1.2 • Acque ordinarie

"Ci sono corde nel cuore umano
che sarebbe meglio
non fare vibrare."
Charles Dickens

Song: Willow - Taylor Swift

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«Arriviamo», sentii dire dalla proprietaria in lontananza. La fonderia era piccola, ma con i soffitti talmente alti da creare un'eco alquanto rimbombante.

Mi appoggiai al bancone con i gomiti, posando la testa fra le mani. Era uno dei pochi modi per far si che smettessero di tremare.
Mi guardai intorno come facevo sempre, alla ricerca di un cambiamento o di piante a cui dare da bere.
Le uniche che sopravvivevano lì dentro erano due piante grasse che annaffiavo personalmente una volta al mese, e non all'insaputa dei proprietari.
Anche le pareti interne erano di un bianco panna, macchiato in alcuni punti da quelle che sembravano tracce di carbone. Per il resto, l'ingresso era ordinato come sempre, senza un filo di polvere e illuminato da delle candele messe nei quattro angoli della stanza su dei piedistalli di ferro.

«Dimmi tutto.»

Mi girai di scatto quando avvertii che la voce non era la stessa che mi aveva risposto prima. Sapevo da chi provenisse, semplicemente non ero più così solita sentirla.
«Ciao Nathan», dissi sorpresa,  quasi inciampando sui miei stessi piedi. Non avevo le stringhe slacciate. Lui sembrò non notarlo o, almeno, fu così educato da fingere.

«Ciao Ariadne, come stai?» Arrossii.

Onestamente, volevo scappare. Uscita di casa non pensavo avrei dovuto intrattenere così tante conversazioni nel giro di neanche due ore e pensavo che a darmi le lampade a elettro sarebbe stata sua madre, una donna riservata e di poche parole. Una santa.
Il figlio era ben altro soggetto.

«Bene ehm... Mi servirebbero le venti lampade che ha ordinato mio padre», cercai di tagliare corto, seppure nella mia testa mi rimproverai da sola. Così sembri solo maleducata.
Sorrisi. Non recuperi niente. Avvampai, faceva troppo caldo lì dentro.

«Sto bene grazie, tu?» Mi schiarii la voce e alzai le spalle, allungando la schiena.
Mi passai un dito fra i capelli e spostai una ciocca ribelle scappata dalla treccia dietro l'orecchio. Con i polpastrelli toccai la voglia che avevo sulla guancia, e la sua ruvidezza mi tranquillizzò come sempre.
«Bene. Venti hai detto giusto?»

Annuii e tirai un sospiro di sollievo mentre lo guardai scomparire dietro la tenda verde che portava al magazzino.

Ero stata sempre più insicura davanti alle persone che conoscevo rispetto agli sconosciuti, e spesso la cosa mi aveva fatta passare per altezzosa e arrogante.
Non che non fossi orgogliosa -lo ero fin troppo- ma sentire le voci che giravano sul mio conto a scuola non mi faceva sentire al settimo cielo. Al corso di avviamento per i Medici non stavo simpatica a molti, ma pensavo fosse più per il fatto che fossi figlia del Primo Medico piuttosto che per le mie abilità.

Mi avevano additato tutti sin dal primo giorno, per timore o antipatia reale non avrei mai saputo. Lauren, la mia vecchia amica di infanzia, forse mi avrebbe potuto dare le risposte che supplicavo, se solo non avesse deciso di iniziare a odiarmi pure lei.

«Eccole qui.» Nathan tornò subito con due casse piene e le appoggiò sul pavimento di terracotta. Vidi il mio cognome scritto a caratteri cubitali sul lato più grande.

Continuò: «Te le metto su un carrellino?»
Annuii e lo guardai un po' di lato, inclinando la testa a sinistra.

«Ti posso dare una mano a caricarle su», non la posi come una domanda, ma il mio tentennamento interiore forse la fece apparire come tale.

Sapevo che fare lo sforzo di sollevare anche solo una delle casse mi avrebbe fatto aumentare i tremori alle mani per almeno i venti minuti successivi, ma non mi andava di starmene ad aspettare mentre Nathan faceva tutto il lavoro per me.
Nonostante la corporatura generalmente snella, era abituato a lavorare con elettricità, fuoco e metalli e questo gli aveva permesso di sviluppare dei muscoli su spalle e braccia che quando era più piccolo non aveva. Anche quest'anno per lui ci sarebbe stato il Rituale, avevamo la stessa età, ed ero sicura che appena i suoi sarebbero andati in pensione sarebbe diventato un ottimo successore per l'attività di famiglia.

«Se vuoi... » E si fece da parte per lasciarmi una delle casse. Sapeva che mi piaceva fare le cose per conto mio, ma allo stesso tempo trovava sempre un modo per aiutarmi.
«Voglio. Grazie.» Sorrisi e mi piegai per afferrare i bordi inferiori del contenitore. Pesava, ma meno di quanto mi aspettassi.

Mi tirai su lentamente e aspettai che Nathan posizionasse il carrellino di fianco ai miei piedi, per poi lasciar andare delicatamente la cassa. Lui fece lo stesso e fissò tutto con della corda un po' sfilacciata.

Lo guardai mentre le mani rovinate e piene di cicatrici annodavano la corda: la ritorsione dell'Elettro. L'alternanza tra pelle più scura e pelle bianca mi fece pensare alla mia guancia ed era una cosa che mi aveva sempre calmata in sua presenza, anche se non glielo avevo mai confessato.
Si rialzò in piedi scuotendo i capelli per toglierseli dagli occhi, e la luce delle candele venne riflessa su di essi come piccoli bagliori dorati.

Mi sorrise e disse: «Ecco fatto. Mi sembra tutto a posto.»
Annuii soddisfatta anche io e mi misi le mani a pugno sui fianchi.
Lui rise e mentre si preparava a tornare nel lato della fonderia mi chiese: «Hai il turno pomeridiano oggi?»
Misi le mani sul carrello e mi guardai gli stivali.

«Sì, con Lauren e quel gruppo», risposi facendo un gesto svogliato con la mano.
«Buona fortuna.» Me ne serviva.

Dalla postura allungata verso di me mi sembrò che volesse dirmi altro, ma sua madre urlò dall'altra stanza: «Nathan servono altre scariche», e lo vidi diventare rosso in viso.

Lo anticipai per togliergli l'imbarazzo: «Grazie mille per l'aiuto, ci... vediamo.»

Lui mi salutò a sua volta, e poi si rintanò da dove era provenuta la voce della madre.
Io uscii cercando di non fare rumore, accostando piano la porta.

Tirai fuori dallo zaino il panino che mi ero preparata in fretta e furia prima di uscire di casa, e mangiai mentre facevo una pausa prima di tornare in superficie. Muovevo i piedi su e giù e mi divertivo a far saltare da una scarpa all'altra una piccola goccia d'acqua.

Misi il tovagliolo nello zaino e mi sgranchii le mani: avevo ragione. Le dita tremavano per lo sforzo di sollevare le casse e avevo i palmi arrossati dallo sfregamento.

Nonostante il dolore, chiusi gli occhi e mi concentrai; visualizzai un piccolo strato di acqua avvolgermi la pelle e, appena iniziai a percepire il freddo, contai.

Uno. Due. Tre.

L'acqua è calma.
L'acqua scorre e travolge.
L'acqua è dentro di noi e intorno a noi.
Respira come l'acqua.

Aprii le palpebre e vidi davanti a me le mani tornate del solito rosa pallido, il dolore diminuito.
La diagnosi che ebbi finalmente a dodici anni fu di una sorta di tremori, una malattia neurologica cronica che ha solo trattamenti sintomatici, ma niente cure. Ovviamente.

A dire che non avevo capacità in campo magico sarei stata irriverente, ne avevo, era ciò che facevo da quando avevo iniziato a respirare.
Ma non avrei mai ammesso che utilizzavo almeno il doppio dell'energia impiegata dagli altri, poiché ne disperdevo come se fossi un faro in sovraccarico: concentrare la Magia in un solo punto mi era impossibile. Per ogni tremore controllato, una parte di me andava in quella direzione.
Ero più stanca degli altri, più costretta a concentrarmi. Nella mia testa, era come se dovessi dimostrare più degli altri, non bastava essere la più brava: dovevo essere perfetta. Dovevo eccellere in tutto quello che facevo, altrimenti il nome di mio padre sarebbe rimasto una zavorra attaccata alla mia caviglia per sempre.

Urlai per la frustrazione e benedissi il fatto di essermi messa vicino alla cascata dell'uscita, così il suo rumore forte riuscì a coprire il mio.
Mi sentii meglio dopo lo sfogo e, con un grande respiro, mi preparai ad affrontare quella meraviglia che era Lauren.

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