Capitolo 1

Sorrido in silenzio, come al solito, osservandolo mentre dorme. I capelli biondi scomposti sul cuscino candido, la pelle liscia baciata dal sole debole di ottobre, le labbra rosee leggermente dischiuse. Ancora non riesco a credere che Sebastian abbia scelto me, né ne capisco il motivo. Riesco solo a sorridere e sorridere ancora, di gioia, di fronte alla sua espressione corrucciata, quando la sveglia delle sette suona, e non può più ritardare nei suoi sogni.
Quando tira su le palpebre, volge i dolci occhi azzurri sul mio viso e in quelle iridi trovo il cielo in cui avrei sempre voluto volare. Due colpi sulla porta mi distraggono dal mio ragazzo e istintivamente tiro su le coperte, per nascondere i corpi seminudi di entrambi dalla vista di mia madre. Sebastian ride compiaciuto e infila velocemente la camicia appoggiata sulla spalliera del letto ma io non riesco più a sorridere perchè la donna che entra nella stanza non è la stessa che mi ha cresciuta e che con tanto amore ho sempre chiamato 'mamma'.

Mi rigiro nel letto, turbata, e mi metto su un fianco, ancora addormentata, prima che un nuovo sogno ispezioni un vecchio -e doloroso- ricordo.

Sono passati dieci mesi dalla scomparsa dei miei genitori, eppure il solo pensiero di rovistare tra le loro cose mi mette agitazione. Mi mando al diavolo per aver seguito il consiglio di Samuel, uno dei miei amici di infanzia. Le gambe mi tremano, ma cerco di combattere quella sensazione che quasi mi butta a terra e di ignorare il dolore che mi trafigge il cuore. Entro nella loro stanza e per un attimo la forza dell'abitudine mi riporta a tutte le altre volte, a tutti gli altri momenti in cui li ho visti seduti sul letto bianco di seta, sempre pronti a darmi un consiglio o a regalarmi una risata. Quando torno alla realtà, sento una nuova fitta ma, un passo dopo l'altro, mi inoltro nella camera. Un occhio estraneo potrebbe dire che nulla sia cambiato, ma non io. Ricordo perfettamente ogni singolo istante della mattina d'autunno in cui l'investigatrice, dopo aver fatto capolino al mio letto, aveva goffamente cercato di giustificare la violenza con cui i suoi colleghi, pochi minuti dopo, avrebbero messo a soqquadro la stanza dei miei genitori. Poco importa quanto Susanne, la donna di servizio, abbia cercato di rimettere tutto apposto: il gesto è ammirabile, ma mia madre non metterebbe mai sul comò il suo prezioso vaso rinascimentale.

Non è giusto. Non è naturale. Niente lo è.

Sento la rabbia gonfiarsi nel petto, e in un gesto impulsivo colpisco il vaso con tutta la forza che ho in corpo. La mia mano fragile si rompe con la terracotta. Neanche mi importa, di averlo distrutto. Tanto mia madre non lo scoprirà. Non può più scoprire niente ormai, così mi giustifico alla mia coscienza. Ma quando quel momento di furia passa, rimango sola con il dolore e con il suo oggetto da collezione preferito in frantumi. Le lacrime mi gonfiano gli occhi e mi metto a piangere, perché non mi riconosco più. E poi, più forte, perché so che lei non mi prenderà tra le braccia per dirmi che va tutto bene. All'improvviso, quel vaso diventa la cosa più importante del mondo. Allungo le dita per raccattare i pezzi scheggiati, che inevitabilmente squarciano ancora più in profondità la pelle. Devo aggiustarlo. Individuo l'ombra di uno scampolo da sotto il comò. Ma quando cerco di afferrarlo, mi accorgo col tatto che si tratta di un pezzo di carta; addirittura di una lettera. La rimuovo cautamente: al suo interno trovo tre biglietti, a nome mio, di mia madre e di mio padre. La data di partenza segna il dieci di otto mesi fa. E la destinazione è Brasov.

Mi svegliai di colpo, madida di sudore, nel letto del Bed and Breakfast in cui, da qualche giorno, stavo alloggiando. Avevo perso il conto delle volte in cui quella stessa scena mi aveva risvegliata, come se il mio inconscio non sapesse far altro che rievocare in loop quei momenti. Era passato quasi un anno da quel giorno, da quel fatidico risveglio, ma mi sembrava di essere dieci anni più vecchia. Tutte quelle idee che affollavano la mia mente, se sarei davvero stata eletta reginetta al ballo di fine anno, i vestiti firmati, le feste alcoliche a casa di Tiffany, Sebastian, il college... era tutto sfumato.

Mi alzai e mi trascinai verso il bagno, una stanzetta di appena qualche metro quadro, priva di arredamento. Ormai neanche mi disgustava più quell'ambiente lugubre e spento. La mia indifferenza assoluta rendeva tutto più sopportabile. Indossai dei jeans comodi e larghi e un maglioncino nero e pettinai i miei corti capelli biondi, dopo aver fatto una doccia fredda. Mi rassegnai di fronte allo specchio, senza più cercare il riflesso della ragazza che ero, come avevo fatto tante volte prima nei mesi precedenti, quando l'ottimismo ancora animava le mie ricerche. Mi rassegnai alle ciocche di capelli che cadevano quotidianamente per stress, al pallore che contraddistingueva le mie guance un tempo rosa e paffute. Mi abituai ai solchi immobili che accanto alla bocca erano stati abituati a segnare l'ombra di un sorriso.

Scesi noncurante al piano di sotto, consapevole che avrei dovuto comunque attendere Samuel, il mio accompagnatore in quello strano viaggio. La struttura non era dotata di ascensore, ma le scale erano decorate a tema Halloween, in occasione della grande festa cittadina che si sarebbe tenuta di lì a qualche giorno. Non ero in vena di festeggiare, ma il mio spirito si alleggerì un poco di fronte al ragnetto sorridente, in plastica, che pendeva dalla finestra. D'altronde era stata, da che avessi avuto memoria, la mia festa preferita, così come quella dei miei genitori, e l'idea di assaporarla nella loro città natale, Brasov, nelle terre della Transilvania, me la rendeva ancora più cara. Arrivata alla sala in cui veniva servita la colazione, mi sedetti al primo tavolo libero, posto accanto a una colonna in legno. Tutto il locale era decorato con lo stesso materiale, a partire dai soffitti fino alle pareti ma, seppure non mi sfuggisse l'intento di creare un ambiente familiare e accogliente, i continui riferimenti ai miti del posto, come Dracula e le altre creature della notte, lo rendevano, seppur caratteristico, anche ambiguo.

''Buongiorno, Kat'' la voce profonda e rauca di Samuel mi richiamò alla realtà, sottraendomi alla forza magnetica che quelle maschere mistiche esercitavano visceralmente su di me. Dopo avergli dato uno sguardo, confermai il mio primo pensiero: doveva essersi svegliato appena qualche minuto prima. Si accomodò di fronte a me, prendendo tra le mani un giornale, che prontamente rilasciò sul tavolo. Conosceva l'inglese, l'italiano, il francese e un po' di spagnolo, ma non di sicuro il rumeno. Era a modo suo buffo e quella scena, che si era ripetuta identica dalla prima mattina, nei nostri tre giorni di residenza, rendeva persino un posto così distante, più simile a casa. Samuel era tutto ciò che rendeva quel posto così distante simile a casa.

''Potevi almeno darti una sistemata, prima di scendere'' gli suggerii indicando il cespuglio di ricci neri che aveva in testa. Lui non si scompose. Ero una ragazza tranquilla tendenzialmente, ma non con Samuel. Il nostro rapporto funzionava così, da quando avevo imparato a parlare, poco tempo dopo di lui malgrado i due anni di differenza: ci punzecchiavamo di continuo. E mi confortava constatare che, malgrado le nostre strade negli anni si fossero divise, almeno le nostre dinamiche erano le stesse.

''Continuo a non capire perché dobbiamo svegliarci così presto. Sono le otto, Kat'' rispose dopo un lungo sbadiglio, poggiando i gomiti sul tavolo. Tirò su gli occhiali da sole e puntò i grandi occhi neri, notevolmente appesantiti dalle occhiaie, nei miei e io gli ricordai, per la milionesima volta, che nessuno l'aveva obbligato a partire con me, che la mattina è il momento più proficuo della giornata e altre stronzate. Finito quello che era diventato un monologo, scosse la testa borbottando, prima di addentare il cornetto che il cameriere gli aveva portato. Rimanemmo in silenzio per il resto della colazione, lanciandoci di tanto in tanto delle occhiate.

Fuori l'aria era umida ma non fredda e, malgrado il cielo fosse plumbeo, non pioveva ancora. Con gli ombrelli sotto mano, io e Sam ci incamminammo verso il centro della città, alla ricerca della biblioteca. Nei giorni precedenti ne avevamo visitate altre, trovando vicoli ciechi piuttosto che risposte o informazioni attendibili sul passato misterioso dei miei genitori. Molti articoli parlavano dei loro risultati in quanto scrittori fantasy, ne lodavano il talento e ne reclamavano la nascita, in primo luogo poiché era il loro luogo di origine, ma anche perché la Transilvania era la terra delle creature protagoniste dei loro racconti. Tuttavia negli archivi storici delle altre biblioteche non avevamo trovato niente di relativo alle loro vite private, tanto che stavo lentamente abbandonando persino quell'ultima speranza di sentirmeli vicini.

La verità è che io non credevo che li avrei ritrovati. Avevo perso, dopo undici mesi, qualunque traccia di ottimismo, perché malgrado il mondo si fosse mobilitato a cercare Vasile e Adina Danca, qualunque tentativo si era dimostrato inconcludente. Io, a differenza dei miei genitori e di Sam, non ero per le storie a lieto fine, non credevo nei romanzi e nei ritorni. Credevo, da sempre, nei numeri e nelle probabilità, nelle piste realistiche. E questo caso ne aveva... zero. Stavo cercando, a modo mio, di affrontare il lutto e il dolore, eppure non mi dava pace l'idea che non si sapesse come fossero morti. Non riuscivo ad accettare come sembrassero letteralmente scomparsi dalla Terra. Non riuscivo ad andare avanti con la mia vita, al punto che quel pensiero e quell'ossessione per il bisogno della verità mi avevano allontanata da tutto ciò che, in precedenza, mi era stato caro. Ma mi ero promessa che l'avrei fatto, che sarei davvero andata avanti, dopo il viaggio a Brasov. Quello era un ultimo tentativo disperato di mettermi in contatto con loro, con ciò che avevano vissuto, nel posto in cui erano cresciuti. Era diventato il mio ultimo tentativo di stringerli a me, seppur solo figurativamente, prima di lasciarli andare.

Quel turbine di pensieri mi lasciò addosso un profondo senso di ansia e l'agitazione mi fece tremare le gambe. Incrociai le braccia sul petto per nascondere il malessere ma Sam se ne accorse quasi immediatamente. Rimanendo in silenzio, mi si fece più vicino, consapevole che non avrei mai accettato una parola di conforto, o un abbraccio. Mi sorprendeva sempre come capisse esattamente quello che mi stesse passando per la testa, a tal punto che sentii lo stomaco attorcigliarsi. Quello stesso sentimento di pancia mi fece venire la nausea e mi allontanai con slancio lanciandogli un'occhiata torva. Erano passati mesi dall'ultima volta in cui avessi stabilito un contatto ravvicinato. Guardai ovunque tranne che nella sua direzione, cercai di gestire i respiri. Avevo paura che mi stesse per venire un attacco di panico. Poi un brivido mi percorse, viaggiando veloce sulla colonna a partire dal tratto lombare, fino a insinuarsi tra le pieghe del cervello. Una volta entratovi esplose in un urlo: ''Scappa''.

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