Capitolo 2


La biblioteca centrale era monumentale e presentava uno stile gotico, con i suoi soffitti alti e le arcate che separavano le diverse zone. Ci trovavamo nella sezione degli archivi storici, illuminata da un lampadario ricco di cristalli e da un paio di candelabri disposti sul lungo tavolo in legno. Malgrado io e Sam fossimo soli, lo avevamo occupato in buona parte con una miriade di libri e giornali impilati. Da una decina di minuti stavo leggendo un articolo di cronaca riguardante un orfanotrofio di periferia. L'infanzia di mio padre era stata molto diversa dalla mia: i suoi genitori erano morti per un incidente d'auto quando aveva poco più di dodici mesi e nessuno dei parenti lo aveva accolto, motivo per cui aveva vissuto, fino al raggiungimento della maggiore età, in un orfanotrofio di cui non mi aveva rivelato il nome. Pur essendo molto disponibile, non aveva mai raccontato molto di quegli anni e io avevo scelto di rispettare la sua volontà non facendo troppe domande malgrado la curiosità. Comprendevo il suo dolore e la riluttanza a ricordare. Sapevo solo che gli altri membri della famiglia erano morti quando ero molto piccola e che lui li aveva perdonati.
Ancora meno sapevo della storia di mia madre; solo che era stata trasferita nello stesso orfanotrofio di papà durante il secondo anno di liceo. Il solo rispetto nei confronti dei loro sentimenti mi aveva allontanata dall'indagare a fondo: era come se la loro vita fosse iniziata esattamente nel momento in cui si erano trasferiti a New York, venticinque anni prima.

Sfogliando le pagine, una foto attirò la mia attenzione. Mi mise i brividi. Un uomo alto e dalla barba folta posava di fronte a un edificio fatiscente e ombroso, circondato da alberi spogli; sul prato incolto, una moltitudine di foglie. Quell'immagine mi sembrava stranamente familiare. Il titolo citava: Tre anni dalla scomparsa misteriosa del bambino del Molistiv. Curiosa, continuai a leggere testimonianze e richieste di aiuto da parte di coloro che lavoravano nella struttura. L'articolo terminava con un numero da chiamare in caso di avvistamento e con una descrizione articolata del piccolo. Dovetti strizzare gli occhi, dato che l'inchiostro sbiadito rendeva difficile la comprensione di quelle ultime, cruciali parole. Le lettere che componevano il nome, in particolare, erano quasi fuse tra loro a formare un'unica macchia nera. Con qualche sforzo, riuscii a ricavare la informazioni più importanti.

Gabriel Nistor aveva sei anni al momento della scomparsa, capelli biondi, lisci e corti e occhi grandi e azzurri, pelle diafana. Altezza pari a un metro e due centimetri, magro di corporatura. Sul viso, un neo all'altezza della guancia destra e una cicatrice appena sotto al labbro inferiore.
Rimasi a bocca aperta dopo aver letto quella che sembrava una perfetta descrizione di mio padre. Sapevo che non si trattasse di lui: il nome era diverso, così come la data di compleanno; inoltre, a differenza del ragazzo, mio padre non aveva sul mento alcuna cicatrice. Una miriade di dubbi animò tuttavia il flusso dei miei pensieri e proseguii nelle ricerche sperando di trovare anche notizie relative alle scomparsa di Gabriel.
Tuttavia, arrivate le otto, orario di chiusura della biblioteca, dovetti arrendermi a due cocenti delusioni.
Sam aveva cercato, per tutta la giornata, di rimanere discreto, ma avevo notato che stesse studiando il mio comportamento, specie a partire dalla più recente scoperta, che mi aveva evidentemente incuriosita. La foto, la descrizione, il mistero: c'era qualcosa dentro di me che sentiva familiari fatti di quella vicenda e volevo scoprirne di più.

Aspettai che fosse distratto, prima di mettere nella borsa le poche pagine del giornale che avevo con così tanta attenzione letto e riletto durante il pomeriggio.
Sulla strada del ritorno, rimasi in silenzio. Non avevo raccontato della voce che mi aveva straziata in mattinata, né dei dubbi che mi stavano dilaniando. Sapevo che Sam avrebbe potuto aiutarmi. D'altronde, era incredibilmente intelligente, molto più di quanto non lo fossi io. E forse, era proprio quella consapevolezza a spaventarmi. Il mio cuore fragile aveva paura di scoprire una dolorosa verità.

La strada del ritorno era buia e solo la luce della luna illuminava il profilo di Samuel La Torre. Aveva appena due anni più di me, eppure la mascella squadrata rendeva il suo viso più maturo. Lo osservai attentamente, per la prima volta in giorni. Era davvero cresciuto. Tra le labbra teneva una sigaretta accesa da poco e guardava, con gli occhi socchiusi per la luce soffusa, i negozi in chiusura in lontananza.

Io e Sam eravamo cresciuti insieme, data la grande amicizia che le nostre famiglie condividevano. Non c'era Natale o compleanno che non avessimo condiviso. Eppure non nego che il nostro rapporto non fosse mai stato facile. Lui era impetuoso, creativo, divergente, a tal punto da diventare arrogante. Io razionale, ordinata, obbediente a tal punto da essere superficiale. Non l'avevo mai capito, prima della scomparsa dei miei genitori, ma ero il tipo di persona che non fa domande, perché non trova gusto nel ricevere risposte. Ma ero intenzionata a cambiare. E l'unico modo per farlo, era smettere di essere orgogliosa.

Formulai nella testa frasi su frasi, ma non ero brava con le parole e sapevo che non gli avrei potuto nascondere il fatto che lo avessi volutamente escluso dalle mie ricerche.
Giunti davanti alla porta della mia stanza, compresi che fosse arrivato il momento di parlare. Ma proprio quando stavo per aprire bocca, fu Sam a dire: "Ti va di dirmi cosa hai scoperto? È tutto il pomeriggio che sei strana" la voce era calma, ma il suo sguardo, complice i profondi occhi neri, intenso e curioso. Tentai di ignorare la sottile allusione offensiva e arrossii brutalmente, un po' perché ero stata colta nel fatto, un po' perché ero stata così ingenua da pensare che non avrebbe capito. Con gli occhi bassi, dopo aver aperto la porta, gli feci cenno di entrare. Lui, con il suo classico sorrisino canzonatorio, non esitò a precedermi.

"In effetti sembra la descrizione di tuo padre" decretò dopo essersi tolto le scarpe da ginnastica bianche, prima di sedersi sul letto. Gli avevo raccontato tutto quel che ricordavo. Non volevo trovarmi troppo vicina a lui e mi accomodai su una poltroncina in vermiglio poco distante.
"Non mi hai ancora detto come si chiama" proseguì. Annuii prima di porgergli l'articolo e gli appunti che avevo preso per semplificarne la lettura. Dopo aver letto le prime righe, spalancò gli occhi. Era sbiancato.
"Mi prendi per il culo, Katerina" sentenziò prima di alzarsi. Lo guardai torvo. Odiavo quel tono.
"Hai mai letto uno dei libri dei tuoi genitori?" Continuò. Mi alzai anche io.
"Smettila di trattarmi da idiota. Sapevo che non avrei dovuto dirti niente! Sei un arrogante insensibile!" lo spinsi sul petto con forza, arrabbiata. Nessuno gli dava il diritto di trattarmi così. Il suo viso si addolcì, ma io non avrei ceduto facilmente. Rimase in silenzio qualche istante, alla ricerca delle parole giuste.
"Kat, Gabriel Nistor è il protagonista del primo libro dei tuoi genitori" le mie mani, ancora immobili sul suo petto, strinsero per la tensione la t-shirt nera che stava indossando. Mio padre aveva forse preso ispirazione dalla storia di quel ragazzo, per il suo romanzo? Cercai risposte nel viso di Sam. Sullo zigomo sinistro aveva una piccola cicatrice. Se l'era fatta durante la festa del mio undicesimo compleanno. Per corto circuito, generato dalla pessima idea di installare un piccolo albero natalizio completo di luci in soffitta, era scoppiato un incendio ed ero andata nel panico perché qualche ora prima avevo lasciato lì il mio peluche preferito.

Devo andare a prenderla, Sammy. Mr. Poppy si trova lì. Dissi piangendo, le mani strette nelle tasche del maglione invernale.
Senza esitare, corse al posto mio. Vani furono i miei tentativi di fermarlo: un piccolo Sam tornò qualche minuto dopo col mio orsetto in mano. Era così diverso, allora. Così premuroso e paziente.
Ma ti sei fatto male, affermai indicando il suo zigomo. Lui fece spallucce, sorridendomi.
Sei il mio eroe sussurrai piano, quasi non volessi che il mondo sapesse di quel sentimento così puro e già fin troppo profondo. Non lo avrei mai ammesso, ma Sam era stato il primo ragazzo per cui avessi avuto una cotta. Una bella lunga, tra l'altro, che terminò, a partire da quel preciso giorno in cui l'avevo scelto come mio principe, fino al compleanno di sei anni dopo.

Neanche a dirlo, comunque, la madre lo sgridò per un'ora intera. Poche altre cose furono portate in salvo dalla furia delle fiamme. I primi a bruciare, ovviamente, furono i libri e le foto dell'infanzia di mio padre. Allora neanche potevo capirne l'importanza.
Ma di colpo tutto divenne chiaro.

"E l'uomo, quello nella foto..." Continuò Sam, la voce tremante. Non aveva bisogno di finire.

Questo era il direttore dell'orfanotrofio, amore. Un uomo burbero, ma saggio e generoso. È stato un po' come un padre per me.
Così me lo aveva descritto papà, quando per la prima volta mi aveva mostrato le poche immagini testimoni della sua travagliata infanzia.

Rimasi in silenzio, senza sapere cosa dire. Tutti i pezzi si incastravano perfettamente, come in un puzzle: mio padre era stato amico o comunque aveva conosciuto Gabriel e, una volta allontanatosi dal Molistiv, lo aveva omaggiato dedicandogli una storia. Sempre che quella storia, così cupa e macabra, incentrata su un mondo sovrannaturale e su come il protagonista vi fosse stato catapultato contro la sua volontà, potesse considerarsi un tributo.

Avevo finalmente trovato una pista ragionevole sul passato dei miei genitori, eppure non mi sentivo soddisfatta, malgrado quello fosse stato il mio unico obiettivo da giorni, mesi. Quando una testa comincia a fare domande, non riesce più a fermarsi. Mai come in quel momento avevo sentito la mancanza della vecchia Katerina.

Dopo aver fatto qualche ricerca relativa al luogo e a un eventuale cambio di gestione su internet, io e Sam -ottenute le conferme di cui avevamo bisogno- decidemmo che ci saremmo recati all'orfanotrofio la mattina dopo. Sapevo che non avrei dormito quella notte e non volevo restare sola con i miei pensieri, ma l'orologio indicava l'una e, senza troppi preamboli, suggerii a Sam -i cui occhi stanchi minacciavano di chiudersi da un momento all'altro- di sloggiare. Sarebbe rimasto lì sul mio letto tutta la notte a cercare informazioni pur di rendersi utile, ma aveva bisogno di dormire.

''Riposati. Ma prima fatti la doccia. Puzzi'' affermai indicando la porta e fingendo di tapparmi il naso. Gli sorrisi. Sorrisi per la prima volta dopo mesi. Non era per felicità, ma semplice gratitudine. Nonostante tutto, lui era rimasto accanto a me. Alzò l'angolo della bocca, lasciando da parte le parole. Aveva capito cosa intendessi veramente. Senza fiatare, si chinò su di me e schioccò un bacio sulla fronte. Imbarazzata, lo spinsi via. Sentii il petto e le guance infuocarsi e una sensazione di calore nel basso ventre. Sapeva quanto odiassi quel tipo di scambi. Non ero mai stata particolarmente dolce o fisica neanche con Sebastian, malgrado le circostanze. Le smancerie erano ciò che di più lontano si potesse immaginare dal mio carattere. Scostandolo, non riuscii a non notare il sorriso stampato sul viso. Adorava mettermi a disagio.

''Sei un idiota'' sussurrai prima di indicargli nuovamente la porta e mimare con le dita due gambe in movimento. ''Buonanotte, stronza'' e se ne andò.

''Dio, che caldo'' pensai sfilandomi i pantaloni, il maglione, e dopo il reggiseno, non appena la porta sbatté. Dovevano aver acceso il termosifone. Decisi di mettermi a letto per cercare di dormire, ma, consapevole del modo in cui la mia insonnia fosse peggiorata dopo la scomparsa di mamma e papà, pensai di passare, dopo tanto, qualche minuto su Instagram per alleggerire la tensione.

Le stories dei miei vecchi amici non erano poi tanto diverse da come le ricordassi e si alternavano tra foto nei più costosi club della città e mega feste in piscine private. Amanda, quella che era stata la mia compagna di banco per tutti gli anni di liceo, posava con le tette rifatte in un bikini succinto, mentre Brandon, il capitano della squadra di basket, riprendeva in una foto in bianco e nero le pareti di Harvard. Per ultima Taylor, la mia ex migliore amica, festeggiava sette mesi di fidanzamento con Sebastian Monroe, citando una canzone:

Your eyes are blue, like the Ocean. And Baby, I'm lost at sea.

Rimasi senza respiro di fronte a quelle mani, le stesse che mi avevano accarezzata, le uniche che lo avevano mai fatto in quel modo, immerse nei capelli neri di quella che era stata la mia migliore amica. Quattro mesi dopo la scomparsa dei miei genitori, Sebastian mi aveva lasciata perché secondo lui ero cambiata, non ne valevo più la pena. Una settimana dopo, Amanda mi aveva detto che l'aveva visto sbattersi Taylor nei bagni di un locale chic di Manhattan. La stessa ragazza che quel medesimo pomeriggio mi aveva asciugato le lacrime dal viso.

Mi domandai come avessero trovato il coraggio di farmi così male, quando era con loro che condividevo ciò che stavo provando. Mi chiesi come potessero essere così felici, come Sebastian potesse amare così, con quegli stessi occhi, una donna che non ero io. Mi maledii per quei pensieri, per essere ancora così debole e, dopo aver appoggiato il telefono sul comodino, buttai la testa sul cuscino. La stanza era buia e silenziosa, ma un urlò improvviso squarciò quella pace lacerandomi i timpani. Riconobbi immediatamente quella voce: era la medesima che avevo sentito appena uscita dal Bed & Breakfast, quella che mi aveva urlato di scappare. Ora era disperata, strillava forte e più forte nella mia testa, nella stanza, nel mio mondo. Cercai di portare le mani alle orecchie, così straziate da sembrarmi sanguinanti, e di alzarmi, ma le lenzuola, come possedute, si avvolsero intorno al mio collo e, proprio prima che riuscissi a strillare, intorno alla mia bocca. Non capivo cosa stesse succedendo. Ero pietrificata dalla paura, ma cercai di farmi forza e di combattere quella presenza maligna. Dal cielo proruppe un lampo così forte da illuminare interamente la mia stanza.

''SCAPPA'' gridò per l'ultima volta la voce demoniaca prima di cessare il suo concerto terrificante. Le coperte, così come avevano iniziato quella danza, la abbandonarono. Poi il tuono, forte e totalizzante, diede il via a una pioggia scrosciante. Non sapevo se sperare di essermi immaginata tutto o no. Ero davvero pazza? Non mi diedi nemmeno il tempo di rispondere, che scappai via dalla camera, con le poche energie che avevo in corpo.

Raggiunta la stanza di Sam, iniziai a bussare affannosamente. Lui mi aprì qualche secondo dopo, ma non ebbe neanche il tempo di darmi un'occhiata, perché le ginocchia mi cedettero e crollai a terra. Non riuscivo a smettere di sentire quella voce disperata. Era dentro al mio cervello e non riuscivo a farla uscire. Le lacrime iniziarono a scendere dai miei occhi, senza che la mia volontà riuscisse a fermarle. In quel momento, dubitavo di averne alcuna.

''Falla smettere...Basta...''biascicai tra le lacrime. Non osai neanche immaginare cosa Sam stesse pensando di me in quell'istante, né come potesse interpretare, da persona sana ed equilibrata, quella richiesta di aiuto. Chiunque altro mi avrebbe presa per pazza. Ma lui non indagò. Fu solo quando sentii le sue braccia avvolgere le mie cosce nude che realizzai, oltretutto, che ero scappata dalla mia stanza in mutandine e canottiera di pizzo. Ma non mi importava. Così, con le braccia avvolte intorno al suo collo, riuscii a calmarmi.

Ma quello era solo l'inizio del mio incubo.

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