9. the scientist
Michael
Già dall'istante in cui aprii gli occhi quella mattina, realizzai che quel sabato sarebbe stato l'eccezione alla regola. La sveglia suonò squillante e subito sbuffai sapendo che non mi sarei potuto permettere il lusso di dormire fino alle due del pomeriggio. Tuttavia l'orologio della camera degli ospiti di casa Irwin, segnava le dodici in punto e la lista delle cose da fare si srotolava fino a sfiorarmi le punte dei piedi. Mi misi l'anima in pace e mi diedi una mossa. Controllai che Ashton stesse bene, pranzammo e poi uscii di casa a sbrigare il resto degli affari, concedendo persino una breve visita ai miei genitori.
In fin dei conti non era cambiato molto rispetto alla mia solita routine e l'astensione di frequentare le lezioni al college rimaneva inamovibile. Mi definivo un imbecille terribilmente apatico e goffo, ma c'era chi non la pensava allo stesso modo; facevo i salti mortali per tenermi stretti quei pochi poveracci, ché sapevano sopportare la pigrizia e accettare le mie assurdità, le idee irrealizzabili ed il mio umore instabile. Cosa ci trovassero in me, me lo chiedevo ogni tanto...
Di ritorno a casa, osservai distrattamente il sole tramontare tra le abitazioni del quartiere dove eravamo cresciuti; Payton Creek non si era mai saputo distinguere dal resto degli agglomerati di Brighton, eppure io ci immaginavo il potere di personificarsi in una nonna dalle braccia aperte capace di ripararmi il cuore.
Nella penombra della cameretta in cui noi ragazzi eravamo cresciuti, Ashton ronfava tra le coperte multicolore del suo letto; Fudge era seduta accanto a lui e gli accarezzava delicatamente il viso. Bastarono cinque giorni in quella casa per darmi la conferma che quella ragazzina avrebbe venduto l'anima al Diavolo per suo fratello. La scorsa notte aveva passato le pene dell'Inferno, e con lui anche noi due. Sebbene il medico ci avesse avvertiti della possibilità di assistere a qualche più che giustificata crisi respiratoria, lei era scoppiata in un pianto isterico che riuscì a sopprimere solamente quando Ashton si addormentò. Sapevo quanto fosse moralmente sfinita dopo quell'esperienza e non potevo sopportare che avrei difficilmente scorto un sorriso sulle sue labbra nei giorni a seguire; così quel pomeriggio mi presentai con una cioccolata calda, consapevole di quanto andasse pazza per le tazze fumanti.
"É stato male di nuovo" sussurrò "ho fatto come stanotte." Potevo distinguere gli occhi arrossati e lo sguardo disilluso. Da quando quei coglioni dei suoi erano andati via, aveva imparato a ricostruire la tenacia tassello dopo tassello, ma questa è un'altra storia... "Brava, pulce. Si riprenderà presto, vedrai."
"Non voglio che si riprenda presto, ma che si riprenda subito" mormorò con voce spezzata "mi addolora vederlo in queste condizioni e forse avrei potuto evitarlo se non avessi ignorato i sintomi di qualche giorno fa." La avvolsi tra le mie braccia e la strinsi forte, dondolando a ritmo della melodia nella mia testa: volevo che la sentisse anche lei, con l'emotività e la sensibilità tipica del suo grande cuore pulsante.
"Non iniziare, Fudge" la ammonii "devi avere pazienza, sono cose che succedono. Questa situazione finirà presto e io mi leverò finalmente dai coglioni" annunciai prima di percepire una flebile risata contro il mio petto. Aveva pianto in silenzio sulla mia felpa, me ne accorsi da come fosse leggermente umida dove lei aveva accucciato il viso assonnato. "Tu sei l'unica situazione che vorrei non finisse" sussurrò.
Ad essere totalmente sincero, ne rimasi di stucco. Potevo considerarmi fiero di me stesso e poche volte nella mia vita lo ero stato. Non era un caso che sfoderassi le mie migliori qualità in sua presenza, anzi diventava una predisposizione comune a chiunque. Aveva la luce negli occhi. Ma la verità è che mi sentivo fortunato: lei era un bellissimo dieci ed io ero un cazzo di quattro.
Le presi il viso tra le mani e la baciai dolcemente infischiandomene dell'ignaro Ashton che dormiva indisturbato nella stessa stanza. Tenne gli occhi chiusi qualche secondo in più, anche dopo essermi allontanato da lei con un impercettibile schiocco; poi li riaprì e mi sorrise arricciando il naso. "Sento odore di cioccolata" fiutò improvvisando una vocetta sottile. Le si illuminarono gli occhi quando le porsi il bicchiere ancora fumante. Mi abbracciò ancora e disse che mi voleva bene, chiamandomi Mikey come faceva da bambina.
Grazie al cielo, Ashton non ebbe altre crisi; dormì a lungo finché una voglia matta di banana split imperversò su di lui. Fudge si rincuorò nel guardarlo consumare voracemente la sua cena e rivolgerci alcune delle sue battute più divertenti. "Non voglio pensare di star trascorrendo il sabato sera in malattia" bofonchiò scuotendo la testa "dovreste uscire, non siete costretti a stare in casa per colpa mia."
"Discorso chiuso, accetta il tuo destino" risposi. "Non lo farò, piuttosto torno a dormire."
"Buonanotte, Ashton" ridacchiò lei prima di ricevere un'occhiataccia da parte sua. Fingemmo di congedarlo impazientemente come se volessimo togliercelo dalle palle, come se aspettassimo di rimanere soli. Comico che in realtà non stessimo affatto fingendo... Lei mi rivolse uno sguardo intriso di tenerezza, quasi amareggiato che io tradussi come una richiesta d'aiuto, un "vieni via con me". Il Michael di quei tempi non ci avrebbe pensato due volte, l'avrebbe portata in capo al mondo o semplicemente in riva al mare; il problema si incanalava nell'inconsapevolezza che, ancora una volta, mi fossi fottuto da solo: se c'era qualcuno che doveva essere salvato, quello ero io. Non volevo considerare la minima eventualità, ma vivere alla giornata e fasciarmi la testa solo dopo averla rotta, malgrado sapessi che a breve sarebbe successo. Quella frattura si era già modellata nella mia coscienza e aveva un nome: Julie Dixon. Invece, la piccola Irwin veniva prima di tutti, di tutto. Era chiaro che fossi innamorato di lei, come ovviamente lo ero della musica, del sesso, dei miei amici e dei miei genitori. Non riuscivo a privarmi di tutto ciò e, prima o poi, quella debolezza mi avrebbe trasformato in un cazzo di campo minato.
Quella notte ci fu un blackout. Io e Fudge stavamo guardando in tv un concerto degli Aerosmith quando la luce andò via. Non avevo dimenticato la sua fobia, al contrario, era l'unico tarlo che mi tormentava quando stavo con lei: ero terrorizzato dal dubbio che non sarei riuscito ad aiutarla, a rassicurarla come facevo ultimamente; la paura del buio era diventata anche un po' mia.
"Merda" imprecò. La cercai nel buio e la presi tra le braccia, ma il suo cuore iniziò a tamburellare come un forsennato; il respiro non era regolare dal momento in cui si accorse di essere piombata nel suo inferno personale. Il buio si era avventato contro di noi senza alcun preavviso, senza bussare alla porta e senza alcuna presunta giustificazione.
Nella sua bolla claustrofobica, mi supplicò di prendere in mano le redini: "Michael fa' qualcosa, ti prego" ancora e ancora... Stringeva forte la mia mano e io stringevo forte la sua, potevo fare solo quello. Ero un cazzone.
"Fudge, l'unica cosa che possiamo fare è aspettare che torni la luce" sussurrai accarezzandole i capelli, fingendo di non essere anch'io nel panico più totale. Il rifiuto di accettare le mie parole arrivò immediato e agitato dal tremore, in un semplice monosillabo: "No". Mi pregò di trovare una soluzione istantanea ed efficace, ma nulla nella mia testa voleva disilludermi che ne esistesse realmente una.
"Sta' calma, non può succederti nulla" ripetei stringendola calorosamente. Nascose il viso nell'incavo del mio collo come se volesse proteggersi dall'oscurità e quasi simultaneamente, la sentii respirare a pieni polmoni. Sin da quel giorno, adoro insistere che fu tutto merito del mio odore.
"Ho paura! Sto letteralmente rivivendo tutte le scene dei film horror che ho visto vita mia!" protestò piagnucolando. Ridacchiai brevemente, ma le sue dita stringevano ancora il tessuto della mia felpa. Avevo sempre pregato che nulla di tutto ciò accadesse in mia presenza, ma allo stesso tempo non mi ero mai preoccupato di premeditare una scappatoia. Sembrò che la temperatura attorno a noi fosse scesa sotto lo zero: lei tremava come una foglia e io avevo terminato i fiammiferi.
"D'accordo, ti canto una canzone" proposi con esitazione. L'irritante vocina della mia coscienza mi insultò più e più volte: "Complimenti, Michael... ottima trovata."
"Concentrati solo sulla mia voce." Lei annuì energicamente; mi diede l'impressione che avesse fiducia in me più di quanto ne avessi io in lei. Iniziai a intonare una vecchia canzone dei Coldplay che mia madre trasformava in una favola della buona notte quand'ero un marmocchio. Parlava di uno scienziato la cui professione ne aveva assorbito a tal punto il tempo e le energie da trascurare la persona amata, ma quando finalmente riconobbe i suoi errori, comprese che il cuore aveva il sopravvento sulla scienza. La voce di mia madre era talmente armonica e vellutata che i miei occhietti, ancora immuni all'insonnia, mi catapultavano quanto prima tra le braccia di Morfeo.
Mentre cantavo, Fudge sembrò rilassarsi inaspettatamente nonostante avessi azzeccato sei note su venti. Potevo scommettere che fosse principalmente assorta nella sfacciataggine con cui quelle note esalavano dalle labbra di qualcuno che impiegava tutto il suo tempo a fabbricarsi addosso una corazza di metallo. Curioso come riuscii a rinunciare al lusso di poter restare appallottolato nel mio guscio; forse anch'io avevo momentaneamente spostato la testa su una scienza a parte.
Con un timido sorriso stagliatosi tra le pieghe della mia felpa, intonammo insieme la fine della canzone, e fu a quel punto che raccolsi quanta più disinvoltura possibile per pronunciare le ultime parole prima che lei si addormentasse come un ingenuo Michael di otto anni: "Ogni volta che si spegne la luce, cantala e vedrai che non avrai più paura."
Sapevo bene di non aver trovato la formula magica contro la sua paura del buio, ma speravo che potesse aiutarla a distrarsi, tramutare l'oscurità in musica. Con me funzionava, eppure quella sera raggiunsi un livello di efficienza che meravigliò persino la mia versione più scettica: le avevo regalato una parte di me e avevo deposto la mia armatura da imbecille indispettito. Consumai dei sentimenti, ma poi ne pagai il prezzo.
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