5. flashlight

Accucciata sul mio letto, ammantata dalla penombra della sera che penetrava dalla finestra, il mio sguardo scartabellava accuratamente le foto appese alle pareti della mia camera. La luce del crepuscolo mi impediva di delineare i contorni dei protagonisti di quegli scatti, ma la mia mente ne rievocava alla perfezione ogni dettaglio. Quei momenti non erano solamente stampati su un cartoncino lucido, ma anche sull'album dei ricordi che custodivo maniacalmente nel cuore.

Nel frattempo però fallivo ad ignorare il flusso scrosciante dei miei pensieri e lentamente, la svogliatezza di continuare a riflettere soccombette su di me. Per un attimo sentii placarsi nella mia testa il dinamismo caotico che fino a quel momento, mi serrava tra le sue grinfie e il nulla più assoluto torreggiò. L'insopportabile massa invisibile del silenzio lievitò così tanto, che iniziai a fraintendere persino i suoni più impercettibili. Dovetti infatti lottare duramente contro la presunzione di un pisolino non programmato prima di riuscire a captare i passi che mi costrinsero a rimanere sveglia.

Mi soffermai, passando in rassegna le caratteristiche fisiche che avrebbero potuto identificare l'aspetto del mio visitatore. Le probabilità che sarebbe potuto essere ricciolino e con i miei stessi occhi color nocciola erano minime, quindi disegnai accuratamente la sagoma atletica di un moro dalla carnagione olivastra e un ciuffo biondo tra i capelli. I dettagli sui i quali però la mia mente verteva si alternavano da una figura imponente dai capelli corvini ammorbidita dal viso di un bambino, a una chioma bionda raccolta in due trecce.

Un brivido percorse improvvisamente la mia coscia destra nel percepire una delicata carezza su di essa. Distinsi esattamente la traiettoria di due polpastrelli che mi sfioravano prudentemente la pelle, come un tentativo di mettere a tacere le mie esasperate preoccupazioni. La necessità di voltarmi per smascherarne il volto si annullò del tutto, e due semplici parole fecero vibrare impulsivamente le mie corde vocali: "Sto bene."

Lo scricchiolio di due ginocchia che si flettevano per raggiungere il mio livello arrivò quasi inavvertibile alle mie orecchie e subito dopo, un fragoroso sospiro mi provocò un brivido insinuandosi tra i capelli che mi ricoprivano la nuca. Nel voltarmi sull'altro fianco due occhioni verdi scrutavano scettici i miei, nella speranza che non mi fossi solamente limitata a gettare olio sulle onde. La sua espressione tipica da detective era assemblata da un'inevitabile mascella contratta, sopracciglia incurvate e sguardo inquisitore, nonché il ritratto perfetto di ciò che in quel momento mi trovavo davanti. Mi avvicinai maggiormente al suo viso e ripetei quelle due parole con più convinzione cercando di rassicurarlo.

I suoi responsi rispecchiavano nel migliore dei modi la sua colorata personalità controversa e la propensione a comunicare attraverso metodi originali e ineluttabilmente memorabili. Imprevedibile sotto qualsiasi aspetto, Michael sapeva architettare soluzioni alternative o indorare la pillola con una naturalezza paradossale.

Infilò una mano nella tasca dei suoi pantaloni neri e successivamente la estrasse stretta in un pugno come a custodire qualcosa di prezioso. "Sono certo che adesso questo è il tuo sassolino nella scarpa, non è così?" domandò accennando a ciò che le sue dita imprigionavano "cercherò di non essere egoista e aprirò la mano, così ti libererai di questo tarlo e la smetterai di costruirti inutili sensi di colpa."
"Non sono inutili" sussurrai ammonendo la leggerezza con la quale era solito affrontare certe circostanze "sai com'è fatto Ashton..."
"Esattamente come un dito in culo" affermò roteando ironicamente gli occhi. Scoppiai a ridere crollando a pancia insù sul materasso e poi risollevandomi mi sistemai a gambe conserte di fronte a Michael. "In fin dei conti, non è niente di importante, vero?" ragionai osservando ipnotizzata il suo pugno chiuso. Mi accertai di ripetere la stessa espressione che entrambi avevamo pronunciato giorni fa allo stadio, in modo tale che le vivide sensazioni di quel momento risvegliassero in lui l'oggettività di cui io avevo bisogno.

Esattamente come ogni singolo ragazzo inglese del ventunesimo secolo, anche lui adorava circondarsi da bei visini con occhi da cerbiatto, ma a nessuno di quelli osava riservare il trattamento al quale io ero stata esclusivamente destinata. Tuttavia ero consapevole di non piacere a Michael in quel modo, come si dice quando una parola è troppa e due sono troppo poche... "Presumo di sì" sorrise cogliendo l'allusione. Senza almanaccarci più di tanto, articolò quelle tre parole con una sicurezza disarmante e mi accorsi che il cameratismo che ci aveva sempre tenuto legati così indissolubilmente non avrebbe mai necessitato di alcun tipo di evoluzione. Eravamo come una collezione di conchiglie, una di quelle che scadono di unicità man mano che se ne aggiungono altre alla raccolta.

Afferrai il pugno e cautamente sgomitolai le sue dita una alla volta come se temessi di star prendendo una decisione troppo affrettata. Di giorni non ne erano trascorsi molti, ma non potevo dire lo stesso delle ore che avevo passato a trivellarmi il cervello e a divorarmi le unghie per i sensi di colpa. La mia vita era semplice, genuina e serena, quindi perchè inoltrarmi in un fitto bosco invece di percorrere il sentiero già spianato?

Immaginai un effluvio di leggere bolle liberarsi dalla morsa di Michael e scoppiettare una dopo l'altra toccando il soffitto della mia camera. Pensai che avrebbero lasciato un indelebile alone di acqua e sapone sull'intonaco e, ogni volta che avrei sollevato la testa, mi sarei nuovamente imbattuta in tutto quello che avevamo finto di affogare: le labbra sfiorate su un campo da baseball, l'impressione di deludere qualcuno, gli sguardi muniti di una propria bocca per parlare, il desiderio sfrenato di collimare i nostri profili come tessere di un puzzle.

Magari, in fin dei conti, eravamo solamente alla ricerca di qualcuno che ci completasse, che capovolgesse la nostra esistenza obbligandoci a volgere lo sguardo verso l'altra faccia della medaglia; un plot twist, come si direbbe nel lessico narrativo.

Tutt'un tratto, il senso di colpa scoppiò come una di quelle bollicine immaginarie, ma il mio umore rimaneva contaminato dal rimorso di star nascondendo a mio fratello il mio primo, vero segreto. Michael, invece, delirava se attorno a lui qualcuno fosse stato riluttante a sfoderare un sorriso a trentadue denti. Si faceva in quattro per organizzare feste stratosferiche, scegliere i regali perfetti per Natale e metteva il cuore in qualsiasi favore gli chiedessimo. Era dannatamente ossessionato dal buon umore degli altri, ma con la parola altri intendo semplicemente noi: per lui vivevamo all'interno di una cupola di cristallo, al di fuori della quale, nulla contava.

"Niente d'importante?" sdrammatizzò sollevando le sopracciglia. "Niente d'importante" confermai elargendo un ghigno sodisfatto. Saldammo l'accordo con una giocosa stretta di mano e, dopo che io ebbi abbandonato svogliatamente le soffici coperte del mio letto, imboccammo la strada per raggiungere il piano inferiore.

L'inquietante corridoio che conduceva alle scale era definito tale dalla sottoscritta a causa di tre maledetti fattori: una porta destinata a rimanere serrata per il novantanove per cento del tempo per qualche disfunzione che avevo sempre ignorato; l'assoluta assenza di finestre che avrebbero potuto evitare la generazione di una momentanea nube di fitta oscurità; una lampadina completamente distrutta dagli strani fenomeni elettrici che non di rado si verificavano in casa nostra. A tal proposito, Ashton insisteva nel tentare di convincermi che si trattasse dello spirito che dimorava nella nostra abitazione.

Così, un po' in preda alla fobia che avevo sempre avuto sin da bambina, un po' alla suggestione degli stupidi scherzi di mio fratello, avevo ideato una procedura tutta mia per scampare al panico scatenato da quel corridoio buio: lasciavo accesa la luce di camera mia affinché potessi attraversare il corridoio in compagnia di un discreto spiraglio, poi spalancavo la porta che dava sulle scale e infine, prima di poter scendere al piano di sotto, tornavo indietro per spegnere la luce della mia camera.

Quella sera mentre ero intenta a compiere pigramente la solita routine, Michael si fermò ad osservarmi interrogativo sulla soglia della mia stanza da letto. "Hai paura del buio?" ridacchiò facendomi immobilizzare improvvisamente. In una luce quasi crepuscolare, intercettai i suoi occhi verdi che già erano concentrati a scrutarmi curiosamente. Trattenni il respiro per una manciata di secondi prima d'imbattermi, quasi istintivamente, in uno spiraglio di coraggio che mi spronò a confessare un'antica verità. Quella, forse per imbarazzo, forse per irrazionalità, la covavo in me stessa sin dalla mia versione più gracile e indifesa, quella con la vocina stridula e le guance rosse.
"Non voglio che si sappia" sussurrai spostando lo sguardo sulla moquette. "Rimarrà in questo corridoio" mi rassicurò Michael prima di spegnere la luce della mia camera e chiudere la porta del corridoio. Era troppo tardi quando mi accorsi che stava consapevolmente compiendo il procedimento inverso. In un attimo il buio pesto mi inghiottì interamente e mi convinsi di trovarmi del tutto sola in uno stretto anfratto. La fobia del buio mutava l'oscurità circostante in una massa di materia che mi si stringeva attorno, mi inseguiva e mi soffocava. Invece ignoravo si trattasse semplicemente di una nube astratta e inesistente.

Le mie pupille guizzavano da una parte all'altra alla disperata e faticosa ricerca di un punto di riferimento: mi sarebbe bastato un puntino, un'ombra o una sagoma parzialmente definita, ma disgraziatamente, nulla poteva salvarmi dall'improvvisa allucinazione di aver totalmente perso la vista. Il respiro si fece più affannoso e il battito cardiaco aumentò. Protesi le braccia in avanti e iniziai a muovere dei passi incerti verso una direzione sconosciuta, finché non urtai qualcosa che sembrava starsene lì a fissarmi già da un po'.

Sussultai prima di riuscire a fare mente locale e capire di aver completamente scordato la silenziosa presenza di Michael. Con due dita tremule, sfiorai la pelle vellutata del suo braccio e intercettai la sua mano che sembrava essere stata creata appositamente per guidarmi. I miei piedi acquisirono sicurezza e, senza mollare un attimo la presa sul ragazzo invisibile, percorsi una strada che pareva essersi magicamente illuminata. Due braccia mi avvolsero sostituendo la terrificante morsa dell'oscurità, mi strinsero prudentemente ed io fui finalmente libera di esalare un sospiro di sollievo.

"Michael, per favore, accendi la luce" lo pregai. Lui ancora una volta non disse una parola, mi rispose semplicemente stringendomi più forte e iniziando a camminare lungo il corridoio. "Fidati" sussurrò invece. Iniziò a costeggiare lentamente il corridoio mantenendomi salda al suo petto e incespicando di tanto in tanto contro i miei piedi. La mia testa continuava a ripetermi che non potevo esimermi: dovevo fidarmi di lui perché tutte le volte che l'avevo fatto, avevo sempre riconosciuto la persona su cui poter contare in qualsiasi situazione. A tal proposito, ricordai le mie infantili arrampicate sugli alberi delle quali mi pentivo amaramente quando ormai era troppo tardi. A cavalcioni su un ramo, abbastanza robusto da reggere una bambina di sette anni, osservavo terrorizzata i pochi metri di altezza che avrei dovuto neutralizzare per tornare coi piedi per terra, e tutt'un tratto, la mia inusuale intrepidezza si esauriva. Michael giungeva puntualmente in mio soccorso e protendendo le braccia verso di me, mi incitava a saltare, a fidarmi, ché mi avrebbe prontamente afferrata. Così mi tuffavo come se l'albero fosse un trampolino e le sue braccia una limpida distesa d'acqua. Alla fine, nonostante il mio tuffo fosse degno di un'aggraziata nuotatrice, la sua goffaggine lo portava ineluttabilmente a perdere l'equilibrio e a farci ritrovare l'uno sopra l'altra sull'erba del giardino a ridere fragorosamente.

E anche quella sera mi ribadii che era la mia testa a giocare brutti scherzi: ché il buio non poteva assumere forma e quei sussurri che percepivo insinuarsi nelle mie orecchie, sotto-forma di parole più o meno definite, non erano altro che suggestioni dettate dalla paura. A mano a mano mi rasserenai beandomi del calore del corpo a cui aderivo, il profumo di quella felpa e le braccia robuste salde attorno alle mie spalle strette. Ero a casa, ma ciò che in realtà aveva importanza, coincideva con l'intensa sensazione di sentirmi a casa.

Spaventata sì, ma anche sollevata: sollevata che insieme a me in quel corridoio buio ci fosse proprio Michael. I suoi abbracci mi proiettavano nel nirvana analogamente al momento in cui mi aggomitolavo tra le coperte calde, scampando ai pochi gradi dei gelidi inverni britannici. Lui era un ottimo amico, uno di quelli che provano ad esserlo con ogni singola pulsazione del petto; il primo a giungere sul posto per tirarti su di morale, continuamente gratificante per qualsiasi gesto d'affetto dimostrato nei suoi confronti e perennemente tempestivo nel ricambiarne il doppio. Persisteva nell'identificare per me un modello di ispirazione, nonostante lui non fosse mai stato d'accordo a riguardo.

Anche quando ormai i nostri passi si arrestarono, non mossi un muscolo: sarei rimasta avvinghiata a lui finché non fosse finito l'ossigeno.

Sentii il suo braccio scostarsi dal mio corpo e allungarsi verso quella che ipotizzai fosse la maniglia della porta del corridoio. La conferma arrivò quando un varco luminoso scorciò finalmente l'oscurità attorno a noi. "Visto? siamo arrivati sani e salvi" dicevano i suoi occhi socchiusi, non ancora abituati alla luce; erano poco più gonfi di qualche minuto prima, assonnati e divertiti. Il loro verde muschio mi scrutava curiosamente in attesa di una rivelazione, della dimostrazione che mi avesse davvero aiutata ad affrontare le mie paure o che al contrario, avesse involontariamente scatenato in me un terrore più acuto e prolungato del solito.

Uno, due, tre secondi e già avevo concesso abbastanza tempo ai miei movimenti, follemente istintivi, di chiudere nuovamente quella porta e inoltrarmi spontaneamente nel buio pesto. Mi avvinghiai ancora a Michael come se fosse una folata di vento in una giornata di caldo afoso, quella fievole brezza che ti scompiglia i capelli nell'annuncio dell'imminente primavera; un sospiro di sollievo, una boccata d'aria dopo l'apnea.

Ricordo ancora l'ingombrante sensazione nel sentirlo inizialmente irrigidirsi, portare esitante le sue mani sulla mia testa e iniziare ad accarezzarla cautamente facendo cadere i suoi pesanti respiri sui miei capelli. Strofinai lievemente la guancia contro il suo petto per lasciare che si liberasse dalla paura che in quel momento stava attaccando lui e per proclamare che invece, per me, il buio aveva smesso di essere buio.

I suoi muscoli si rilassarono, ma il suo battito accelerò considerevolmente contro il mio profilo. Una mano incerta e tremolante scivolò tra i miei capelli senza alcuna difficoltà come se dominasse il percorso giusto per non ingarbugliarcisi. Le sue dita, affollate di anelli massicci, procedettero dietro al mio orecchio navigando agevolmente le mie onde color caramello. Sembrava che mi sapesse a memoria, che conoscesse i trucchi per tenermi a bada.

Le mie iridi allora partirono alla disperata ricerca delle sue, ma il buio pesto lo impediva ad entrambi. Mi concentrai quindi a intravedere la sua sagoma, assottigliai gli occhi in due fessure, ma le mie pupille navigavano nell'oscurità più totale come due navi alla deriva: attendevano il primo raggio di sole sulle onde, il segno che la tempesta era finalmente giunta al termine. Il mio raggio si personificò nel suo respiro sulle mie labbra ed io mi affrettai a calmare del tutto quella burrasca di intenzioni represse. Con le mani scalai il suo petto fino a raggiungere il collo della sua felpa oversize, lo avvicinai a me e lo baciai come se fosse giusto, normale.

Non avevo mille grilli che mi saltavano in testa: al contrario, mi sentivo svincolata e leggera, placida che il buio avrebbe mantenuto quel segreto per noi. L'unico lusso che potei permettermi, mentre entrambi iniziavamo bruscamente a crescere, fu il chiedermi se quel bacio, che poco prima avevamo liberato nell'aria, fosse ancora inchiostrato sul mio soffitto e se, al posto di quello, ne avevamo semplicemente afferrato uno nuovo.

I miei piedi si adattarono a quel posto che occupavano sulla moquette e noi, indisturbati, continuammo a baciarci come se avessimo atteso quel momento dalla prima volta che i nostri occhi si erano incontrati. Poi la razionalità prese il sopravvento e ci dividemmo; lo facemmo in totale spensieratezza e ironia. Nel sentirlo ridacchiare mi accorsi di quanto fosse uno strazio non riuscire a godermi il suo sorriso. "Non è niente d'importante" dissi.
"Niente d'importante" ripetè lui.
Ci separammo del tutto come se niente fosse: forse per non provare imbarazzo, forse per non dar peso a qualcosa che pesava tonnellate sulle nostre spalle.

La mia mano si allungò verso la maniglia della porta, ma qualcuno dalla parte opposta, mi precedette scatenando un concerto di sussulti tra le strette mura del corridoio. La luce era trapelata così violentemente che entrambi fummo costretti a indietreggiare portandoci un braccio sul viso.

"Dove diavolo eravate finiti?" chiese interrogativa la voce stridula di mio fratello. Lui era l'unico motivo per il quale avrei voluto tenere gli occhi bendati per sempre, invece lentamente la mia vista si riabituò ai colori in cui il mondo era fatto. Guardai gli occhi di Ashton: erano tali e quali a quelli di mio padre, avevano la stessa espressività di chi non riesce ad abbandonare la propria ingenuità, la stessa irrequietezza di chi ha il terrore di muovere un passo falso e fallire.

Il mio cuore faceva letteralmente le capriole e la mia testa continuava a temere che in qualche modo, mio fratello avesse potuto scorgere qualcosa. Il ragazzo accanto a me invece era calmo, eccessivamente calmo. Sembrava che avesse tutto sotto controllo e che l'arrivo di Ashton non l'avesse destabilizzato affatto.
"Stavamo parlando dell'ultima preda di Lily George" pronunciò atono "è incredibile quanti coglioni riesca a rimorchiare senza farsi scoprire dal suo tipo" malignò facendo ridere Ashton. Fu allora che mi accorsi della sua spiccata abilità ad avere sempre la risposta pronta, ad escogitare la bugia adatta ad ogni domanda sbagliata, la furbizia calibrata ad un fratello iperprotettivo nei confronti della sorella minore.

Quando tornammo in salotto, scegliemmo un film meno violento di quello di prima, così anche Ella avrebbe smesso di frignare. Michael si sedette sul divano ed io sul tappeto, tra le sue gambe. Non c'era nulla di strano: stavamo spesso in quel modo e lui si era sempre divertito a giocherellare con i miei capelli per richiamare la mia attenzione o più semplicemente, per infastidirmi. Tuttavia le abitudini iniziarono a trasformarsi repentinamente sin dall'inizio di quel secondo film, poiché i gesti di Michael si rivelarono tutt'altro che immaturi e scherzosi. Sfiorava il mio profilo dolcemente, attento a non tirare i ciuffi dei miei capelli che ogni tanto si intromettevano tra le sue dita.

Dopo che niente d'importante accadde in corridoio, io e Michael ci avvicinammo ulteriormente: inventavamo scuse per rimanere soli ed ognuna di esse, grazie alla sua mente contorta ma geniale, risultava sempre più razionale e credibile agli occhi degli altri che, per la cronaca, non sospettavano assolutamente nulla. Tutto d'un tratto, persino il senso di colpa si dissolse nel nulla. Eravamo convinti che sarebbe filato tutto liscio finché avessimo lasciato il cuore fuori da quella storia; finché non avessimo compromesso la nostra incolumità. In tal caso, ero perfettamente consapevole che lui non avrebbe indugiato a piantare baracca e burattini lasciandosi tutto alle spalle.

Certi giorni, credevo invece che avremmo dovuto finirla di giocare come due ragazzini incoscienti, ché effettivamente ci limitavamo ad un niente di importante; era semplice svago, nella versione più pura che esistesse. Spesso avevamo rischiato, avvicinandoci maledettamente al farci scoprire che più volte considerammo l'idea di gettare la spugna. Ciononostante, gli sguardi complici, la frenesia che mi stringeva lo stomaco ogni volta che ci baciavamo di nascosto, le attenzioni che ci scambiavamo in presenza di tutti, ci attiravano a poco a poco nell'oscurità che stavamo involontariamente creando, ignari che a conti fatti avremmo dovuto pagarne le conseguenze.

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