6. home

Michael
Il giorno del compleanno di Ashton mi svegliai di soprassalto dal mio riposino pomeridiano, disturbato dal potente suono di un clacson che per mia sfortuna conoscevo alla perfezione. Mi preparai svogliatamente e uscii di casa strisciando i piedi, stropicciandomi gli occhi e sbadigliando.

Non appena lo sguardo color nocciola di Calum Hood incappò nella mia figura, scoprii di star involontariamente incarnando un personaggio piuttosto buffo per il modo in cui il moro rideva a crepapelle. Quello fu il motivo per cui il primo sbuffo annoiato sfuggì dalle mie labbra, ché quell'idiota trovava sempre da ridere per ogni stronzata. Saltai sui sedili posteriori della sua orribile auto color menta e ci dirigemmo verso casa Irwin. Calum continuò a sfottermi per dei secondi interminabili, mentre le appuntite unghie colorate della sua ragazza, seduta accanto a lui, passavano in rassegna sul cellulare immagini di gonnelline inguinali e tacchi vertiginosi.

Quello che sarebbe dovuto essere il mio migliore amico non sembrava volermi particolarmente bene quella sera, dal momento che, subito dopo aver cessato di smascellarsi dalle risate, riattaccò a discutere animatamente con la sua dolce metà, che poi così dolce non sembrava proprio: il suo verso assomigliava vagamente a quello di una gallina in calore e miei occhi bramavano dieci minuti di sonno in più.

Giunti a destinazione, fuggii al piano di sopra maledicendo quei due rompicoglioni ed eliminandoli dal mio irritabile raggio visivo. Non ero minimamente di buon umore. Ultimamente era raro che lo fossi, ma nessuno si stava impegnando a rendermi la vita più facile. Al contrario, venivano a raccattarmi con due ore di anticipo interrompendo le mie pennichelle e mi devastavano i timpani con stupidi discorsi futili da crisi di coppia; a me che bastava un briciolo di leggerezza per migliorarmi la giornata.

Tuttavia, finivo sempre per annullarmi e, anche quella sera, mi decisi ad accontentare tutti: mi vestii elegante attenendomi al significato che quel termine avesse per me e per il mio guardaroba disastrosamente disordinato. Elegante era la traduzione di pantaloni neri e chiodo di pelle. Mi era stato severamente raccomandato di non conciarmi come al mio solito, ovvero come se avessi pescato alla cieca il primo completo nero nell'armadio. La risposta ai miei contrariati perché aveva a che fare con uno dei locali più gettonati della città, ed io ero sempre stato quello a cui non fregava un cazzo.

Va da sé che dopo essere stato costretto a sopportare tutta una serie di disappunti, il mio animo tormentato avesse iniziato una frenetica ricerca della leggerezza di cui aveva bisogno.

Bussai alla porta e quasi simultaneamente una vocina indaffarata mi rispose: "Chi è?"
"Il fattorino delle pizze!" annunciai. Fudge spalancò la porta e si appoggiò sorridente allo stipite. Indossava una gigantesca maglia bianca inzuppata qua e là dalle gocce che le grondavano dai capelli bagnati.
Sorrisi: era leggera come una piuma.

"Che ne pensi del look di stasera?" scherzò mettendosi in posa. "Devo dire che è molto sexy" ammisi squadrandola dalla testa ai piedi. Sapevo bene quanto odiasse quel tipo di battute, ma quello era un difetto che mi divertiva particolarmente mostrare alle persone.

Prevedibilmente lei roteò gli occhi e si fiondò nuovamente in bagno.
"Sono quasi pronta!" avvertì in seguito. Occultato dal forte rumore dell'asciugacapelli, mi sentivo come un ladro a bighellonare a zonzo per la sua camera tappezzata da fotografie e ravvivata da fioche luci natalizie. Quelle immagini sul muro la mia memoria le aveva catalogate alla perfezione, eppure sentii il bisogno di incagliarmi a contemplarle come se covassero ancora qualcosa da cogliere e lei ci avesse nascosto un nuovo segreto tra il bordo di una foto e un'altra.

Adagiai la giacca sul letto e raggiunsi lei in bagno. Mi stavo annoiando, ma avrei fatto qualsiasi cosa pur di evitare l'acceso dibattito amoroso che continuava a sostenersi al piano di sotto.

Fudge inclinava la testa lateralmente e con le dita accarezzava con cura i capelli mentre il calore del phon si dissipava nell'aria appannando lievemente lo specchio. Fu proprio grazie a quest'ultimo oggetto che si accorse della mia presenza e, senza interrompere la sua routine, dammo inizio ad un gioco di sguardi attraverso quella lastra di vetro. "Hai tagliato i capelli?" domandai sgranando gli occhi. Ebbene, il mio inaspettato stupore mi portò a reagire come la più inappuntabile delle drama queen.
"Solo le punte" rispose lei indubbiamente sarcastica. Ora i suoi capelli non fluivano più per tutta la schiena, si arrestavano invece alle spalle con un secco zac di forbici da parrucchiere. Ero parecchio contrariato, ma anche parecchio soddisfatto di aver notato la sua nuova acconciatura, ché di solito nei film gli uomini non lo notano mai. Noi maschi siamo più complicati di un semplice taglio di capelli: ci accorgiamo dell'assenza di un reggiseno sotto il vestito, di una scia di profumo o di una bella forma di labbra. Ci accorgiamo di una maglia che si solleva rivelando la misera presenza di un paio di semplici slip neri, quelli che Fudge stava indossando in quel momento, mentre con movimenti ampi era concentrata ad asciugarsi i capelli.

Credo che persino lei ignorasse l'effetto che mi provocava, l'incapacità di distogliere lo sguardo finché la visione di suo fratello rosso di rabbia non mi avesse sfiorato la mente.

Scossi la testa come per far scorrere via l'acqua dalle orecchie, per liberarmi da quei pensieri proibiti. Mi avvicinai a lei inoltrandomi nella nube di vapore che circolava tra le pareti del piccolo bagno e le rubai l'asciugacapelli dalle mani. Cercai di tenermi occupato, di dedicarmi a immagini più caste e quanto più quotidiane possibile. Così infilai una mano tra i suoi capelli ancora umidi e ci passai più volte il phon con movimenti circolari. Lei distese le sue rughe di concentrazione trasformandole in un'espressione fin troppo compiaciuta. Si affidò completamente alla mia inesperienza come chi è ignaro di star mettendo la propria vita nelle mani di un criminale.

Incurvai le labbra in uno dei miei più timidi e pigri sorrisi nell'accorgermi di quanto fosse bella anche struccata e con i capelli bagnati. Era così minuta rispetto a me, una figura indifesa e pura sovrastata da un gigante capace di sgretolarla in mille pezzi con un soffio di respiro; era capitata tra le braccia sbagliate di un'anima logorata, ma lei non poteva saperlo e, dopo tutti quegli anni, io non avevo ancora trovato il coraggio di confessarlo. Al contrario, cercavo di nasconderlo facendo i salti mortali per proteggerla e coltivarla come se fosse una margherita.

Quel bacio aveva destabilizzato paurosamente il nostro rapporto. Facevamo carte false per minimizzarlo ma entrambi ci facevamo i conti tutte le sere quando il nostro orecchio toccava il cuscino. Quei pensieri appuntiti sfidavano la morbidezza del cotone, ma il filo che ci teneva inesorabilmente legati al paffuto Michael di dieci anni e all'adorabile Fudge di sette, tardava a sfilacciarsi e, a prova di bomba, non si sarebbe arreso. Io da bambino ero completamente all'oscuro di cosa fosse l'amore e, fino a prova contraria, a ventun anni alcuna luce ne aveva ancora illuminato la sagoma.

Finii di asciugarle i capelli e mi riposizionai esattamente come qualche minuto prima: sorretto dallo stipite della porta e con le braccia conserte seguendo attentamente le sue mosse. Estrasse la piastra da un cassetto e infilò la spina nella presa. "Non stirarli, sbattitene di quella stronzata del dress-code" le proposi manifestando tutto il mio disprezzo per il locale che quegli imbecilli avevano scelto. Che io la conoscessi più di quanto facessi con me stesso, era un vantaggio per entrambi, ché lei poteva assorbire dalla mia sfacciataggine l'audacia di ribellarsi ai principi che non le appartenevano, mentre io potevo orgogliosamente prendermi il merito di lasciarle sfogare il suo spirito libero. Alla luce di ciò, il perenne sorriso da ebete che indossai quella sera fu dolcemente cullato dalla naturalezza dei suoi capelli ondulati che le conferivano lo stesso stile sbarazzino di chi, con la mano sul cuore, ti dice "non mi farai mai del male perché io sono uguale a te".

"Adesso sì che ti riconosco" ammisi in un filo di voce. Le sue labbra umide sull'angolo della mia bocca mi ripagarono per quel poco che avevo fatto nonostante per lei significasse molto. Diede senso e valore ad una delle mie tipiche e sconclusionatissime giornate.

Per tutta la durata del viaggio in macchina, la mia testa non mi diede pace: mi sentivo un ebete, costretto ad accettare l'innegabilità che sin da bambini, gli unici momenti sopravvissuti all'autocommiserazione e al dipingermi come un fallito, erano quelli in cui lei era con me. Prendeva le redini del mio umore e con un dito mi mostrava il mondo da un'insolita angolazione. Con la delicatezza di un fiocco di neve che si poggia sul naso, mi aveva dimostrato che la mia realtà andava guardata a testa in giù. A volte mi inalberavo nella mia giungla personale e la vita mi correva davanti agli occhi come un treno. Mi rincretinivo tanto ciecamente che, prima di accorgermi di eventuali circostanze, l'orologio contava un buon quarto d'ora accademico. Ad esempio, quel vestito di pizzo bianco che le fasciava alla perfezione il corpo le illuminava il viso, accentuava il color miele dei suoi occhi e quelle converse rosa confetto che trapiantavano l'attenzione sulla sua sete di conformarsi esclusivamente alle sue leggi interiori... Era una ragazza silenziosa che custodiva in un cassetto il sogno di scarcerare il suo rumore. Detestava attirare l'attenzione, cercava solo il coraggio di esplodere in tutti i suoi colori. La sua presenza mi rendeva sempre fottutamente confuso. La consapevolezza che fosse un inviolabile tabù mi straziava e intanto aggrediva ogni sforzo di tenerla lontana dalla stessa oscurità in cui io naufragavo.

La festa di compleanno di Ashton non si rivelò particolarmente riuscita quell'anno. Fatta eccezione per il locale esageratamente chic per i miei gusti, il pelo nell'uovo risultò stranamente impossibile da trovare, ma allo stesso tempo, non rilevai nulla per cui valesse la pena attribuire alla serata un bel dieci pieno. Io e Fudge migrammo ininterrottamente tra la sala e una panchina appena fuori dal locale, tra l'open bar e la panchina, tra la panchina e la vetrina di un antiquariato. Quando per l'ennesima volta ci arrendemmo a ricongiungerci agli altri, si palesò sotto ai nostri occhi una figura concentrata a stalkerare da una finestra lo svolgimento della festa. Ci arenammo sull'asfalto interdetti ad esaminare le spalle larghe del ragazzo, i capelli biondi spettinati e la sua altezza alquanto familiare. "Luke?" lo chiamai esasperando lo stupore nel tono. Ebbi la conferma che si trattasse davvero del mio migliore amico, e non di uno dei suoi sosia, quando voltandosi sfoderò un radioso sorriso a trentadue denti impreziosito dal suo piercing al labbro inferiore. Evidentemente anche la mia faccia doveva essersi modellata ad estrinsecare l'inaspettata sorpresa, ché la sua espressione si corresse in una smorfia singolarmente divertita.

Rimasi impietrito, traumatizzato. Non riuscivo a credere che non avesse avvertito anima viva del suo ritorno, o almeno così immaginavo. Di conseguenza, mi voltai verso Fudge e fortunatamente, scoprii di non essere l'unico coglione all'oscuro di tutto. I suoi occhi brillavano di luce propria, le labbra erano dischiuse per l'inattesa apparizione e nella sua testa una vocina le intimava più e più volte di non iniziare a piangere come al suo solito.

"Che c'è? Avete visto un fantasma?" ironizzò Luke come per suggerirci un tuffo a pesce tra le sue braccia. Fudge non se lo lasciò ripetere due volte e si scaraventò letteralmente addosso al quel magnifico bastardo biondo, forse con l'intenzione di stritolarlo fino al suo ultimo respiro. Anch'io lo avrei abbracciato forte, ma almeno con me ne sarebbe uscito vivo. La pulce, che poi così pulce non pareva affatto, risparmiò Luke e così potei abbracciarlo anch'io. Lo strinsi così affettuosamente che sembrò che tutti quei mi manchi soffiati al telefono come una patetica coppia gay non avessero avuto alcun valore. Il suo odore mi riportava a casa, nonostante io da casa non mi fossi mai allontanato. Abituarsi alla sua assenza fu esattamente come abituarsi alla presenza di Ella, ovvero come un estenuante travaglio di dodici mesi. Non vedere la sua faccia di cazzo ogni santissimo giorno mi destabilizzava: eravamo sempre stati Michael e Luke, inseparabili e contro tutti.

Non appena la gente ci sorprese con lui, lo sbalordimento deflagrò nel locale come se il festeggiato fosse stato magicamente spodestato e soppiantato. Calum e Ashton, esibendosi in espressioni inappagabili, gli si avvinghiarono contemporaneamente e lo imbrigliarono per bene nell'eventualità che minacciasse di squagliarsela ancora. Quella era la mia felicità.

Luke non attardò a spaparanzare il suo culo flaccido su un divanetto di pelle isolato da tutti, quella sera. Aveva delle occhiaie impressionanti ed era comprensibilmente esausto. Io e Calum lo raggiungemmo e prendemmo posto accanto a lui erompendo in sonore ovazioni. "Sei stremato dal jet-lag, non è così?" ipotizzai cingendogli le spalle con un braccio. "Già, quindi mi limiterò ad osservare i miei amici divertirsi e bere sregolatamente da questo comodissimo divano" preavvisò sorseggiando un drink. "Le ragazze sono uno spettacolo" esternò Calum rivolgendogli uno sguardo a metà tra il malizioso e l'intenerito. Luke annuì come se il moro gli avesse appena letto nel pensiero. "Fudge sente la musica nelle vene, ha un talento naturale! Perché ha smesso di ballare?" ragionò. "Buongiorno, Luke" lo insultò Calum scuotendo la testa "la scuola di danza ha chiuso l'anno scorso. Lei ci andava da quando aveva cinque anni e adorava farlo, non avrebbe mai smesso".
"Cazzo, è vero!" ricordò il biondo schiaffandosi una mano sulla fronte "quel sorriso che fa quando balla non lo concede a nessuno".
"A nessuno tranne me" avrei voluto dirgli, ma dalle mie labbra uscì semplicemente un verso di approvazione. Non erano mai state pronunciate parole più vere: la danza era la sua felicità e la felicità le vestiva alla perfezione.

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