3.1 • Ciò che non è umano
"These mountains you are carrying
You were only supposed to climb"
Najwa Zebian
Song: Why am I like this - Orla Gartland
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Prima di tornare a casa, quella sera passai dal santuario. Era situato al centro di Brental e tutte le strade confluivano ad esso come radici all'albero.
Ormai si era fatto buio, le luci ad Elettro erano accese anche in superficie ed illuminavano sia il pilastro della bobina elettrica sia la fontana, posizionati a pochi metri di distanza l'uno dall'altra. Distinti ma parte della stessa Natura.
Faceva freddo, sentivo un vento leggero solleticarmi il viso, ma non avevo voglia di avvicinarmi ai piccoli Fuochi posti al limitare della piazza, pensati per tenerci al caldo in situazioni simili.
Il santuario si apriva nella piazza madre di Brental, circondato in tutta la sua estensione da una siepe, ora priva dei soliti fiori bianchi che in primavera spuntavano come fiocchi di neve.
Il piazzale era quasi deserto, non fosse stato per una signora dalla carnagione scura inginocchiata davanti alla statua della Madre dell'Elettro. Aveva dei pantaloni di pelle e un velo calato sulle spalle: era usanza abbassarlo per comunicare con le divinità, per aprire le connessioni con esse e con gli spiriti, e portarlo sul capo quando ci si voleva schermare da percezioni esterne.
Quando mi avvicinai alla fontana, che ritraeva la Madre dell'Idro sulla sua sommità, vidi con la coda dell'occhio la donna muovere le labbra, sussurrando parole - preghiere - che non riuscivo a capire, probabilmente in un'altra lingua.
Non era raro, soprattutto durante il mese del Rituale, a fine estate, che stranieri giungessero a Brental, merito della sua posizione favorevole tra la capitale dell'Elettro, Xeka, e quella dell'Idro, Brinass.
Era esattamente al centro dell'assottigliamento della striscia di terra che univa le due capitali, a Sud di Kiross, la madre patria dei Silenti.
Allontanai lo sguardo dalla signora - non si fissano le persone - e mi inginocchiai anche io, premendo le mani sulla pietra che costituiva la fontana.
Al mio tocco un piccolo agglomerato d'acqua si posizionò al di sotto delle mie mani, come a salutarmi.
Sentivo la pelle delle ginocchia sfregare sul terreno sabbioso, ma il dolore in altre zone a volte mi aiutava a spostare l'attenzione da quello che provavo ogni giorno.
Durante i primi anni della mia malattia l'unico problema erano stati i tremori, ma con il crescere dei poteri, soprattutto con l'avvicinarsi dei diciotto anni, un dolore sordo mi accompagnava sempre.
Mi schiarii la gola.
« L'acqua è calma. L'acqua scorre e travolge. L'acqua è dentro di noi e intorno a noi. Respira come l'acqua», salutai la Madre dell'Idro.
Poi girai lievemente la testa e feci un cenno, chiudendo gli occhi, verso la Madre dell'Elettro.
Sapevo che le Dee ci sentivano anche attraverso i pensieri, ma ero solita parlare ad alta voce con loro, mi faceva sentire meglio. Era una cosa che mi aveva insegnato mia madre.
«Ora sono dee, ma un tempo erano persone come noi. Non penso fossero capaci di telepatia», diceva ridendo. «Penso comunque che sarebbero più contente di avere una conversazione normale.»
«So che è una cosa normale avere paura per domani», dissi strofinando i polpastrelli sulla pietra fredda. Un granello di sabbia si staccò dalla superficie e si infilò sotto l'unghia dell'indice, cosparso di pellicine.
«Ma ti prego, ti prego, dammi la forza per non crollare.»
A quella frase, come se mi stessero mettendo alla prova, persi il controllo delle dita, che iniziarono a tremare all'impazzata.
Uno.
Due.
Tre.
Pensai al sangue che mi scorreva nel corpo, poi pensai al sangue delle braccia e infine a quello delle mani, restringendo il mio campo d'azione.
Uno.
Due.
Tre.
Chiudendo gli occhi, potevo visualizzarne il flusso riempire le vene e i capillari.
Mi focalizzai sulla componente idrica del sangue, togliendo di mezzo le piastrine e i globuli rossi.
Uno.
Due.
Tre.
Rallentai il flusso d'acqua e con esso gli spasmi. Riuscivo a farlo per pochi secondi senza affaticarmi, quanto bastava a riportare il tremolio ad un ritmo normale.
«Temo che prima o poi questa cosa mi bloccherà dal poter curare qualcuno. Non sono precisa nei movimenti, non sono stabile», dissi quasi come supplica, la voce gracchiante.
«Chi si fiderebbe a farsi curare da una che neanche sa stare ferma?»
La macchia d'acqua sotto le mie mani si allungò un poco, per distendersi anche sul dorso.
La zona divenne immobile, quasi come fosse ghiaccio.
«Lo so, lo so. Posso curare comunque, ho l'Idro. Ma vorrei non dover sprecare così tante energie per tenere ferme queste.»
La rabbia mi colse alla sprovvista e strinsi le dita attorno al bordo di pietra della fontana.
L'acqua che prima era sulle mie mani fece un guizzo all'indietro, spaventata.
«Scusami.»
Delle bolle spuntarono dal nulla. Lo interpretai come un segno di protesta ma anche di:"Scuse accettate."
«Okay, okay», respirai. «Grande Madre, fai che domani vada tutto bene, sia a me che a Layla», mandai giù l'ansia. «Se lo merita.»
Dopo anni di vita da nomade, causa il lavoro commerciale del padre, aveva finalmente trovato un posto dove stare. Volevo che finalmente si sentisse in grado di appartenere a qualcosa.
«Fa' che anche io trovi il mio posto nel mondo, grazie.»
L'acqua ritornò piano al suo posto nella fontana, calma come solo l'acqua sapeva essere.
Mi alzai in piedi, le ginocchia tremolanti, poi mi avvicinai al bordo della fonte e immersi la mano destra nell'acqua. La lasciai sommersa qualche secondo, la tirai fuori ed unii entrambe le mani in preghiera.
Iniziai ad allontanarmi, ma una sorta di filo invisibile mi fece bloccare.
Nathan.
Mi girai lentamente, facendo perno sul piede, per non far rumore e non disturbare la signora alla bobina.
Mi avvicinai con circospezione: era buona abitudine fare una preghiera per entrambe le Dee, ma non avevo mai fatto una preghiera solo per lei. Guardai silenziosamente quello che stava facendo la donna, per cercare di replicare.
Aveva la mano destra appoggiata sul petto, in prossimità del cuore. Feci lo stesso, aprendo le dita a ventaglio per sentire le pulsazioni.
«Non so come si faccia», mi scusai sussurrando. «Quindi perdonami, però ci provo.»
La signora si alzò, facendo sollevare di qualche centimetro la sabbia di ferro che circondava la statua della Dea dell'Elettro.
Quanto è forte se con un solo passo può modificare il campo magnetico?
«C'è un mio... conoscente», incespicai, spostando nuovamente la mia attenzione alla preghiera. «Si chiama Nathan. Anche lui domani partecipa al Rituale. Vorrei che andasse tutto bene pure per lui, fagli trovare il suo posto.»
Una scarica partì immediatamente dalla bobina, per poi diramarsi nel cielo notturno come un fuoco d'artificio, illuminandolo.
Avevo appena espresso un desiderio, pensai.
«Ti ha sentito.»
Voltai la testa di scatto. La voce proveniva dalla donna, che ora si era nuovamente coperta il capo con il velo dorato e si stava spostando alle mie spalle. Qualche ciocca di capelli ribelle continuava ad intravvedersi, nonostante continuasse a tentare di rimetterle dentro.
Dalla sua carnagione intuii che forse veniva dalle zone desertiche a Nord di Xeka, dove gli exousies dell'Elettro vivevano nelle profondità di giorno e in superficie di notte, quando l'escursione termica era talmente elevata da evitargli il surriscaldamento causato dall'uso dei loro poteri.
«Hai fatto partire una bella scarica, signorina. Etkomplimentai.»
Alzai un sopracciglio istintivamente.
«Complimenti», tradusse per me, intrecciando gli indici delle sue mani tra di loro.
«La... ringrazio», tentai alzando un sopracciglio.
La signora sorrise. «Sono qui per mio nipote, per domani», rispose infilando le mani nelle tasche del maglione.
«Anche il mio Rituale è domani», rivelai.
La donna guardò il lato sinistro del mio viso. Precedetti la sua domanda.
«E' una voglia, ce l'ho da quando sono nata», dissi spostandomi una ciocca di capelli dietro l'orecchio. Oramai non avevo più problemi, non sentivo la necessità di nasconderla.
«Nella tradizione del mio popolo, le voglie indicano il futuro delle persone che le portano. Come marchi lasciati dai fuochi fatui dell'elettro.»
Non avevo mai sentito quel nome.
«Cosa sono?»
La donna non sembrò stupita dalla mia domanda. «Le leggende dicono che siano gli spiriti dei nostri antenati e che, seguendoli, conducano al proprio destino», rispose la donna come a raccontare una storia, la voce un sussurro.
Sentii odore di bruciato; pensai a mia madre.
Nei miei sogni spesso la sentivo urlare, ma non riuscivo mai distinguerla tra la folla di gente che ci circondava sempre.
Spostai lo sguardo a terra, dove la sabbia di ferro aveva preso fuoco. Un fuoco viola che si spense subito, così come si era acceso.
«Scusa, i ricordi a volte mi giocano brutti scherzi», disse la donna sfregando le scarpe per terra, per spostare qualche granello di sabbia bruciacchiato.
«Si figuri», biascicai. Non le racconto i miei, di ricordi.
«Ora, mi dispiace, ma ti devo salutare. Mia moglie mi starà aspettando.»
Ricambiai al cenno del capo che mi fece, poi si congedò voltandomi le spalle, il velo dorato svolazzante nel leggero venticello serale.
Un brivido mi percorse la schiena.
Meglio che torni anche io casa.
L'orologio batté le nove di sera e le luci ad elettro sfarfallarono.
La via del ritorno ormai la conoscevo come le mie tasche. Brental era una città abbastanza grande, ma le sue strade erano facilmente navigabili grazie ai cartelli e alle strade che prendevano diversi colori a seconda del quartiere che si stava attraversando.
Io abitavo abbastanza lontana dal centro, in una strada che aveva i ciottoli color marrone.
Su quelle strade avevo vissuto tutta la mia infanzia: ero caduta, mi ero sbucciata le ginocchia, mi ero rotta un dente da latte e avevo difeso una bambina quando era stata presa di mira dai bulli. Quella bambina che era diventata la Lauren che tanto mi odiava.
La tecnica della bolla, lei l'aveva imparata da me. Ero stata io la prima ad usarla, quando un bambino più grande di noi l'aveva messa all'angolo per prenderla in giro visto che non aveva ancora sviluppato i suoi poteri da Idro.
I gatti della signora Norren mi avevano insegnato a non arrivare alle spalle delle persone, perciò mi ero buttata giù da un tetto al primo piano di una casa ed ero atterrata tra Lauren e quel bambino, Davis.
La bolla d'acqua aveva preso forma in modo completamente naturale tra le mie mani, che avevo unito tra loro non appena avevo percepito la temperatura scendere nei miei vasi sanguigni.
Ai tempi ancora non ero in grado di controllarla, quindi facevo fare - stupidamente - tutto a lei.
Avevo alzato le mani e, allargando le braccia, la bolla era scoppiata in testa a Davis, che era corso dai suoi genitori e aveva fatto finire sia me che Lauren in punizione.
La soddisfazione, però, era stata talmente tanta che il rimprovero non ci costò affatto, anzi, avevamo avuto problemi a trattenere le risate.
Successivamente avevo insegnato anche a Lauren come far esplodere acqua in testa alle persone.
Poi quella "persona" ero diventata io.
Però fa una bolla più piccola della tua.
Arrivata alla piazzetta della mia via, fui felice di trovare uno dei gatti della signora Norren a salutarmi.
«Ciao, Ghianda», ricambiai il saluto grattandogli il collo. Lui fece le fusa.
«Sei incorreggibile, adulatore.»
La sua risposta fu di riempirmi le calze di altro pelo, ancora rimasto lì dalla mattina.
«Papà è tornato a casa?»
Ghianda miagolò in assenso: usciva sempre di casa per salutare lui, che solitamente arrivava per primo, ma poi si fermava fuori per controllare che anche io arrivassi sana e salva.
«Nemmeno un graffio, Ghianda», gli dissi mostrando le braccia. «Puoi tornare a casa tranquillo.»
Lui mi spalmò altro pelo sulla calza, io lo accarezzai e poi soddisfatto rientrò dalla sua padrona tramite la gattaiola intagliata nella porte di legno della famiglia Norren. Il rumore che fece la porticina quando sbatté sul legno rimbombò per tutta la via spoglia.
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Questo è la prima parte di un capitolo incentrato sulle divinità e la dinamica tra Ariadne e suo padre.
Spero vi sia piaciuto comunque anche se più lento degli altri.
Fatemi sapere!
xoxo
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