03 (creep)
GIULIA
Teorie e Tecnica della Progettazione Architettonica, era il primo corso semestrale che mi trovai a dover frequentare.
Il professor Carli, un uomo alto, imponente, con capelli e barba bianchi, aveva illustrato il tema del semestre: il progetto di una abitazione unifamiliare.
Ci aveva inoltre parlato del programma del corso e degli argomenti principali delle varie lezioni: il concetto di abitazione nell'architettura moderna e contemporanea, le case unifamiliari e plurifamiliari e le lezioni dei grandi maestri dell'architettura. Ci aveva esortato, o meglio, imposto, di lavorare in coppia.
"Un modo come un altro, per affrontare il progetto secondo punti di vista differenti, e giungere a una soluzione condivisa." Così aveva affermato e in fondo ero d'accordo con lui. "Il lavoro di gruppo è fondamentale in questa fase dell'apprendimento." Continuò, con l'aria di chi sa perfettamente ciò di cui sta parlando. "Quelli di voi che si conoscono già, potranno organizzarsi secondo le proprie preferenze, per tutti gli altri estrarrò i nomi a caso." Mi guardai intorno, in cerca di qualche viso noto, ma vidi soltanto facce spaurite quanto la mia; solo pochi ragazzi, avevano già formato i gruppetti di lavoro consegnando i loro nomi al professore.
"Dunque, a tutti gli altri provvederò io!" Concluse, dopo che l'ultimo gruppo ebbe consegnato i propri nominativi. Iniziò così la lettura degli accoppiamenti, estratti casualmente dal professore. Trepidavo, in attesa che fosse fatto il mio nome. Chissà con chi avrei dovuto lavorare! Un ragazzo o una ragazza? Ci saremmo trovati bene?
"Giulia Mancini e Giorgio Leardi" annunciò i nostri due nomi.
Sussultai, non mi ero accorta che lui fosse qui!
"Cazzo, proprio lui mi doveva capitare!" Borbottai a bassa voce, cercando di nascondere in tutti i modi il mio disappunto. Mi voltai, cercandolo con gli occhi, mentre mi avviavo verso la cattedra per presentarmi e per ricevere il tema della prima esercitazione.
"Professore, mi scusi, potrei lavorare da solo?" La voce di Giorgio mi sorprese alle spalle.
"Perché mai, Leardi, la Mancini non è di suo gusto?" Arrossii inconsapevolmente, attendendo una sua risposta. "Eppure, mi pare che non abbia nulla che non vada," continuò il professore, squadrandomi da capo a piedi, con aria di superiorità.
"La prego!" Continuò il mio, forse, compagno di gruppo, evitando di dare una risposta.
"Senta, Leardi, se voleva stare in gruppo con qualcun altro, doveva presentarsi prima. Ora decido io!" Il tono del nostro professore non ammetteva repliche, ma Giorgio Leardi non si lasciò intimidire. Le sue nobili ali, erano spalancate al massimo.
"Non è possibile lavorare da soli?" Continuò, ignorando la rabbia, che andava addensandosi nello sguardo grigio di Carli.
"Senta, non mi faccia incazzare già il primo giorno! Non era tra noi quando ho parlato dell'importanza del lavoro di gruppo?" Carli non intendeva dargliela vinta, in fondo era la sua autorevolezza che veniva messa in discussione.
"Si, certo, è solo che io..." cercò di controbattere.
"La mia risposta è NO!"
Assistevo a questa conversazione, ero parte in causa, di questa conversazione, ma nessuno dei due sembrava accorgersi della mia presenza.
"Accidenti!" dissi infine, sbottando. "Se Leardi non vuole far coppia con me, mi estragga un altro compagno di gruppo, per favore!" Si voltarono, accorgendosi soltanto in quel momento, che ero ancora lì e che avevo assistito al loro battibecco.
"E' escluso! Leardi e Mancini formeranno uno dei gruppi. Ormai è diventata una questione di principio." Lo sguardo di Carli era duro come l'acciaio. "Ah, ragazzi, ricordatevi che da voi, ora, mi aspetto il massimo." Detto questo, riprese a estrarre altri nomi, ignorandoci totalmente. Guardai il mio compagno di lavori forzati, ma lui non si voltò mai dalla mia parte. Era rigido come una statua e stringeva i pugni, come per contenere uno scoppio d'ira. M'intimoriva. Poi, d'improvviso, si voltò verso di me ed io mi persi nella profondità dei suoi occhi di un verde cupo e inquieto. Sembrava stesse per dirmi qualcosa, ma le parole rimasero sospese sulle sue labbra piene e ci giurerei, morbide.
Quali pensieri ronzavano nella sua testa? Perché questa ostilità e questo ostinato silenzio?
La fine della lezione interruppe il nostro non dialogo e lui, senza proferire parola, né degnarmi più di uno sguardo, si alzò e fece per allontanarsi.
"Ehi! Leardi!" Lo chiamai, prendendolo per la manica della camicia. "Dobbiamo organizzarci per il lavoro." Guardò con disgusto la mia mano sul suo braccio, poi con un rapido movimento, si sottrasse alla mia presa.
"Non toccarmi!" sibilò, fulminandomi. "Siamo costretti a lavorare insieme, non a essere amici." Infilò le cuffie nelle orecchie e voltandomi le spalle, si allontanò.
Sentii un freddo improvviso, come se qualcuno mi avesse rovesciato addosso un secchio di ghiaccio, mentre gli occhi cominciarono inspiegabilmente a riempirsi si lacrime.
Perché cavolo me la prendevo, per il comportamento cafone di un perfetto sconosciuto?
§§§§§§§
GIORGIO
Dovevo uscire da quell'aula ora, subito. Non riuscivo più a resistere, in quella stanza opprimente e densa di umori e odori di vario genere. Non riuscivo a evitare i suoi occhi, limpidi come specchi d'acqua, che mi guardavano chiedendosi il perché. Perché l'avevo trattata in modo così crudele. Possibile, che tra le duecento persone che affollavano il corso Teoria e Tecniche, il destino avesse deciso di mettermi insieme proprio con lei? Proprio con quella ragazza, l'unica tra le tante che mi avesse colpito?
L'avevo già notata, quando una settimana prima, era venuta distrattamente a sbattere contro di me. L'avevo trovata talmente intrigante da intimorirmi, non mi era mai accaduto prima di avere un interesse per una ragazza, che andasse oltre la semplice conoscenza. Forse solo una volta, ma l'interesse per lei, non era riuscito a intiepidire il mio cuore freddo come il ghiaccio. E invece questa ragazza. con un solo sguardo...
Dio. Questa cosa mi faceva tremendamente paura, non ero più abituato a "sentire". Mi ero chiuso a riccio per anni, per proteggermi da tutto e ora lei, la dolcezza del suo volto puro, lo splendore dei suoi capelli, che rilucevano di mille riflessi ambrati sotto il sole settembrino, la limpidezza del suo sguardo chiaro, avevano sollevato il pesante drappo che copriva i miei occhi, per far entrare una luce intensa e fastidiosa. Ero affascinato da lei. No, ne ero terrorizzato. E ora dovevo pure lavorarci assieme. Cazzo!
Stavo seriamente pensando di abbandonare il corso, ma il mio senso del dovere e il rispetto che dovevo alla mia famiglia, me lo impedivano.
Ce l'avevo con tutti ora: con il professor Carli per le sue idee sul lavoro di gruppo; con il destino cinico che mi aveva accoppiato proprio con lei; con la Mancini, che dopo la lezione, come se nulla fosse, mi aveva afferrato per un braccio.
Come si era permessa di toccarmi! Nessuno mi toccava. Mai. (Certo, lei non poteva saperlo, ma questo non aveva importanza). Chi era questa sconosciuta, che come se nulla fosse, era entrata nella mia vita trattandomi come uno di suoi amici?
Io non avevo amici, non ne avevo mai avuti. Rabbia e impotenza, ecco cosa sentivo in questo momento: una combinazione esplosiva e assolutamente pericolosa. Lei non conosceva niente di me, non avrei dovuto incolparla, ma non riuscii a pensare lucidamente, non mentre la sua mano stringeva il mio braccio. Era meglio così. Meglio che mi detestasse, che pensasse a me come a un ragazzo ricco e snob che guarda tutti dall'alto in basso; meglio che avesse paura di parlarmi; solo così sarebbe stata al sicuro. Io distruggevo tutti quelli che avevano la sfortuna di avvicinarsi troppo a me.
Ma come cazzo ho fatto a cacciarmi in un casino del genere?
Riflettei mentre mi allontanavo dando le spalle alla mia scioccata compagna di lavori forzati. Arianna si divertirà da matti quando le racconterò cosa mi è successo! Pensai. Peggio, ne sarà entusiasta!
Un piccolo sorriso fiorì sulle mie labbra. Indossai le cuffie, estraniandomi dal mondo e da lei. Sbuffando contro il destino cinico e baro, raggiunsi mia sorella per pranzare al laghetto di Villa Borghese come ogni giorno. Cercavo un momento di pace, ma nel giro di pochi minuti, l'oggetto delle mie tormentate riflessioni, arrivò al lago per l'ora di pranzo.
Era seduta con alcuni ragazzi della cittadina dove avevo vissuto durante l'anno più travagliato degli ultimi tempi. Al ritorno da Milano, dopo Azzurra.
Giulia Mancini sembrava scocciata, arrabbiata, infastidita e con molta probabilità ero io l'oggetto dei suoi discorsi. Come darle torto, del resto: ero stato uno stronzo dalle proporzioni cosmiche. C'era Martina Bernardi con lei: quell'insopportabile pettegola le avrebbe raccontato sicuramente delle cose spiacevoli sul conto della nostra famiglia. Non avevo mai accettato le sue avances e lei, vanitosa e troppo sicura di sé, se l'era legata al dito.
Ma perché mi stavo preoccupando di ciò che poteva raccontarle Martina?
"... In ogni caso questa forzata collaborazione non porterà nulla di buono." Continuai a voce bassissima il discorso troncato all'arrivo dei nostri conoscenti.
"Dai Giorgio non essere sempre così pessimista, magari questa cosa si rivelerà migliore di quanto pensi. Il destino..."
"No Arianna, non credo nel destino (non sempre almeno), ormai dovresti saperlo, non sognare l'impossibile, lo sai: non posso, non voglio!" Gli occhi di mia sorella si fecero tristi. "Credimi sorellina, è meglio che io stia da solo, è meglio per tutti, sai cosa è successo l'ultima volta." Carezzai con un dito la guancia liscia di Arianna, asciugandole sul nascere una piccola solitaria lacrima.
"E' che sono triste per te." Sussurrò tirando su col naso. "Devi superarlo, Giorgio, devi..." S'interruppe guadandomi, aveva capito che non era il caso di proseguire.
Filippo ci raggiunse per il pranzo e abbracciò teneramente Arianna. Ero contento per lei, la vedevo serena quando stava con lui e questo bastava a trasmettere serenità anche a me.
Francesco e Antonia invece, non erano con noi, se ne stavano distanti, baciandosi sotto l'ombra di un cedro del Libano. Si erano trovati ed ero felice per loro, anche se dovevo ammetterlo, in fondo al mio cuore brillava una punta d'invidia, invidiavo la normalità con la quale si approcciavano gli uni alle altre. A me non sarebbe mai successo.
Radiohead - Creep
******
...E qui entra in gioco l'altro protagonista, spero possa piacervi
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top