8.3 • I primi tuoni del cielo
You call it hope, that fire of fire!
It is but agony of desire.
Edgar Allan Poe, "Tamerlane"
Song: Game of survival - Ruelle
————-𓆩♡𓆪————-
In questo capitolo sono presenti scene di violenza e di combattimento. Se possono recarvi disturbo, vi consiglio di saltare il capitolo e, se me lo chiederete, vi farò un riassunto nei commenti.
In caso contrario, buona lettura <3
«Nathan!», urlai. Dovevo trovarlo.
Non l'avevo visto da troppi minuti.
L'avevo perso.
Non c'era.
Iniziai a correre senza capire dove mi trovassi e, nella foga, inciampai addosso alla ragazza che avevo visto all'inizio, quella col basco in testa.
Lei mi puntò con occhi terrorizzati - sembravano due fari nel mezzo dell'oceano - e iniziò a correre lontano da me.
Alzai la testa e vidi un altro sylkukkonen planare nella nostra direzione, puntando entrambe.
La bestia iniziò ad inseguire la ragazza, standole attaccata e, con un grande battito di ali, prima che potessi anche solo gridare, le saltò addosso.
Con orrore vidi la bestia affondare gli artigli nel suo collo e il sangue della ragazza divampò in tutte le direzioni. Urlai, graffiandomi la gola. Neanche con tutti gli acquarelli del mondo avrei potuto ricreare quella tonalità di vermiglio, sembrava macchiato di nero dalla paura, sporcato dalla terra.
Senza nemmeno pensare, mi lanciai in avanti, stringendo fra le mani la fiala di acqua che portavo al collo. Era stato l'istinto, il bisogno naturale che avevo sempre avuto di curare le persone, come non avevo potuto fare con mia madre.
Puoi farcela.
Non potevo più.
Non aveva importanza - sarei sicuramente morta - quindi accelerai il passo e iniziai a correre, gli stivali quasi affondarono nel terreno che stava diventando fanghiglia.
I miei muscoli si mossero senza chiedere al mio cervello il consenso, e nemmeno io mi trovai a chiederglielo.
Non aveva importanza.
Alle mie spalle sentii Nathan urlare il mio nome, quasi in preghiera, e mi voltai per vederlo allungare una mano nella mia direzione. Sembrava avere un volto totalmente nuovo rispetto a pochi minuti fa.
Un fulmine violaceo uscì dalle sue dita callose, rosse per lo sforzo della magia.
Tirai un sospiro di sollievo nel vederlo ancora vivo, ma guardai nuovamente in direzione della ragazza con il collo aperto in due, la carotide che non smetteva di perdere sangue.
Ora o mai più. Dovevo tapparla, farla cicatrizzare.
Il sylkukkonen era ancora sopra di lei, la pelle nera come la pece che si confondeva con l'erba alta, ma continuai ad accorciare la distanza tra me e lei.
Non aveva importanza.
Pensai che il fulmine di Nathan mi avrebbe coperto le spalle, che non dovevo avere paura e che potevo proseguire.
Nathan gridò ancora, la voce roca che mi artigliava le orecchie con il rimbombo del mio nome. Altre urla provenivano da tutte le direzioni, come un'unica grande eco.
Intorno a me c'era solo rumore, solo disperazione.
Voltai nuovamente la testa in direzione di Nathan, e sentii le vertebre scricchiolarmi una ad una.
Il fulmine, ora blu, era vicino. Troppo vicino. Ormai non riuscivo più a distinguerne i contorni, gli occhi pieni di lacrime e pioggia mi impedivano di vedere bene.
Non aveva importanza.
Senza che quasi me ne accorgessi, il fulmine prese una piega rapida e si schiantò...
Verso i miei piedi?
Al contatto con il suolo vicino a me, l'esplosione mi fece rimbalzare lontana di qualche metro. La vista mi si sfocò e una nuvola di polvere si innalzò dal punto dell'esplosione, circondandomi e facendomi tossire. Mi fermai dal rotolare lungo lo spiazzo erboso solo affondando le unghie nel terreno, per aggrapparmi a qualcosa, qualsiasi cosa.
Le orecchie iniziarono a fischiarmi, me le tappai premendo con le mani e poi incastrando la testa fra le ginocchia.
Mi misi a sedere a fatica, passandomi una polso sulla bocca e vedendo piccole luci balenare tutte intorno a me. Sputai a terra; l'odore della fango mi fece venire un conato di vomito che cercai di ricacciare in gola.
«Sei impazzito?», sbraitai a Nathan nonostante non potessi vederlo oltre la coltre di fumo e i contorni del mio campo visivo cosparsi di luccichii dorati.
Non svenire.
Sentii delle scosse arricciarmi i capelli verso l'alto, per poi disperdersi in pochi secondi.
Dal punto in cui il fulmine era atterrato divampava un fuoco tremolante, mostrandosi come l'ultimo segno di quell'attacco magico rivolto verso di me.
«Tu sei quella impazzita», urlò con rabbia.
Mi girai in tutte le direzioni senza una meta; non vedevo né lui né la ragazza e la mia vista non riusciva a fissarsi su niente.
Poi la ragazza sembrò apparire a un metro da me, come un miraggio. Il fumo che piano piano cominciò a diradarsi mi permise di vedere come prima cosa il suo cappello spiegazzato a terra. Poi la sua mano che stava cominciando già a diventare pallida.
Strisciai verso di lei ignorando il richiamo di Nathan, il fischio di Blanc e le urla intorno a me. Toccai la mano della ragazza e il freddo della sua pelle mi pervase subito: non c'era già più. Misi un l'indice e il medio nel punto in cui sapevo avrei dovuto sentire il sangue scorrere, ma il fluire nel polso era inesistente; non avrei potuto avvertirlo neanche con i miei vecchi poteri.
Le abbassai lentamente le palpebre prima che sparisse, e sussurrai velocemente la preghiera che più di tutte sentivo mia, quella che non avrei saputo come sostituire: «L'acqua è calma. L'acqua scorre e travolge. L'acqua è dentro di noi e intorno a noi.»
Mentre le guardavo la pelle, segnata da strisce viola, come rimasugli di un fulmine, improvvisamente, mi ritrovai Nathan alle spalle.
«Fammi finire», gli dissi con una punta rabbia, ma non mi voltai a guardarlo, continuai: «Torna all'acqua, che vita dona e ritorno a casa diventa.»
Dissi le ultime frasi della preghiera velocemente, ero consapevole del fatto che fossimo nel mezzo di un attacco, ma sperai che il fumo dell'esplosione di Nathan durasse quel tanto che bastava ad offrirci qualche altro secondo di riparo.
La ragazza si dissolse, dividendosi in migliaia di pagliuzze argentate portate via dal vento.
Nasciamo come energia e torniamo ad essa alla nostra morte. Non un corpo da piangere, non un posto in cui andare.
Cercai di tirarmi su, ma le mani tremolanti non riuscirono a trovare un appiglio nel terreno bagnato.
Sentii la rabbia montarmi dentro, accompagnata come sempre dalla paura, che la teneva a bada.
«Non sei più una guaritrice, Ariadne. Hai fatto una stupidata, avresti potuto farti ammazzare.»
Nathan sputò quella frase come se fosse una cosa da nulla, con tanta cattiveria da farmi urlare: «Come osi!»
Battei il pugno sul fango e distolsi i miei occhi dai suoi non appena li vidi corrucciarsi.
Avevo la gonna e il maglione completamente zuppi, li sentivo pesare su di me.
Intorno a noi la battaglia non aveva ancora smesso di infuriare, ma non riuscivo a sentire altro che il cuore pomparmi nelle orecchie, ora bollenti.
Dannazione, alzati.
«Scusami, non intendevo... quello.»
Si avvicinò lentamente, come ci si avvicina ad un animale ferito per non spaventarlo.
Sciolsi il pugno che ancora stavo tenendo con la mano destra, ma non rilassai le grinze della fronte.
Nathan mi si parò davanti, allungando un braccio.
«Non ho bisogno di aiuto», lo precedetti.
Le gambe mi tremavano.
«Lo so», rispose lui, senza però togliere la mano che stava ancora tendendo verso di me.
«Nathan, ho detto che non ho bisogno del tuo aiuto», ripetei trattenendo le lacrime. Di frustrazione o disperazione, non riuscivo a distinguere.
«Se me lo urli magari sento meglio.»
Ma la sua mano rimase lì, sospesa fra di noi come una taciuta richiesta di pace.
Non avrebbe nemmeno dovuto chiedermi scusa. Ero stata impulsiva, la memoria muscolare aveva preso possesso di me ed io ero stata talmente infantile da seguirla.
Stupida.
Era il mio compito, una volta: curare, salvare vite. E in quel momento mi ero ritrovata a vederne perdere una. Mio papà, i primi anni del suo lavoro, era solito tenere un quaderno con i nomi delle persone che non riusciva a salvare. Li sapeva tutti a memoria.
Guardai Nathan negli occhi scuri come il sottobosco e afferrai impulsivamente la sua mano. Il calore che emanava mi tolse quasi il fiato, sentii la testa girare e trattenni un moto di repulsione dovuto al toccare così intensamente un'altra persona. Era Nathan, lo conoscevo, era stata la mia quotidianità fino al Rituale. Non era cattivo, non era un pericolo. Conoscevo la sua mano ruvida e piena di cicatrici.
Togli subito la presa.
«Sei ghiacciata», constatò.
Non avevo ancora usato i miei poteri, era ovvio che fossi fredda. Sicuramente più fredda di lui che mi aveva appena scagliato un fulmine addosso, ma ricacciai quel pensiero.
Mi alzai in piedi grazie a lui e mi trassi rapidamente via dalla sua presa.
«Grazie per avermi salvata», dissi senza indugiare. L'aveva fatto, era inutile girarci intorno. Buttai il mio orgoglio in profondità, mandandolo giù con la saliva.
«Figurati, scusa se ti ho spaventata», rispose indicandomi un tronco caduto. «Non avevo tempo di fare altro.»
Lo seguii e ci accucciammo dietro la corteccia, piena di muschio e impregnata di acqua. Sembrava quasi una spugna. Pensai che i vermicelli e le lumachine che lo popolavano sarebbero state contente, dopo tutta quella pioggia.
«Mi spiace per quella ragazza... Hai fatto quello che hai potuto», disse Nathan sommessamente, di punto in bianco.
Annuii poco convinta.
«Ho visto le tue mani», proseguì indicandole con l'indice.
«Che intendi?», domandai nascondendole dietro la schiena ed intrecciandole tra di loro.
«Quando tremi, generi dei piccoli lampi.» Come nella torre con Vivienne, pensai, solo che non mi ero resa conto di averlo fatto altre volte.
Nathan aveva le unghie tutte mangiucchiate e una era completamente viola, come se l'avesse schiacciata sotto qualcosa. Avrebbe dovuto bendarla, o rischiava di prenderci dentro e danneggiarla maggiormente.
«Non le faccio io.»
Nathan rise, con una risata strana. Era serio. «Certo che le fai tu o, almeno, lo fa il tuo tremore.»
Strinsi ancora più forte le mani tra di loro, completamente anestetizzate dal freddo. Sentivo il taglio sulla schiena pulsare, ma non riuscivo più a fare riunire i lembi di pelle per chiudere la ferita.
Nathan fece combaciare le sue dita della mano destra con quelle della sinistra, poi fece un rapido movimento di polsi e una piccola palla di energia si formò a mezz'aria tra di noi.
«Avvicinati, altrimenti la prossima volta che ti tirerò su, aiuterò un blocchetto di ghiaccio a rialzarsi.»
In mezzo a quel caos, mi scappò una risata. Mi sentii dannatamente in colpa e mi tappai la bocca.
Forse era la disperazione, forse il mio cervello stava impazzendo e ridere era un meccanismo di difesa.
«Allora», continuò Nathan sorridendo leggermente e avvicinando il volto alla sfera di elettricità. «Voglio che tu smetta di controllare le tue mani.»
Mi spostai indietro con il corpo, di scatto. «Io non cerco di tenere sotto controllo i miei tremori», ribattei.
Mi sfregai le mani sul viso, cercando di togliere il fango e lo sporco che si erano appiccicati alla mia pelle. Sentivo le ciglia sfregare tra di loro.
«Andiamo, Dani. Ti conosco da una vita. So che sei sempre stata ghiacciata perché usavi costantemente energia per limitare i tremori.»
Lo facevo. Una parte della mia magia andava sempre in direzione delle mie mani, attraverso i vasi sanguigni.
Non dissi niente a riguardo, non lo ammisi. «Perché?», ribattei soltanto.
«Non dire a nessun insegnante che te l'ho detto, non è proprio convenzionale come metodo.» Un rivolo di sudore gli scese dalla fronte, la sfera di energia si spense.
«L'Elettro è tecnicamente perdita di controllo. Non sempre», mi avvertì, «ma per ora possiamo far funzionare i tuoi poteri così. Se sopravviviamo, loro troveranno altri metodi.»
Si tirò su e questa volta non allungò la mano nella mia direzione. Mi alzai in piedi da sola, facendomi aiutare dal tronco, che usai come appiglio.
«Quando ti distrai, quando non indirizzi tutta la tua Energia verso la tua malattia, permetti al potere di fluire liberamente», tirò un sospiro. «I tuoi tremori creano energia, i tuoi tremori sono perdita di controllo.»
Cercai di reggere il suo sguardo; i suoi occhi sembravano in grado di attraversarmi da parte a parte, pensai che a fissarli mi sarei fatta male. Era abituato a parlare con le persone, lavorando nell'officina dei genitori, ed ero sicura che quegli anni di esperienza gli avessero insegnato a scandagliare la gente come i pescatori facevano ad occhi nudi sui fondali marini e lacustri.
«Creo solo delle piccole scosse», dissi con riluttanza.
«Ce le faremo bastare, tienimi vivo», disse sorridendomi, scavalcando il tronco con un solo salto.
————-𓆩♡𓆪————-
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top