27 (perfect day)

GIULIA

La giacca di Giorgio era calda e profumava di lui, della sua essenza profonda. Sapeva di spezie, di uomo, di notti passate al pianoforte, di sofferenza, di dolore. La giacca di Giorgio era la sua seconda pelle.
Lo avevo atteso in quel parco mentre quei due uomini erano su di me, avevo gridato il suo nome, mentre le loro mani mi tappavano la bocca, avevo sperato, pregato, che arrivasse in tempo prima che...

"Finalmente sei qui," sussurrai, stretta nel suo abbraccio rassicurante.

"Giulia..." biascicò, con voce strozzata aiutandomi a rimettermi in piedi.
Al solo sentire il suono delle sue parole, tutta la soffocante paura che provavo fino a quel momento scomparve; il cerchio delle sue braccia erano la mia protezione.

"Stai bene?" La voce di Giorgio tremava appena, tutto il suo corpo tremava trasudando rabbia, una rabbia feroce. Azzardai ad alzare lo sguardo su di lui e non mi piacque ciò che vidi, per la prima volta ebbi paura della sua espressione.

"Sì, credo di sì!" dissi tentando di sorridergli, cercando di tranquillizzare la sua anima agonizzante. Stavo bene, era arrivato in tempo.
Mi guardò, mentre dolorante mi stringevo di più nella sua giacca: nei suoi occhi un dolore antico, una sofferenza che andava oltre lo spettacolo che stavo dando di me: scarmigliata; sporca, ammaccata. Seguii la direzione del suo sguardo.

"Chiudila!" disse secco, distogliendo lo sguardo dal mio seno che s'intravedeva tra i brandelli di tessuto. Il suo tono era duro, arrabbiato; i suoi occhi non si alzarono a cercare i miei, nessun conforto, nessuna carezza a placare il dolore che sentivo nel corpo e nell'anima, nessun contatto, solo la sua mano che mi aiutava nella difficile impresa di rimettermi in piedi.
Feci ciò che mi aveva detto, non osando contraddirlo, non distogliendo il mio sguardo da lui: troppa la paura che la sua presenza fosse solo frutto di un sogno; troppo il terrore di risvegliarmi ancora stretta ai corpi dei miei assalitori.
Mi diede le spalle dirigendosi verso la sua automobile.
Silenzioso, cupo.

Il mio cuore perse un battito. Non voleva più vedermi, ero marchiata dal tocco di altre mani, sporca, difettosa; l'attrazione che provava per me, l'unica cosa che poteva darmi, era scomparsa. Ora davvero non c'era più niente che ci legasse. Le gambe cedettero sotto il peso di questa consapevolezza e del dolore che portava con se; lo chiamai sull'orlo delle lacrime. Si voltò verso di me, avvicinandosi lento, mentre con la mano afferrava la mia, aiutando il mio corpo a rimettersi in piedi.

Non mi guardò. Ormai non c'era più nulla da vedere.

Pronunciai il suo nome come un addio; l'addio a un amore non ancora sbocciato e già distrutto. Fu allora che alzò gli occhi su di me, fu allora che mi guardò, fu allora che le sue parole uscirono frementi di rabbia.

"Cosa cazzo ci facevi qui da sola a quest'ora?" respirava a fatica cercando di reprimere la collera. "Ti metti proprio d'impegno a cacciarti nei casini? Non ti rendi conto che se non fossi arrivato in tempo, ora come minimo ti avrebbero stuprato?" Qualunque cosa avessi in mente di dirgli mi morì sulle labbra, lui era arrabbiato, arrabbiato con me.
"Dove cazzo ce l'hai la testa, eh Giulia!" continuò ad abbaiarmi addosso con ferocia, ignorandomi, ignorando il mio sguardo ferito, il dolore subito, il mio smarrimento, la paura di perdermi per sempre.

"Sali!" urlò indicando la sua auto "e allacciati le cinture, andremo veloci!" Il suo tono non ammetteva repliche. Obbedii.

I suoi continui cambiamenti d'umore mi destabilizzavano.
Mise in moto, il motore della Porsche rimbombò nel relativo silenzio di una città semi addormentata; le ruote slittarono sull'asfalto umido, ma la macchina si piegò docile al volere del suo guidatore, proprio come stavo facendo io ora. Ci immettemmo sul raccordo, ma non rallentò l'andatura. Era silenzioso e cupo, la postura rigida rifletteva il suo stato d'animo. Si stava trattenendo, il suo corpo vibrava d'irritazione, le nocche erano sbiancate per la forza con cui stringeva il volante. Mi azzardai a guardarlo, sperando in un gesto qualunque, in qualcosa  che mi facesse capire che lui era ancora li con me.
Nulla.
La sua espressione rimaneva rabbiosa, guardava fisso davanti a sè ignorandomi totalmente, i suoi occhi verde cupo, erano quelli di un predatore feroce.

"Stai bene?" Che strano chiederlo a lui, ma avevo un disperato bisogno di sentire la sua voce rompere il silenzio dell'abitacolo, un silenzio che non riuscivo più a sostenere.

"No!" rispose senza voltarsi. Un'occhiata torva si posò sul mio volto dolorante, solo un istante prima di tornare a fissare la strada.
Per un momento pensai come, nonostante tutto ciò che mi era accaduto, mi sentissi tranquilla: la sola presenza di Giorgio al mio fianco, bastava per infondermi serenità. Avrei voluto parlargli, chiedergli come aveva fatto a trovarmi, ringraziarlo per avermi salvato. Gli sfiorai una mano, lui la ritrasse come se il mio tocco l'avesse insozzato.

Trattenni il fiato per impedirmi di piangere, cercando di regolarizzare il respiro, di calmare il mio cuore spezzato, di acquietare i richiami  del mio corpo escoriato.
Iniziai a tremare, ora che l'adrenalina aveva abbandonato il mio corpo, l'enormità di quanto mi era accaduto mi piombò addosso con la forza di un uragano. Mi strinsi la sua giacca attorno al corpo per proteggermi dal gelo che invadeva le mie membra; volevo soltanto essere abbracciata, confortata, protetta. Volevo sentire il calore del ragazzo che amavo insinuarsi nel mio cuore, volevo sentire ancora la sua bocca sulla mia, volevo conforto, protezione, coraggio, ma lui ormai aveva eretto di nuovo la sua barriera invalicabile, era lontano, intoccabile.

Sentii una morsa allo stomaco, ma non gli diedi peso.

"Giorgio", il dolore si fece più forte, più intenso.
Lo chiamai di nuovo, la mia voce era un debole sussurro ormai.

Finalmente si voltò.

Per un istante i suoi occhi tornarono dolci, gli occhi del "mio Giorgio", poi si allontanarono nuovamente da me tornando duri e seri. Non riuscivo a piangere, non riuscivo a respirare.

"Sto bene!" dissi infine mentendo a me stessa e a lui. "Sto bene, sei arrivato in tempo!" mi sforzai di sorridere.

I freni stridettero sulla strada la macchina derapò leggermente e poi tornò nel suo asse; Giorgio accostò su uno spiazzo erboso e poi, senza dire una parola uscì dall'auto lasciandomi sola. Non riusciva a guardarmi, non riusciva più starmi vicino.

Lo imitai uscendo dall'auto, respirando l'aria che sapeva di carburante e gomma bruciata. Camminai incerta nell'erba umida di rugiada alla ricerca di lui, di un contatto che ora sapevo sempre più difficile.

La mia mano fu sulla sua spalla. Si voltò afferrandomi i polsi, gli occhi in fiamme, le labbra strette tra i denti, il volto pallido. La tensione che aveva accumulato esplose violenta.

"Maledizione, Giulia," urlò "Come puoi minimizzare ciò che ti è successo, sei stata aggredita da due animali!" respirava a fatica e così anch'io; le sue lunghe dita si stringevano ai miei polsi in una morsa che non lasciava scampo. "Sono arrivato in tempo, ma cosa sarebbe successo se non ce l'avessi fatta?" Mi strattonò, io iniziai a battere i denti dalla paura.

Ora capivo, ora sapevo che la persona che amavo poteva essere davvero pericolosa. Giorgio continuò a stringere i miei polsi tenendomi a debita distanza dal suo petto. "Potevi morire, Giulia!" disse quasi in un singhiozzo. Fu allora che presi coscienza del pericolo corso, fu allora che i dolori divennero insopportabili, fu allora che le braccia di Giorgio mi sostennero nella mia caduta a terra, fu allora che delicato di accostò a me.


Lou Reed _Perfect day

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