Giorno 2 - Tarda mattinata

Cosa cazzo era successo? In un colpo, l'unica persona in grado di aiutarmi — l'unico parente che avevo in questa cittadina di merda era morto! Morto!

Non riuscii nemmeno a comprendere cosa fosse successo, tant'era la velocità con cui tutta questa merda si era presentata a me. Era tutta colpa mia, tutta quanta! Non sarei dovuto venire qui, non avrei dovuto restare tutto quel tempo fuori, e non avrei dovuto accettare la sua richiesta di farmi andare via. Sarei dovuto andare in galera, ecco cosa avrei dovuto fare!

Mi ero allontanato dal relitto il più che potevo, ed ero su una scogliera frastagliata sul mare, distante dalla cittadina. Con me avevo unicamente la valigia, e i miei pensieri negativi.

Il mio primo pensiero fu quello di chiamare immediatamente mia madre, per dirle dell'incidente. Ma non trovavo il telefono. Cercai ovunque dentro la valigia, senza alcun risultato. Ero isolato dal mondo, e l'alternativa sarebbe stata tornare in cittadina, e rischiare la cattura solo per contattare mia madre.

Sbottai. "Cazzo!" Sbraitai più e più volte. Cominciai a battere i piedi per terra, e ci mancava solamente che avessi preso la valigia a calci.

Stavo ancora sbottando quando vidi, in lontananza, un complesso di case rovinate. Sembravano lontane dalla cittadina, e magari avrei potuto trovare riparo. Cercai di recuperare la calma, e mi misi in cammino.

Non sapevo quanto tempo ci avessi messo a raggiungere le case, ma in quel momento mi parve di averci messo i secoli. E pensare che la valigia che avevo non era nemmeno così pesante. Mi sentivo così stanco. Non ero al livello in cui mi sarei messo alla ricerca immediata di un letto, ma quasi.

Le case, viste da vicino, erano quelle di un quartiere decadente. Come se gli abitanti di Fork Lake avessero abitato qui prima e poi si fossero trasferiti nella zona che abitavano al momento del mio arrivo. Le case avevano l'aspetto di quelle classiche americane, con il loro design semplice, i tetti spioventi, e le dimensioni contenute. Ma avevano i colori sbiaditi e le mura danneggiate più o meno vistosamente, per non parlare del muschio o delle lunghe piante che decoravano ulteriormente due di quelle. Da una delle finestre, si poteva vedere una luce accesa, e l'idea che in queste case funzionasse ancora l'elettricità mi stupì.

"C'è nessuno?" Dissi.

Se fossero state vuote, avrei potuto usare una di quelle come rifugio personale fino a quando non sarei scappato a gambe levate da questo posto. Se invece avessi trovato anima viva, avrei potuto soltanto sperare che non mi facessero nulla.

Quattro persone uscirono da quelle case. Dopo nemmeno due secondi, però, iniziarono a correre verso di me. A vista avevano la mia età, ed erano armati di fucile. Sembravano dei militari, per come si muovevano!

Nel giro di pochi secondi mi circondarono, togliendomi qualsiasi possibilità di fuga. Non ero il benvenuto, e non avevo nemmeno le forze per scappare!

"Non sparate" dissi, con quel poco di fiato che avevo. "Vi prego. Non voglio farvi del male!"

Ero stato colto di sorpresa, ed erano già il secondo gruppo che voleva farmi del male. E se già tre uomini a mani nude mi avevano steso, cosa avrebbero potuto fare loro di me?

"Sei un abitante della cittadina?" Chiese una di loro, una lupa agguerrita, grossa e muscolosa, vestita con abiti intrisi di pattern militari.

"Cosa? No!"

"Tu dici?" Mi rispose sempre lei. Gli altri continuavano a guardarmi con sguardi truci.

"Stavo andando via! Mi hanno cacciato. Mi hanno accusato di aver aggredito un abitante."

Nessuno di loro fu totalmente convinto dalla mia spiegazione. Non feci nemmeno in tempo a dire di mio zio.

"Perché lo hai fatto?" Chiese un altro, un pastore tedesco.

"Volevano violentare una ragazza."

"Che cosa fate?" Si sentì in lontananza. Alzai lo sguardo, ed era proprio la Shiba Inu d'ieri, accompagnata da una volpe artica maschio, con solo il pantalone addosso.

"È lui, quello che mi ha aiutato. Non sparate!" Disse subito.

"Abbassate le armi" ripeté la volpe artica. "È un ordine."

A vedere da vicino la volpe, non era grossa quanto la lupa, ma aveva un fisico piuttosto tonico. Questo mi sorprese e mi preoccupò allo stesso tempo. Erano dei fottuti militari della mia età!

Dopo le parole di lui, i ragazzi abbassarono le armi, e alcuni si spostarono per lasciar passare la volpe. Il suo sguardo suggeriva che fosse ancora sospettoso di me. I suoi occhi gialli mi diedero timore fin da subito.

"Hana mi stava raccontando quello che era successo ieri" disse la volpe.

"Chi è Hana?" Chiesi.

"Sono io" rispose la Shiba Inu.

Sfruttai l'occasione per chiederle scusa davanti agli occhi della volpe, che ancora mi fissavano:

"Ieri avevo provato a fare il possibile, ma non è bastato."

"Sembri un attore, lo sai?" Mi rispose proprio la volpe, anticipando la ragazza. "E poi, tu sembri uno forte. Appunto, lo sembri."

"Ti posso garantire che ho provato tutto quello che potevo per difenderla."

Non sopportavo l'idea di essere umiliato così, malgrado il mio fallimento. E non avevo ancora finito di parlare:

"Avrei potuto ignorarla e lasciare che loro..." ...facessero tutto quanto impuniti. Invece erano rimasti impuniti nonostante il mio intervento. Anzi, avevo messo loro nella ragione. Restai lì, immerso di nuovo nel mio senso di colpa.

"Ti ringrazio per averci provato" intervenne Hana. Mi si avvicinò, e volle baciarmi la mano.

"Aspetta, io..."

Non me lo meritavo. Lei si fermò.

"Scusami" rispose.

"Per via di quello che è successo," continuai, "mi hanno cacciato, e stavo cercando di tornare a casa—"

Ma la volpe artica mi interruppe subito:

"Visto che non sei di queste parti, è meglio che te lo ficchi in testa. Da questo posto non scappi. Vale per tutti noi, te incluso."

"Che cosa?"

Quella voce spettrale mi disse la stessa identica cosa! Non ci potevo credere!

"Ha ragione" disse una Retriever. "Abbiamo provato più volte a fuggire da Fork Lake, e in ogni modo possibile. Ci sono delle forze, degli spettri, che ci impediscono di andare via. Immagino abbiano attaccato anche te. Quando provai a fuggire a piedi, uno di loro mi succhiò quasi tutte le energie, e fu un miracolo che non morii."

Sembrava convincente. E io non avevo obiezioni, e men che meno avevo voglia di provarci lo stesso, specie dopo quello che avevo già passato.

"Questo vuol dire che..."

"Puoi unirti a noi" disse Hana. "Nessuno di noi qui sarebbe durato un giorno da solo."

"Fai sul serio?" La lupa non era per nulla convinta. E nemmeno io.

"Non sapete nemmeno come mi chiamo, tanto meno io so i vostri nomi."

"Silenzio" disse ancora la volpe artica, e poi si avvicinò da me. "Puoi chiamarmi Jim. Sono il capo della banda."

Tutti gli altri lasciarono a terra le armi, e mi dissero uno a uno i loro nomi.

"Io sono Enrico" disse il pastore tedesco, calmo.

"Elise, vice capo" disse la lupa, ancora sospettosa.

"Caroline, piacere" disse la Retriever.

"E io sono Hana" disse Shiba Inu, facendo un breve inchino.

"Io sono Ethan" dissi.

Mi sentivo un po' più tranquillo. Avrei voluto tanto sapere il perché dell'azione di quelle forze, del perché non ci lascino andare, ma per il momento ero confortato dal sapere che non ero solo. Certo, ero ancora isolato dal mondo, ma forse a questo avrei trovato una soluzione.

Restava da decidere che cosa avrei fatto dentro di questo gruppo. Non conoscevo nessuno di loro, e Jim decise d'incontrarci tutti quanti alla mensa, lui così diceva, per fare conoscenza. Tutti noi accettammo, e Jim stabilì che ci saremmo visti a mezzogiorno.

"Io e Jim abbiamo ancora delle faccende da sbrigare" disse la lupa. "Ci vediamo a pranzo."

E andarono via.

"Ragazzi" disse Caroline. "Se lui deve rimanere, dobbiamo decidere in quale casa deve andare."

"Certo" risposero. Mi chiesi quali scelte avevo.

"Ci sono cinque case. In una ci abita Enrico da solo, in un'altra ci sta Mark, un altro di noi. Quella lì è di Hana, quell'altra è di Elise e Joel. E poi ne sta una di Jim."

Le case indicate erano tutte attorno a noi. Ce n'erano anche delle altre, ma già a vederle da lontano erano tutte distrutte. Avevo comunque una buona scelta. C'era un solo problema: in tutti i casi avrei dovuto convivere con uno di loro.

"Non ci sono case vuote, quindi?" Chiesi.

"No" mi rispose seccata Caroline.

"Sei indeciso?" Chiese Hana. "Possiamo tirare a sorte."

"Decidete voi" dissi.

"Puoi venire da me" si fece avanti Enrico, tra loro.

Non avevo motivo per rifiutare. "Va bene. Accetto."

Mi accompagnò in silenzio verso casa sua, e nel frattempo mi soffermai sul suo viso. Era quello di un normale pastore tedesco, con i suoi occhi nero pece e la pelle marrone scuro e nera, con un neo sotto l'occhio destro, ma c'erano un paio di macchie beige, una delle quali sotto il collo, e parzialmente coperta dalla maglietta verde che aveva Enrico.

"Pecché mi guardi?" Disse ridacchiando, con una voce roca.

"Scusa."

Non avevo capito cosa avesse detto, ma era chiaro che in quel momento fossi stato scortese.

La sua casa all'esterno era come le altre, e all'interno invece aveva un po' di cura, per quello che era possibile. Ebbi nuovamente una conferma che in quelle case funzionava l'energia elettrica. Certo, la luce era debole e instabile, ma funzionava. Il resto della casa aveva degli arredi vecchi e polverosi, ma nel complesso era decente a vedersi. Mi aspettavo peggio.

"Accomodati" mi disse Enrico.

E presi posto sul grande divano marrone che c'era in salotto. Non aveva un buon aspetto, ma almeno era abbastanza comodo.

Enrico stava cercando qualcosa tra i mobili della cucina, poco distante da me. Mentre cercava, parlò di continuo ad alta voce, e non in inglese. Forse penserei anch'io ad alta voce di continuo se dovessi vivere da solo.

E la mia mente si fermò, ancora una volta, sull'immagine di quella mattina. Mio zio, e la sua macchina. Dio del cielo, non avevo avuto nemmeno la possibilità di dir loro che era morto cercando di aiutarmi. Non potevo pensare altrimenti.

"Mio zio è morto" mi venne da dire ad alta voce. Mi misi le mani sulla testa.

"Altra vittima di quegli stronzi" mi rispose Enrico.

Non capii molto di quello che disse, ma come poteva considerare tutto questo normale? Il tono che aveva non esprimeva sorpresa, o rabbia. Non esprimeva alcuna emozione.

Aspetta! Forse conoscevo quella lingua. Dovevo pensarci meglio.

Enrico venne da me poco dopo, con un sacchetto di mandorle:

"Ne vvuo' qualcuna?"

Scossi la testa. "Cosa?"

"Scusa" mi rispose, "dico... queste."

"Non ho fame, grazie."

"Ah..."

Lasciò il sacchetto vicino a lui sul divano.

"Avete un telefono, qualcosa del genere?" Chiesi.

Per come funzionava la corrente in queste case, era un azzardo chiedere una cosa simile.

"No, niente."

"Perdonami, ma come mai?"

"Mark dice che... Mark c'ha ritt che i' possn usa' ppe scovàrc cchiu' facilmente."

"In che lingua parli?" Chiesi sorpreso.

"Scusa" mi ripeté demoralizzato. "Il mio inglese fa schifo. E parlo napoletano. Italiano."

Napoletano. Se c'era una cosa per cui avrei voluto ringraziare mio zio in quel momento, sarebbero stati i viaggi in Italia che abbiamo fatto, e anche le nozioni d'italiano che ho avuto da lui.

Enrico continuava a muoversi e comportarsi in maniera impacciata. Come mai aveva scelto di ospitarmi a casa sua allora?

"Va tutto bene?"

"Sì, certo."

"Se per te è più comodo, io so qualcosa d'italiano."

Con la pronuncia più pezzente possibile, ma era meglio di nulla.

"Te pòsso chiedèr i' parlàr in italiàno fìnché puoì?" Mi chiese lui, sorpreso.

"Certo, certo."

"Ottimo! Desideri... qualcosa?"

Enrico stava arrossendo, e non potei fare a meno di notarlo. Aveva una voce roca, da maschiaccio, e un viso carino. Uno strano mix.

"Questa giornata mi ha stancato molto" dissi.

"'O letto è tutto tuo, se vuoi."

Seguii Enrico in camera sua. Una luce, di un caldo colore arancio, illuminava a fatica la stanza. C'erano solo un letto, composto da un materasso e un lenzuolo, e un mobile. Enrico mi sistemò velocemente il letto, e si assicurò che non puzzasse troppo, poi si voltò:

"Ti sveglio io quando dovremo andare. Ok?"

"Va bene."

"Un'ultima cosa. Me spiace ppe zieto." (Mi spiace per tuo zio.)

Sospirai. "Grazie."

"Dopo 'o dici agli altri, e vediamo cosa fare."

Spazio dell'autore

Yeap, in questa parte volevo provare a usare un diverso divisore di pagine, giusto per vedere come veniva.

Povero Ethan. Nemmeno il tempo di scoprire la xenofobia del posto, e gliene capitano di tutti i colori! Cosa ancora più grave... siamo solo all'inizio.

Dai, consoliamolo un po'.

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