamenti curiosi.
«E' in fondo al corridoio, dall'altra parte», disse con voce fredda, indicando perentoriamente la direzione che avrei dovuto prendere.
Emma mi prese le fiale dalle mani e sentii le sue mani ghiacciate rabbrividire al contatto con le mie.
Aspettò che ci dividessimo, guardando Nora e Nathan rientrare nella stanza a noi dedicata, e me dirigermi verso il bagno.
Il ragazzo mi lanciò un ultimo sguardo preoccupato, mentre Nora lo tirava delicatamente per la spalla.
Tenni la testa china, resistendo all'impulso di guardarmi dietro per vedere se la guaritrice mi stesse ancora osservando. I piedi combattevano per cambiare marcia, per tornare alla stanza in cui gli insegnanti stavano parlando, ma non volevo rischiare di scontrarmi con Emma.
La sua figura rigida e gli occhi penetranti erano impressi nella mia mente, mentre le parole di Alastair mi rimbombavano nella testa, cercando un significato. "Quel ragazzo non è morto, lei l'ha portato via, dannazione."
Chi era lei? Era la donna che avevo visto al limitare del bosco? Strinsi la presa sui vestiti, spiegazzandoli.
Non ero nemmeno sicura di quello che avevo visto, la mia era una supposizione stupida. La pioggia in quel momento mi aveva oscurato la vista, e il panico sicuramente aveva aumentato le mie fantasie.Improvvisamente, fu come se il pensiero che mi si stava formando nella testa facesse pulsare il marchio che mi era stato impresso sul collo. Era questo il suo significato.
Un ragazzo era stato rapito, non era morto, e a noi era stato assegnato un marchio come metodo di rintracciamento.
Lo sapevano, sapevano che era una possibilità, quella di perderci.
Aprii la porta del bagno con la spalla; cigolò spinta dal mio peso. La stanza era piccola, ma ben fornita: alla destra c'era un piccolo lavabo con il rubinetto in ottone, a sinistra una doccia e i sanitari. Guardai fuori dalla finestra appoggiando i vestiti sul davanzale. Delle piccole goccioline di brina stavano iniziando a formarsi sul vetro, riflettendo le prime luci dell'alba. Non avevo più fatto appello alla Grande Madre dell'Idro, ma sentivo forzare la sua controparte dell'Elettro per avere una comunicazione con me. Non mi credevo in grado, non sapevo come fare e forse, in parte, avevo paura anche solo di fare un tentativo. Aprii il rubinetto, sforzandolo. Era una cosa che, fino a pochi giorni prima, non ero abituata a fare. In casa nostra, papà non aveva fatto montare un sistema di pompe automatico. Era inutile. Potevamo benissimo farlo da soli, era semplice come respirare.
Dell'acqua lievemente tinta di arancione iniziò ad espandersi e riempire il lavabo bianco.
Mi tolsi sia la gonna che la camicia, consapevole del fatto che avrei dovuto buttarle o usarle per alimentare il fuoco. Erano piene di squarci e sporche del sangue della ragazza che avevo cercato di aiutare. Mi venne la nausea a pensarla stesa a terra, prima di vita, gli occhi vuoti che mi scrutavano privi di reazione. Afferrai un asciugamano che trovai impilato su una mensola e con mani tremanti lo bagnai con un po' d'acqua, spargendoci sopra anche il sapone. La saponetta rettangolare quasi mi scivolò dalle mani, ma emanava lo stesso profumo della mia Magia: rosmarino; era protettivo.
Da qui in poi vi rammento ciò che ho scritto all'inizio🤍
Non alzai lo sguardo per vedermi riflessa nuda nello specchio. Era una cosa che non riuscivo più a fare da tanto tempo, come quella di lavarmi sotto il getto potente della doccia, in un modo che mi rendeva troppo vulnerabile. Sapevo come ero fatta, ma da quel giorno, quando Loris aveva sentito le mie urla e aveva chiamato le altre guardie, non mi era sembrato più di appartenere a me stessa. La mia voglia non era più stata mia per tanto tempo, il verde mi scappava dagli occhi, i capelli erano di un nero spento, un nero che non mi rifletteva come era stato solito fare.
A volte avevo la sensazione di essere soltanto una spettatrice di quello che mi accadeva, di non avere voce in capitolo.
Di essere un soprammobile messo lì a prender polvere, pulito solo quando serviva agli altri.
Che mi si chiedesse un'opinione, era fuori questione. A volte nemmeno io la chiedevo a me stessa. Che cosa ne pensi? Non penso, non sono abbastanza per pensare.
Passai l'asciugamano sfregando la pelle, cercando di togliere tutto lo sporco e il sangue. Era come un rituale ossessivo, ogni volta: bagna, insapona, sfrega. Fino a che non diventi rossa e la pelle pare iniziare a prender fuoco. Come ad espiare un peccato che non avevo commesso, ma che mi era stato appiccicato addosso. Con le dita pulite toccai il taglio profondo che avevo sulla schiena, che ero sicura sarebbe diventato infetto se non lo avessi trattato a dovere.
Lo avevo lasciato sporco per troppo tempo.
Prima di ridare le fiale ad Emma avevo tenuto con me un po' delle erbe, quindi le estrassi dalla tasca della gonna e le spalmai delicatamente sulla ferita, per poi bendarmi la vita facendovi girare attorno delle fasce di tela. Il dolore ora era diventato sordo, sopportabile, ma mi chinai a terra non appena sentii la testa girare.
Mi raccolsi le gambe al petto, e le strinsi fra le braccia, nascondendovi il viso. Affondai i polpastrelli nella carne, per ricordarmi che c'ero. Che ero qualcuno.
Il momento della giornata che più temevo era proprio quello, il momento in cui ero da sola con me stessa, sia fisicamente che mentalmente, e mi ritrovavo con la mia nudità a contare i secondi.
Sentivo il cuore rimbombarmi nelle orecchie, fare a gara con il rumore di sottofondo per arrivare al mio condotto uditivo. Il pavimento era freddo e duro sotto di me, a causa delle piastrelle di ceramica verde salvia. Avevano degli intarsi dorati.
Dovevo spesso ricordare a me stessa che ero io a pilotare i miei pensieri e i miei movimenti, che potevo stare nella mia testa.
Non dovevo rifuggire in qualche angolo buio, non dovevo estraniarmi come avevo fatto quel giorno.
Una forma di protezione, un modo per staccarmi da quella carne la cui proprietà mi era stata levata per troppi minuti, che nel passato erano parsi secoli.
Ogni spinta aveva martellato nelle mie ossa, vertebra per vertebra, la convinzione che fossi una cosa piccola. Affondai ancora di più i polpastrelli nel braccio, a creare delle rientranze nella pelle, come delle piccole pozze. Le contai, respirando piano.
Ad ogni respiro lasciavo andare una pozza, fino a staccare tutte le dita, che si lasciavano dietro loro stesse delle tracce rosse.
Se la mi pelle subiva questo effetto, era perché ero reale.
Quello che è successo non dice nulla di me, dice tutto di lui. Me lo ripetevo come mantra da quando Loris me lo aveva detto, per cercare di calmarmi quando nelle settimane a seguire non ero riuscita nemmeno a mettere piede fuori di casa per coccolare i gatti della signora Norren.
Me lo ripetevo quando pensavo a Loris che mi prendeva in braccio e mi portava in ospedale, mentre appoggiavo la mia testa nell'incavo del suo collo per sentire un profumo a cui ero abituata e che non mi facesse temere di soffocare.
Me lo ripetevo quando pensavo che, essendo Treece il mio ragazzo, ai tempi, quello che aveva fatto fosse giustificato e corretto.
Non lo era. Io non ero sua, i miei pensieri, il mio corpo, la mia persona... Non erano cose che gli appartenevano.
Respira. Sapevo che sarebbe successo, che mi sarei sentita così anche questa volta. A casa era più semplice, a volte riuscivo a guardarmi allo specchio per qualche secondo, riuscivo a toccare la mia pelle senza pensare che non fosse più mia.
Ma dopo la nottata appena trascorsa, dopo aver perso i miei poteri e mio padre... Le lacrime iniziarono a rigarmi il viso come fiumiciattoli caldi e salati.
«Basta», mi dissi cercando di darmi un tono.
Sentivo le sue mani addosso a me, come una gabbia, con la stessa intensità con la quale le avevo sentite quel giorno.
Mi alzai di scatto e mi fiondai a riaprire il rubinetto, per sentire il rumore dell'acqua che scorreva. Mi aggrappai con le mani al bordo del lavandino, cercai di respirare a fondo, di prendere tutta l'aria che potevo.
L'aria è anche tua.
La mia pelle si stava asciugando, la sentivo tirare. Potevo sentire ogni punto della mia pelle, se mi concentravo.
È tua, sei tu. Non riuscivo a guardarmi nemmeno per passarmi un asciugamano asciutto addosso.
Quando fui sicura che tutta l'acqua fosse evaporata, processo che ormai - anche quello si erano portati via - non potevo più velocizzare, mi vestii in silenzio con i pantaloni marroni e la maglietta, reggendomi a fatica sulle gambe.
Avvertivo ancora il cuore pulsare, ma avevo ripreso a incamerare aria normalmente.
Mi misi due dita sul polso, vicino all'arteria radiale. Le tenni premute lì fino a che non sentii i battiti diminuire e sincronizzarsi con lo scrosciare dell'acqua.
Era una cosa che il mio cuore aveva sempre fatto: andare di pari passo con l'Idro.
Mi calmava vedere che il mio corpo poteva calmarsi, e che ancora seguiva certe regole che si era creato da solo. Sei una persona a sé stante.
La sensazione del cotone e della pelle addosso era quasi piacevole, come una coccola.
Spensi la luce ad elettro, girando la manovella, e mi infilai nel corridoio per tornare in camera. Mentre camminavo mi sembrava di vedere delle ombre muoversi ai margini del mio campo visivo. Se la loro natura fosse di semplici proiezioni di luce o dei varjos, non lo capii.
Sin da piccola ero stata incline a percepire certe cose, ad avvertire le Ombre degli exousies passati, i loro residui energetici.
Non era una capacità troppo fuori dall'ordinario, ma bisognava avere un certo grado di comunicazione con le divinità, o di emozioni, per poter anche solo avvertire l'aria che i varjos erano in grado di far vibrare.
La torre in cui ci trovavamo aveva sicuramente visto più morti di quelle che avrei potuto contare sulle dita delle mani; non mi sarei stupita se dei varjos si fossero accumulati in quel luogo, come polvere sulle mensole.
Arrivata in camera vidi che le persiane erano state chiuse per permetterci di dormire nonostante fosse piena mattina, e solo dei piccoli spiragli di luce riuscivano a penetrarle.
Nathan e Nora si erano già infilati sotto le lenzuola, ai due lati opposti della stanza.
Della ragazza vedevo solo qualche ciocca di capelli, per il resto aveva la testa completamente nascosta sotto le coperte.
Camminai in punta di piedi per non svegliare nessuno, e mi avvicinai a Nathan, che dormiva a pancia in giù. Il mio giaciglio era già stato steso sul pavimento, accanto al tepore del camino.
Vi sgusciai dentro, dopo aver steso ad asciugare lo scialle di Polly, tirando un sospiro di sollievo nel sentire che le lenzuola si erano già scaldate.
Chiusi gli occhi e, per la prima volta dopo tanto tempo, sognai di nuovo di annegare.
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Sono consapevole del fatto che sia un capitolo pesante, ma era importante sia per me che per Ariadne.
Spero vi sia comunque piaciuto, ci vediamo al prossimo capitolo.
Un abbraccio🤍
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