11 • Brucia

"We drink the poison
our minds pour
for us
and wonder
why we feel so sick"
Atticus

Song: Alice - Peggy

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La prima volta che io e Lauren ci eravamo baciate, a sedici anni, eravamo intente a leggere del Mar Perso. Il suo maglione di lana, tre taglie più grande di lei, copriva le gambe ad entrambe, come un sacco a pelo.

«Mica puoi andare lì come vacanza estiva», aveva detto lei alzando gli occhi nocciola al cielo. Una ciocca dei suoi capelli si era attorcigliata al mio indice.

«E chi lo dice?», avevo domandato in tono di sfida.

Lauren mi aveva risposto spostando il libro nella mia direzione ed indicandomi la riga: «Le Grandi Madri.»

La sua fronte si era cosparsa di piccole rughe.

«Vedi? A nessuna imbarcazione sembra essere permesso solcare quelle acque.»

«Magari me la faccio a nuoto.»

Il fragore della sua risata era rimbombato tra le pareti di camera mia, come se non l'avessero voluta lasciare andare e stessero tentando di conservarla. Forse sapevano già quello che sarebbe avvenuto nei mesi a seguire. Il velo di rossetto marrone che aveva sulle labbra si sposava alla perfezione con la pelle chiara, resa più pallida dalle luci ad elettro appoggiate attorno al tappeto su cui eravamo sedute, la schiena contro il letto.

«Qui c'è una parola cancellata», aveva notato Lauren posando il tomo sul pavimento.

«In che senso?» Mi ero distratta.

«Guarda qui», aveva continuato lei girando furiosamente le pagine, «delle parole sono completamente oscurate.»

I miei occhi si erano posati su ogni riga cancellata con della vernice nera ogni volta che Lauren cambiava pagina. «Non riesco a vedere niente», aveva ruggito infastidita. 

«È un libro vecchio, magari qualcuno riteneva obsolete certe informazioni», avevo tentato. 

«Certo, vero come le scuse che ti propina tuo padre sugli incendi dei tuoi sogni», aveva replicato Lauren sbattendo il libro a terra. Si faceva molte più domande di quante non ne ponessi io; era inutile sprecare fiato quando dall'altra parte avevi solo un muro che rimandava la tua stessa eco. «Mi fai arrabbiare quando ti annulli. Magari hai qualche potere strano», aveva suggerito lei sfoggiando uno sguardo maliardo.

«Non si appiccano incendi con l'Idro», avevo sentenziato l'ovvio, «e se fosse, non avresti paura di me?»

Lauren mi aveva guardata sollevando gli occhi, ombreggiati dalle sue sopracciglia folte. Per un attimo un sussulto aveva preso possesso di me, un vuoto al petto. «Non ti chiederei mai di cambiare quello che sei.»

Si era sporta leggermente in avanti, avevo sentito il suo respiro mischiarsi con il mio; nell'aria c'era profumo di zenzero e ninfee, la sua Magia. Senza che me ne accorgessi, quello che avevo desiderato per tanti mesi si era avverato, e le nostre labbra si erano posate le une sulle altre.

Con l'Accademia che prendeva posto all'orizzonte, non riuscii a non pensare che alla mia sinistra, da qualche parte, ci fosse il Mar Perso. E che da qualche altra parte, Lauren stesse continuando a perseguire il suo sogno.

Sapevo che non voleva rimanere a Brental, terminati gli studi, ma non avrei saputo dire dove avesse deciso di andare. Il castello del re di Kiross era sempre stato il suo obiettivo, un luogo dove pareva che anche i Silenti apprezzassero noi Guaritori. Che fosse per potere o egoismo, a lei non importava; Brental era semplicemente troppo piccola per le sue ambizioni. L'Accademia che invece ora avevo davanti ai miei occhi, scesa da cavallo, era immensa.

Le pietre scure da cui sorgeva si inerpicavano come mattonelle per tutta l'altezza dell'edificio, puntellato da rampicanti di edera scura. Un cancello possente bloccava l'ingresso, ma permetteva comunque di sbirciarvi oltre.

Alastair fischiò, facendo volare Blanc verso una colonna di Elettro. Sembrava un Pilastro in miniatura, senza il vetro protettivo.

«Che cosa sono sti cosi?», domandò Nora aggrottando la fronte.

Mi avvicinai al resto del gruppo traballante sulle gambe doloranti.

«Sono i tuonari», spiegò Vivienne, «sono delle barriere protettive che creano un campo magnetico lungo tutto il confine della struttura.»

«Se li toccassi?», domandò Nathan allungando un braccio in direzione della luce.

Dopo la discussione fredda del mattino, non ci eravamo ancora rivolti la parola.

«Se vuoi morire, accomodati», lo invitò la donna sciogliendosi i capelli, che le ricaddero sulle spalle come un fiume di fuoco.

Il cancello si aprì con un rumoroso clamore, privo di cigolii, facendo quietare momentaneamente le scosse per permetterci di attraversalo indenni. Fui sconvolta nel vedere comparire davanti a me, come dal nulla, l'uomo che mi aveva scortato alla torre da Vivienne, quando l'avevo conosciuta, insieme Loris.

Fui ancora più scossa quando si presentò con il cognome di Alastair.

«Sono KalenVictuoir, benvenuti all'Accademia Ukkonen. Spero che qualcuno di voi sia abbastanza sveglio da sopravvivere per diventare un soldato.»

Alastair guardò circospetto l'uomo, serrando la mascella. Avevano gli stessi occhi, ma il colore grigio di quelli Kalenrisaltava maggiormente grazie al contrasto con l'ebano della sua pelle costellata di cicatrici. I due insegnanti si misero alla sinistra dell'uomo, mantenendo una debita distanza.

Intorno a loro, noi ci eravamo posizionati a semicerchio, mentre i feriti stavano già venendo condotti via da un gruppo di Idro in uniforme blu.

«Alla vostra destra», Vivienne indicò lo spazio ampio oltre le siepi che stavano iniziando a perdere i fiori, «ci sono le case dei Guaritori. I feriti saranno condotti lì, dove c'è l'infermeria.»

Vidi le abitazioni in lontananza, ricoperte da uno strato verde di muschio, abbarbicarsi le une vicino alle altre.

«Potete andare a trovarli fuori dall'orario delle lezioni», continuò Alastair spostando lo sguardo su Quinlan, che di risposta evitò il suo con uno sbuffo.

«Sì, bene, non sono al campo estivo», mugugnò Kalen voltandoci le spalle per farsi seguire.

Una ragazza dietro di me, alzando una mano, chiese con un gemito: «Quando possiamo tornare a casa?»

La risposta si abbattè fulminea su di noi; per qualche ragione non ci avevo fatto caso, forse non ne avevo avuto il tempo, ma il pensiero in quel momento mi trapanò la testa.

«Non tornate a casa», rispose Kalen, «forse per il prossimo Rituale.»

Un anno. Avremmo dovuto attendere almeno un anno per rivedere...

Pensai a mio padre solo in quella casa che lo avrebbe tormentato con i ricordi miei e di mia madre. Ricordi che ora doveva sobbarcarsi in solitaria e che iniziai a temere avrebbero peggiorato le sue, già gravi, crisi.

Da quando la mamma era morta, lui a volte sembrava vivere in due realtà contemporaneamente, come se avesse i piedi in due mondi. Uno era con me, l'altro era da in una parte a me inaccessibile.

Tra i corridoi dell'ospedale girava la voce che, dalla scomparsa della mamma, avesse iniziato ad impazzire, a perdere pezzi di se stesso. Mi era impossibile crederci, era troppo in sé per essersi perso. Mi mancava abbracciare una delle tre persone che non mi facesse venir voglia di scappare dalla mia stessa pelle.

La ragazza abbassò il capo, nascondendo il viso tra i riccioli biondi; sembrava molto più piccola della sua età. «E gli studenti più grandi?», provò a continuare, la voce un sussurro, consapevole che stesse testando la pazienza di Kalen.

Questa volta, fortunatamente, fu Alastair a rispondere: «Sono in un'ala diversa dell'Accademia rispetto alla vostra, ma potrebbe capitare di incontrarli. Rispettateli, per loro arruolarsi è stata una scelta.»

Quando ancora la leva militare non era obbligatoria, quando vivevamo secondo il principio, donato dalle Madri, del libero arbitrio. Mi chiesi se la ragazza avesse un parente tra gli anni più avanti e, tra me, sperai di sì.

Camminando verso l'entrata dell'Accademia, non potei fare a meno di notare l'altro agglomerato di case alla nostra sinistra. Se non fosse stato per il diverso materiale di costruzione, sarebbero stati identici.

Era uno stile che si discostava parecchio da quello di Brental: era più massiccio, più pesante alla vista, addolcito solo dalla simbiosi con la natura circostante, quasi a nascondersi sotto di essa. «Quelle a sinistra sono le residenze militari», ci informò Vivienne noncurante dell'occhiataccia fulminea del fratello di Alastair.

«Per quanto riguarda le informazioni realmente importanti», sentenziò Kalen interrompendola, «non saremo tanti all'interno dell'Accademia. Le nostre forze sono concentrate... altrove.»

Nora mi battè due colpi rapidi sul braccio, strabuzzando gli occhi.

«Non dovremmo essere informati riguardo queste cose?», domandò la ragazza spostandosi una ciocca di capelli viola dietro l'orecchio punteggiato di lentiggini. «Per quanto mi riguarda, non siete ancora all'altezza», sbuffò Kalen, «ma altri pensano di sì», concluse guardando il fratello.

«Verrete a conoscenza di determinati eventi con il proseguimento del vostro addestramento», concluse Alastair ignorando l'affronto appena subito.

Pensai a quante cose mi avesse detto, senza dirmele veramente, Vivienne e quanto avessimo ascoltato la sera precedente.

L'oblio e l'ignoranza era il modo migliore per controllare i popoli, ma anche il metodo più vile e meschino.

Il portone in legno massiccio venne aperto da due guardie vestite di viola, che poi sparirono ai lati. L'ingresso era immenso, composto da una navata centrale da cui partivano due rami laterali. L'interno era scuro, ma il soffitto di vetro lasciava entrare l'ultima luce della giornata; un po' mi ricordava l'ospedale, a casa. Un po' mi faceva venire la nausea.

«Mettetevi al centro, per favore», ci ordinò Vivienne allargando le braccia ad indicare gli estremi di un ampio tappeto bordeaux, lungo il cui perimetro vi erano degli intricati archi di pietra, da cui partivano le navate. «Per i vostri tre anni qui, verrete divisi in gruppi da tre», spiegò Kalen estraendo dalla tasca della sua giacca un foglio spiegazzato, lasciando con gli stivali tracce nel tappeto che ricopriva il pavimento di marmo scuro. «Prima che arrivaste, sono stati sorteggiati i trii, dividendo i nomi in base alla vostra provenienza, per comodità.»

Alastair prese parola guardando Quinlan di sottecchi: «Purtroppo, non siete più la trentina che ci aspettavamo all'inizio, quindi alcuni si voi saranno una coppia finché i feriti non si rimetteranno», disse per poi fare una breve pausa, «mentre altri trii sono stati rimescolati per...»

Kalen gli parlò sopra, non facendogli finire la frase.

«Senza giri di parole, Alastair. Alcuni di voi sono morti l'altra sera, quindi ci avete costretto a ri-estrarre alcune squadre. Fatevele andare bene.»

Kalen iniziò a leggere i nomi, tre a tre, lasciandoci pochi secondi per capire chi fosse stato chiamato, e tanti sguardi colmi di dubbio.

Quinlan venne messo in coppia con il gemello, che scoprii chiamarsi Conall, e la ragazza che aveva chiesto degli studenti più grandi, Claudia.

Il sorriso che le si plasmò sulle labbra fu spento subito dal broncio di lui.

«Ultimo trio: Else-Nora, Ariadne, Nathan», annunciò Kalen guardandomi disgustato. A quanto pare aveva una buona memoria. Mandai giù un groppo in gola quando Nathan mi lanciò un'occhiata preoccupata, mentre Nora aveva alzato lo sguardo, raddrizzando le spalle più di quanto già non lo fossero.

Un'improvvisa vampata di caldo mi pervase, e la stanza sembrò girare su se stessa per qualche interminabile secondo. Sentivo il mio stesso cuore pulsarmi nelle orecchie, diventate bollenti.

«Come avrete notato, le squadre hanno almeno due persone del sesso opposto», continuò Kalen noncurante dell'atmosfera pesante che stava prendendo possesso della stanza. «Alcuni di voi sapranno che la cosa non è casuale: è il principio fondamentale dei magnetfelt.»

Per la prima volta, cedette volontariamente la parola a Vivienne, che si mise al centro.

«I ragazzi sono minuti di carica positiva, mentre le ragazze di carica negativa. Non c'è nessun bilanciamento nel magnetismo, senza questo principio. Il terzo membro della squadra, invece, funge da batteria», ci istruì passando il suo sguardo su ognuno di noi.

«Dovete tenervi in vita; in due potete pensare di sopravvivere qualche minuto, prima di incendiarvi da soli, ma se ne rimane solo uno di voi...» L'ultima parte della frase era quasi un sussurro gutturale.

«Non scomodatevi a pregare nessuna Dea», concluse Kalen con un sorriso raccapricciante sulla bocca, mostrando i canini. «Se avete qualcosa per cui lottare, fosse anche solo per tenere in vita chi vi protegge, il rischio di buttarvi di proposito nelle Fosse Elettro è minore.»

La paura era tangibile, aveva fatto diventare ancora più viziata l'aria nella stanza. «Bene», disse Vivienne battendo le mani tra loro, «per stasera potete riposarvi. Domani alle sette di mattina comincerete con la prima lezione.»

Mi parve strano non vederle addosso lo stilo con cui aveva combattuto i sylkukkonen, che invece era nella cintola di Alastair.

Contai cinque sedie lungo le pareti, tre vasi di felci cadenti e sette mattonelle più chiare.

Contai ed inspirai a fondo quell'aria che avrei dovuto imparare a conoscere e fare mia.

Ci congedarono lasciandoci dei foglietti con su scritto i nostri nomi e le stanze assegnate, tracciate a matita per illustrare una piantina del piano a noi destinato, il primo. Nora fu la prima ad avvicinarmisi, seguita dietro da Nathan. Il nervosismo che provava era impresso non solo nel suo viso, ma anche nei suoi movimenti scomposti.

Dovresti chiedergli scusa tu. «Andiamo?», domandò Nora. «Siamo già stati abbastanza fortunati ad essere capitati insieme, eviterei di testare la sorte e perderci nei corridoi.»Nathan annuì lievemente, io inclinai la testa in direzione della scalinata a sinistra. Appese alle pareti, le luci ad elettro facevano risplendere di mille colori le pietre screziate.

Pesanti tende vinaccia accompagnavano il nostro cammino, schermando le finestre dalla luce esterna, ormai prossima al tramonto. Era un tipo di luce particolare, quella che veniva dalle montagne: un luccichio freddo quasi quanto il posto in ci trovavamo, sembrava senza vita.

Girando a sinistra dove ci era stato indicato, il corridoio stretto si aprì in una stanza a mezzaluna, da cui spuntavano quattro porte in legno chiaro. La piccola saletta era arredata in modo accogliente, con un divano verde posto davanti ad un camino e un tavolino sul quale vi erano impilati dei libri. «Beh», esordì Nora, «la stanza la scelgo io per prima.»

«Ehi», bofonchiai.

«Vi ho guidati io, quindi direi che mi auto-proclamo capo della squadra. La stanza più bella tocca a me.»

Tutte e tre le camere erano uguali: stesso arredo spoglio, stessa finestra con le sbarre in ferro battuto, stessa forma.

«Questa è le legge del bilancio», rise Nathan facendo la linguaccia a Nora, che pensai lo avrebbe letteralmente fulminato con lo sguardo, se solo non fosse stata così stanca. «Ci si vede, io dormo», annunciò mesta la ragazza, togliendosi le scarpe e scomparendo dietro la porta della sua camera. «Io...», stavo per dire che avrei fatto lo stesso, ma Nathan si era già rintanato. «Io vado in camera», dissi a me stessa dondolandomi sulla punta delle dita e sui talloni. 
Non mi sarei aspettata una risposta. 

«Io starei attenta, fossi in te», sussurrò una voce flebile alle mie spalle.
Era come una carezza che entrava delicatamente nel canale uditivo, e si accucciava lì senza fare ulteriore rumore.
Mi voltai di scatto, quasi inciampando nei miei stessi piedi, ancora dovevo abituarmi ai pantaloni stretti sulle gambe.

«Chi ha parlato?» domandai sperando di non ricevere alcun tipo di risposta.
Doveva essere la stanchezza.
Alla caduta verso la pazzia ero pronta, ad un ospite inopportuno e minaccioso, no.
Volevo solo dormire.

«Qua sopra.»
Alzai gli occhi verso il lampadario di vetro che pendeva imponente dal soffitto, e tirai un dubbioso sospiro di sollievo a vedere un varjos fare capolino dalle pietre, che proiettavano la sua luce come piccoli fiocchi di neve.
Mi ci volle qualche secondo per capire quanto la situazione fosse al limite dell'assurdo, del terrore persino.
Riformulai il pensiero: non ero pronta nemmeno alla caduta verso la follia.

«Parli?»

Le parole mi uscirono gutturali, prive di senso, mentre le mani sfregavano nervosamente gli occhi.
Mi stupii di essere riuscita a parlare, ma ancora di più che quella fosse stata l'unica parola ad uscire.
La vedevo, non c'era una scusante. Ero sicura di essere sveglia, la pelle mi faceva male tra le unghie del pollice e indice.

«A volte», rise il varjos, «non tutti mi stanno simpatici.»
La voce era femminile, ma le continue fluttuazioni dell'Energia non mi permisero di associarvi un volto definito. Era un miscuglio di colori e odori, tendenti al legno vecchio e naftalina, con una punta di zucchero.
Arricciai il naso.

«Ti ripeto, starei attenta. Non penso dormirete stasera.»

«Senti, non so perché io possa sentirti ma vorrei ti levassi dalla mia testa.»

Lanciai un'occhiata rapida verso le porte di Nathan e Nora, ma entrambe erano chiuse, la chiave girata inevitabilmente nella serratura, il pennacchio del pomello che mi salutava deluso.

«Ti tranquillizzerebbe sapere che non sei la prima che può sentirmi?» domandò l'ombra facendo muovere quelle che parevano dita in una danza macabra.
Premetti le mani sulle orecchie, serrando forte, ma la voce era comunque intenta a rimbombare nella mia testa.

«Chi altro può sentirti?»

Il ticchettio dell'orologio di Nathan abbandonato sul divano stava inondando la stanza di un lieve sciabordio, come se la sensazione di nausea che mi arraffava lo stomaco non fosse abbastanza.

«L'ultima volta è stato dodici anni fa, ma è comunque qualcuno, mia cara.»

Prima che potessi chiederle ulteriori spiegazioni, sentii due mani callose afferrarmi da dietro, tappandomi la bocca, e fui costretta a soffocare un urlo mentre l'Ombra svaniva dalla mia vista, un sorriso triste impresso sulle invisibili labbra.

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Sono cattiva perché il prossimo capitolo è su Erdelia, quindi per sapere cosa succede a Ariadne dovrete aspettare un po' 👀
Spero che questo primo capitolo all'Accademia 🗡️ vi sia piaciuto, ditemi che ne pensate 🤍
Un bacio

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