11. unpredictable

Ci stavamo lasciando trascinare dalla marea. La corrente era potente, violenta: non avevamo tempo di prepararci all'inevitabile. Eravamo giovani, felici, chi più chi meno, ma soddisfatti di un buon ottanta per cento delle nostre decisioni.
Poi iniziai a capire che la vita somigliava alla grande ruota panoramica del Brighton Pier: c'erano momenti in cui arrivavamo in alto e potevamo toccare il cielo con le dita, altri che invece ci riportavano con i piedi per terra affinché vedessimo la realtà dei fatti così com'era. Faceva male, ma come la pioggia settembrina in Inghilterra, era inevitabile.
Fortunatamente, in quel periodo fummo benedetti da una serie di eventi magnifici, una vera e propria scalata verso il paradiso, "la manna dal cielo" come l'aveva battezzata il classico pessimismo di Michael. Lui aveva gli occhi in bianco e nero, era scettico, un San Tommaso britannico del ventunesimo secolo. Eppure quella volta il miracolo lo fece lui, tutto da solo.

Meno un giorno al grande evento: il compleanno di Julie Dixon aka il debutto dei ragazzi. Il nome della band arrivò in ritardo e improvvisamente, fu un lampo di genio, ma per il momento, non interessava a nessuno che ne fosse sprovvista. Piuttosto, nessuno di loro riusciva a stare un attimo fermo: mio fratello non aveva più messo piede in casa dopo quel famoso venerdì al pub; aveva deciso che se la sarebbe "spassata fino allo shock etilico". Lo lasciai fare, anche se ero stufa di dormire sola, di sapere che la camera di fronte alla mia sarebbe rimasta vuota fino al mattino, stufa di svegliarmi nel silenzio assordante o con la consapevolezza di non poter parlare con nessuno sorseggiando la mia tazza di caffè. Non avevo sofferto la partenza dei miei, ma se Ashton avesse fatto lo stesso, ne sarei rimasta schiacciata.

Fu così che chiamai Michael. Era tornato a casa sua dopo la guarigione di Ashton; dopotutto era più che normale che vivesse per conto suo come aveva sempre fatto dai diciott'anni. Gli chiesi di farmi compagnia per un'ultima notte e poi gliene avrei cantate quattro a mio fratello con la speranza che tornasse a vivere regolarmente.
Aspettai Michael fino a tarda sera. Un'insopportabile quiete assecondava il canto delle cicale e il potente soffio del vento, mentre il cielo si era ripulito dai nuvoloni grigi e aveva lasciato spazio a qualche stella. Si presentò alla mia porta con la birra delle tre e un sorriso smagliante. Mi accorsi che mi bastava lui per stare bene.
Ho un ricordo particolarmente vivido di quella notte, grazie alla cura con la quale mi soffermai sui suoi particolari: gli occhi color muschio schiariti dalla luna in un ipnotico verde menta, i capelli mimetizzati con la notte e il pallore della pelle illuminato dalla luce calda del patio.

Le esperienze che avevo avuto negli anni in campo sentimentale non si erano distinte propriamente l'una dall'altra, si erano rivelate degli insoddisfacenti disastri. Con lui invece, avevo l'impressione di possedere gli innati trucchi del mestiere.
Anche quando ci infilammo sotto le coperte del mio letto, dopo esserci scolati qualche birra, mi convinsi che non ci fosse niente di male in quello che stavamo facendo; avevamo organizzato migliaia di pigiama party, dormito stretti come sardine nelle tende da campeggio, e nel caso fosse entrato mio fratello a bruciapelo, avrebbe fatto spallucce e girato i tacchi verso la sua prossima meta. Questo è quello che mi conveniva immaginare per evitare di trasformare l'affetto per Ashton in terrore per Ashton.

Michael mi diede il bacio della buonanotte; più di uno, più di due. Mi accoccolai al suo petto e mi lasciai avvolgere dalle sue braccia. Strofinai il naso contro il suo collo, respirai profondamente il suo profumo che avrei saputo riconoscere tra mille. Le pareti della mia camera urlavano che non sarei mai stata più al sicuro di così. Mi sollevai e pigiai l'interruttore dell'abatjour. Era buio, ma non avevo paura.

Nel cuore della notte mi accorsi che non riusciva a darsi pace. Si rigirava accanto a me, sospirava ed era frustrato come se la sua vita dipendesse da quel dannato concerto del giorno dopo. "Mike, andrà bene" lo rassicurai accarezzandogli la testa. "Lo so, ma ho l'impressione di aver trascurato qualcosa" mormorò sistemandosi a pancia in su e scostandosi le coperte dal corpo "come quando vai in vacanza e durante il viaggio pensi di aver dimenticato lo spazzolino". Mi disposi su un fianco e aggottai le sopracciglia; cercai di disegnare i contorni della sua sagoma, ma era buio pesto. "Il nome della band?" tirai ad indovinare. "No, qualcosa come un inedito!" esclamò "abbiamo solo stupide cover" sbuffò sonoramente.
Non avrei voluto ricordargli che fosse troppo tardi per ciò di cui aveva bisogno, quindi rimasi in silenzio dandogli il tempo di passare in rassegna le più improbabili idee che avrebbero potuto scagionarlo dalla sua insonnia.
Rischiai di arrendermi nuovamente al sonno contando i rintocchi della sveglia, finché un motivetto soffocato tentò di scappare dalle sue labbra. "È che ho questa fottuta melodia in mente da giorni!"

L'istintività era un tratto che avevo imparato a controllare da poco, ma altresì mi capitava che la gente rimanesse attonita di fronte alla lestezza mediante la quale prendevo le mie decisioni. Gli occhi di Michael schizzarono da un angolo all'altro della stanza intenti a seguire i miei movimenti: raccolsi carta e penna, rubai una chitarra dalla camera di mio fratello e convinsi Michael che, al contrario delle mie precedenti opinioni incredule, poteva ancora dare una svolta alla sua incompletezza.

La mattina dopo mi svegliai sola. La mia camera era illuminata dalla luce del sole mentre il timido odore del caffè si insinuava sempre più percettibilmente attraverso le pareti. Le coperte avevano il profumo di Michael e il classico aspetto burrascoso modellato da un corpo che la notte non riesce a chiudere occhio.
Nessuno accanto ma una canzone sul comodino.
La calligrafia disordinata di Michael aveva deturpato con la grafite l'innocenza di un semplice foglio bianco in un inno alla gioventù: "Unpredictable" dettava l'ultimo verso. Faticai a trattenere le lacrime e mi ostinai a ribadire di essere troppo emotiva.
A volte mi sentivo patetica e forse per quel motivo continuavo ad essere considerata la piccola di casa.

Michael
Io e la mia insonnia eravamo in competizione da anni; lei mi teneva sveglio la notte come fosse la mia migliore amica e avesse bisogno di parlarmi dei suoi problemi, ma in realtà non mi era affatto amica: pensava che non avessi niente da perdere e invece avrei potuto perdere tutto. E se la gente credeva che le uniche persone sveglie alle tre di notte fossero innamorate, sole o ubriache, allora io ne sarei stata l'eccezione. Io la notte non ero altro che il nulla più totale e assoluto.
Anche quella sera, fino all'alba, non avevo chiuso occhio, dedicandomi a forgiare una nuova categoria di nottambuli, quella del cantautore. La chitarra di Ashton e l'ottima acustica del garage di casa Irwin fecero le veci dei miei amici a cui non trovai opportuno guastare il sonno; e il garage non era altro che un vecchio studio dove Ashton teneva la sua inseparabile batteria, "terra natia" della nostra band emergente.
La canzone era nata per caso ripercorrendo tutte le volte in cui mi ero sentito parte di qualcosa di aleatorio e spontaneo, lontano dalle anguste pareti della mia mente; volevo raccogliere ogni ricordo come in un album di figurine, uno di quelli che nemmeno sotto la pioggia si scolorisce, ne' si deteriora con il passare del tempo.
Avevo deciso che l'avrei dedicata ai miei amici, ma una timida parte della mia coscienza voleva regalarla alla ragazzina che dormiva al piano di sopra, talmente minuta e indifesa da avere paura del buio, ma così tenace e coraggiosa da trovare fiducia in un gigante tossico: le pesavo sulla bilancia le mie azioni, non volevo farle del male. Lei mi ripeteva di lasciarmi andare "e male che vada, io sarò dalla tua parte" ogni qual volta avrei dovuto combattere contro i miei demoni.
Così, avevo sconfitto per la prima volta l'insonnia e con lei anche la pigrizia: alle nove del mattino ero già in piedi e preparavo il caffè.

Stavo armeggiando tra i fornelli della cucina quando la sentii zampettare giù dalle scale. Si avvicinò senza emettere un singolo suono tranne quello dello scalpiccio dei suoi piedi nudi sul parquet. Le braccia sottili si agganciarono dolcemente al mio bacino e il suo orecchio mi si adagiò rilassato sulla schiena. Gli unici muscoli che mossi impercettibilmente furono quelli delle labbra che si curvarono in un timido sorriso. Ebbi il terrore di star diventando una mezza sega emotiva e suscettibile a furia di frequentare la piccola Irwin. Non avevo idea di chi o cosa stessi diventando, sapevo solo che la mia armatura si arrugginiva un centimetro di più ogni volta che solo un suo dito mi sfiorava.
"Dormito bene?" ridacchiai ironico. Un sorriso ancora letargico si aprì tra le pieghe della mia maglietta prima che le sue braccia mi si scucissero di dosso.
La mia colazione si alternò tra il caffè e i suoi occhi persi tra le parole della canzone che giaceva silenziosa sull'isola della cucina. "Che ne pensi?" Domandai. Lei sollevò lo sguardo su di me e scosse la testa in cerca di termini per descrivere ciò che avevo partorito la notte passata. "Parli del testo? Sai che non so leggere la musica." Annuii. "È stupendo." Scorsi i suoi occhi luccicare nei miei, tingersi di un brillante color miele quando un raggio di sole le sfiorò il viso. Mi guardava come se fossi il tramonto migliore del mondo, un paesaggio mozzafiato o un fenomeno più unico che raro; invece io sapevo di aver dentro una matassa di gallerie buie e stette.

Quel giorno le mie solite paranoie rimasero buone buone all'interno di un cassetto chiuso a chiave. Ero felice, ma non felice per la prima volta: mi era già successo in determinate circostanze, ma inconsapevolmente. "Lasciati andare" continuavano a ripetermi, e alla fine, a fatica, ci riuscii.

Fudge mi fissava incuriosita mentre, imbambolato e con un sorriso da ebete, fissavo uno dei miei anelli. Patetico, patetico come una tredicenne in fissa con un tipo più grande e decisamente fuori dalla sua portata. Per la vergogna mi sarei rinchiuso nuovamente nella mia camera, ma quella volta, per sempre.

Mi arrivò letteralmente uno schiaffo in piena faccia: il momento in cui la ragazzina si sveglia dal mondo delle favole. "Bentornato sul Pianeta Terra!" Esclamò Fudge ridendo. Era in piedi di fronte a me, facendosi spazio tra le mie gambe. Fu l'unica volta in cui mi superò in altezza, l'unica volta in cui le cose si mostrarono com'erano realmente aldilà dell'apparenza. "Ti sono mancato?" Scherzai. "Sai che non posso vivere senza di te" mise il broncio. Posò la sua mano minuta sulla mia spalla e con l'altra mi accarezzò delicatamente la nuca.
Ricordo che nell'istante in cui il campanello suonò, fu come se ci fossimo svegliati di soprassalto da un incubo. Il rischio di essere scoperti con le mani nel sacco si era presentato di frequente nell'ultimo periodo, ma non c'era niente di più eccitante dell'ignorare la volontà altrui; forse era per questo che al liceo ne avevo prese di santa ragione...
"Ci penso io" sussurrai dirigendomi a passo spedito verso la porta d'ingresso. Per fortuna, grazie a quella faccia di cazzo che mi ritrovavo, sapevo sempre come salvarmi il culo. "Che stai facendo?" Disse lei afferrandomi da un polso. Era terrorizzata, glielo leggevo negli occhi; ma il suo terrore era giustificato, invece io, con la mia sfacciataggine, ero solamente da fustigare. "Fidati" dissi tranquillizzandola. Non avevo idea di dove trovasse quella sicurezza, se nel mio tono di voce, nel mio sguardo o nella consapevolezza che, almeno fino a quel momento, era tutto andato per il verso giusto; non avevo idea del perché fosse talmente convinta che fidandosi di me, non sarebbe accaduto niente di male. Io di me stesso avevo imparato a diffidare.
Mi impiantai davanti alla porta con più dubbi che certezze. Cercai di non andare in panico ma di agire come il solito imperturbabile stronzo che ero sempre stato, quello con i capelli da emo e una chitarra elettrica che lo descriveva come il classico duro. Ma quale duro...

Il ricciolino sembrò stupito di vedermi e non c'era da biasimarlo. "Cristo, Ashton! Ti ho aspettato per ore!" Mi osservò con la fronte corrugata superandomi sull'uscio della porta. "Che è successo? E com'è possibile che ti sia svegliato così presto?"
"Sono le undici e mezza, Ash" lo informò sua sorella. "Andiamo, lo conosci!" Rispose lui come se io non fossi presente. "Stanotte non ho chiuso occhio per scrivere una canzone. Se vi piace, sarà il nostro primo singolo" spiegai tutto d'un fiato. "Vi piacerà" anticipò Fudge con quel suo sorrisetto malizioso. Gli porse il foglio e lui iniziò a leggerlo compiaciuto. Poi mi abbracciò stringendomi forte ed enfatizzando la soddisfazione con delle pacche sulle spalle. Ero grato di essere cresciuto con persone disposte a credere in me quando nemmeno io stesso riuscivo a farlo, a vedere qualcosa di buono dove io vedevo il nulla.
"Grazie, fratello" disse. Ricordo quel giorno come fosse ieri, come il fischio d'inizio di una corsa sulle montagne russe; la scoperta di una di quelle rare canzoni che mi è impossibile ascoltare senza ascoltare anche un po' di lei.

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