49|| Per Sempre E Un Giorno Ancora
𝕽𝖎𝖊𝖘𝖈𝖔 𝖆 𝖑𝖎𝖇𝖊𝖗𝖆𝖗𝖒𝖎 𝖉𝖊𝖑 𝖒𝖎𝖔 𝖔𝖉𝖎𝖔 𝖊 𝖘𝖊𝖓𝖙𝖎𝖗𝖒𝖎 𝖎𝖓 𝖕𝖆𝖈𝖊 𝖘𝖔𝖑𝖔 𝖖𝖚𝖆𝖓𝖉𝖔 𝖚𝖈𝖈𝖎𝖉𝖔 𝖖𝖚𝖆𝖑𝖈𝖚𝖓𝖔. 𝕻𝖔𝖘𝖘𝖔 𝖙𝖗𝖔𝖛𝖆𝖗𝖊 𝖈𝖔𝖓𝖋𝖔𝖗𝖙𝖔 𝖆𝖑 𝖒𝖎𝖔 𝖉𝖔𝖑𝖔𝖗𝖊 𝖘𝖔𝖑𝖔 𝖖𝖚𝖆𝖓𝖉𝖔 𝖛𝖊𝖉𝖔 𝖆𝖑𝖙𝖗𝖎 𝖘𝖔𝖋𝖋𝖗𝖎𝖗𝖊.
-Il "Killer della scuola di Kobe"
Osiride non aveva mai sentito freddo. In tutta la sua esistenza da dio, da creatura impalpabile e immortale, mai si era sentito così infreddolito.
Non era, però, un gelido torpore come quello che l'inverno portava con sé. L'avrebbe definito come una sorta di anestetico che, lento e con studiata pace, gli addormentava le membra. Aveva guardato Iblīs, rivedendosi in quegli occhi così lilla.
Un tempo, anche lui era stato un giovane tormentato dal fantasma del tradimento. Pensava di essersi lasciato tutto alle spalle, eppure non era così.
"Parli bene per essere un'umana." Aveva alzato una mano in aria, sorridendo.
Asteria non aveva mai visto sorriso tanto triste quanto malinconico. Forse fu quello a farle capire che era riuscita a scuoterlo, a farsi ascoltare. Quindi aveva ricambiato con una flebile alzata delle labbra, annuendo.
Sentiva le braccia di Iblīs stringersi attorno al suo corpo mentre le calde lacrime di lui le bagnavano il viso. Temeva che morisse senza di lui.
Improvvisamente, Osiride non era più certo di essere dalla parte del giusto. Aveva osservato le occhiaie lambire la pelle squamata dalla preoccupazione di Iblīs e se ne era sentito responsabile.
Il primo sbaglio, aveva pensato il dio, era stato accettare l'accordo della defunta regina. All'epoca era stata l'euforia a fargli dire di si. Per un po' si era persino considerato una divinità misericordiosa.
Aveva rovinato delle vite, ecco cosa aveva fatto.
"Spezzerò la maledizione che ti lanciò tuo padre," aveva iniziato lui, cauto, mentre osservava gli occhi del Re scintillare con avidità, "cosicché chiunque ne sia stato colpito possa tornare a invecchiare. Coloro che furono tramutati in animali, poi, torneranno umani."
Osiride si era alzato dal suo maestoso trono, assumendo una stazza più umana. Non aveva degnato suo fratello di uno sguardo, consapevole di ciò che avrebbe visto nei suoi occhi: scherno.
Non era da lui essere debole, eppure un tempo era stato una creatura giusta.
"Ma per quanto riguarda tuo fratello..." si era piegato su di loro, facendo saettare lo sguardo dal volto di uno a quello dell'altro, "spetterà a te vendicarti, se proprio vorrai farlo. Queste mani bramano il sangue di una divinità che non può essere uccisa, e non intendono privare le tue della loro giusta vendetta."
Gli aveva sorriso, mostrando due file bianche di denti appuntiti, pericolosi e in grado di dilaniare qualcuno in pochi secondi. No, Osiride non avrebbe ucciso Uraeus, ma ne avrebbe apprezzato l'anima. Non era compito suo vendicarsi.
Iblīs lo aveva osservato, sgomento ma meno irato di prima, fare un passo indietro. Forse era la prima volta in vita sua che ringraziava un dio, ed era certo che sarebbe stata anche l'ultima.
Se Osiride avesse davvero spezzato la maledizione, lui sarebbe stato in grado di uccidere una volta per tutte suo fratello. Si era leccato le labbra, entusiasta.
Tra le sue braccia, Asteria aveva iniziato a mugugnare, stringendo il pugno sinistro contro lo stomaco. La sensazione di nausea che provava era indescrivibile, quasi peggiore delle continue fitte che continuava ad avvertire al torace.
Morire era davvero così doloroso? Chiudendo gli occhi, si era immaginata bambina. Ricordava la strada sterrata per l'orfanotrofio, il profumo dei papaveri e i rimproveri delle tutrici. Erano memorie a lei molto care, di conforto, e per un attimo si era sentita meglio.
Anche se fossero usciti vivi di lì, come Osiride aveva promesso, la possibilità di essere assaliti dagli uomini di Uraeus persisteva. Certo, loro non avrebbero saputo nulla della cessata immortalità del Re, ma il pericolo era comunque presente.
Quando Seth aveva fatto il primo passo verso di lei, l'attenzione dei presenti si era spostata su di lui. Ancora nelle sue sembianze divine, il dio non aveva prestato attenzione all'espressione accigliata del fratello.
Era indubbiamente infastidito dal fatto che Asteria avesse sfruttato i suoi trascorsi familiari per impietosire Osiride, ma doveva ammettere che aveva funzionato. Era forse la prima volta che vedeva un dio venire raggirato con così tanta maestria da un'umana.
Quindi le aveva sorriso, tra il tagliente e il divertito, superando suo fratello. In un certo senso, Seth era deluso dalla svolta che aveva avuto quella vicenda.
Insomma, non si era divertito nemmeno la metà di quel che aveva sperato!
Forse gli umani, con il passare del tempo, si erano fatti noiosi. Ma non aveva importanza, avrebbe trovato qualcun altro con cui divertirsi. Dopotutto, aveva la promessa dell'eternità davanti a sé.
"Cosa succederà, adesso?" Aveva fiatato Asteria, lasciando che la sua voce suonasse come un alito di vento piuttosto che a un groviglio di parole. Era debole, ma la paura era ancora lontana; forse era dovuto al fatto che sapesse che di lì a poco sarebbe stata salva.
"Vi risveglierete nel punto in cui avete perso conoscenza, conservando i ricordi di ciò che è accaduto qui. Da quel punto in poi, sarete padroni di fare quel che volete."
Era stato Osiride a parlare mentre, con lo sguardo assente, fissava la sabbia lontana. Ironicamente quella sua dimostrazione di gentilezza non lo aveva soddisfatto; una parte di sé bramava ancora quella idilliaca sensazione di completezza che solo la vendetta poteva regalargli.
Aveva lanciato un'occhiata a suo fratello, studiandone i tratti così simili eppure totalmente diversi dai suoi. Più che vendetta, il dio avrebbe voluto riavvolgere il filo del tempo per tornare indietro, in un tempo assai lontano e colmo d'amore.
Magari Iblīs, al contrario suo, l'avrebbe trovato. Oppure avrebbe scelto di adottare la filosofia del dente per dente. In entrambi i casi, sarebbe stato libero.
Si era piegato verso il Re, sfiorandogli la fronte con la punta sottile dell'indice. Seth lo aveva emulato, facendo lo stesso ad Asteria.
"Fate buon viaggio."
I due avevano chiuso gli occhi, ancora congiunti in un abbraccio, sentendosi avvolgere da un astratto velo di freschezza. Il calore del deserto addietro era stato velocemente dimenticato, sostituito dalla brezza gentile di una sera che lì non esisteva.
Senza accorgersene, Iblīs aveva perso la presa su Asteria. Si era accorto della sua assenza solo quando aveva avvertito la superficie gelida del pavimento, l'odore nauseabondo del sangue misto all'urina e il rumore di schiamazzi.
Non aveva aperto gli occhi, stranamente consapevole del da farsi. In un certo senso si sentiva più padrone della sua mente, anche se non totalmente. Sapeva, comunque sia, di doversi fingere morto.
La mancanza della vista non voleva però dire che fosse completamente all'oscuro di coloro che si stavano muovendo attorno a lui. Sentiva la voce di suo fratello sbraitare ordini a qualche metro di distanza.
C'era voluto poco a fargli credere d'esser diventato Re.
Quasi non aveva ridacchiato, mandando all'aria il piano.
Aveva bisogno di capire quante persone vi fossero lì dentro, prima di attaccare. Un tempo era stato un abile spadaccino, specializzandosi nel lancio dei coltelli. Ma erano passati anni, decenni, ed Iblīs non era certo di possedere ancora tale bravura.
Inoltre portava solo un pugnale con sé, legato stretto in vita, che di certo non sarebbe stato necessario a mettere fuori gioco tutte quelle persone. Se non poteva fare affidamento sulla sua forza fisica, doveva perlomeno escogitare un piano scaltro.
Poi, in un lampo, era arrivata l'illuminazione.
Aveva spalancato gli occhi lilla, trovandosi a fissare il soffitto logorato dall'umidità. Macchie di muffa avevano preso in ostaggio porzioni di cemento, rovinandolo. Sorridendo, Iblīs si era alzato a sedere, premendosi una mano contro l'occhio destro.
Per tutti gli dei, aveva un mal di testa a dir poco insopportabile.
Non aveva alzato subito lo sguardo su suo fratello, tantomeno aveva cercato di adocchiare i suoi sostenitori. No, erano loro che dovevano guardarlo.
Gli aveva regalato qualche secondo di puro silenzio, sentendo le loro viscere stringersi per lo stupore e il terrore di vederlo ancora vivo.
"Com'è possibile..." uno degli uomini di Uraeus aveva fatto un passo indietro, stringendosi la lancia al petto. Iblīs non aveva risposto, continuando ad allargare progressivamente il ghigno che gli incupiva il volto.
Scena, doveva fare scena.
"Ah!" Aveva preso un respiro profondo, forzatamente teatrale, mentre inclinava la testa di lato. Quindi aveva poggiato il mento contro le gambe che teneva strette al petto, osservando uno a uno i presenti.
Non erano altro che insignificanti scarafaggi e lui, oh, lui li avrebbe schiacciati sotto la suola della sua scarpa. Forse avrebbe potuto scegliere un metodo diverso, magari meno cruento, per risolvere la faccenda.
Si sarebbe potuto redimere, no? Provare a intrattenere una conversazione con suo fratello, magari persino perdonarlo. Ma no, Iblīs non era lì per permettergli di fare ammenda, era lì per riscuotere ciò che era suo di diritto.
"Tu-" aveva bisbigliato Uraeus, contraendo la mascella e stringendo i pugni, "tu dovresti essere morto." Il veleno era traboccato dalle sue labbra come miele, macchiando di putrido le parole pronunciate.
Sbadigliando, Iblīs aveva premuto le mani contro il pavimento, alzandosi in piedi. Le ginocchia avevano inizialmente minacciato di cedergli mentre avanzava di uno, due e tre passi. Non pensava che tornare dal mondo dei morti lo avrebbe lasciato così indebolito.
"Oh, credo proprio che tu abbia dimenticato, si che tu abbia proprio dimenticato che non posso morire, mio caro fratello." Si era sporto in avanti con il busto, mostrando le due file bianche di denti.
"Il sacerdote-"
"Il sacerdote deve esser stato stupido tanto quanto te per credere che sarebbe riuscito a spezzare una maledizione che porto da anni."
Si era leccato le labbra, deliziato dalla sua stessa bugia. Gli uomini di Uraeus, a quel punto, non avrebbero nemmeno provato ad avvicinarsi a lui. Che senso avrebbe avuto rischiare la vita per uccidere un uomo che non poteva morire?
Ciò che Iblīs sapeva e che, ovviamente, nascondeva loro era che ormai non vi era più nessuna maledizione a proteggerlo.
"Ah..." il Re aveva gettato la testa all'indietro, sospirando, "che scocciatura."
Il pugnale che teneva in vita era stato sfoderato, lucente contro le fiamme scure delle torce, e fatto girare tre volte su se stesso.
Iblīs lo aveva lanciato una volta, afferrandolo dalla lama. Aveva sentito la pelle stridere, addolorata, mentre sul palmo della mano gli si apriva un piccolo taglio dritto.
"Allora, chi vuole essere il primo? Nessuno? Suppongo che toccherà a me scegliere, vista la vostra riluttanza."
E così dicendo si era voltato repentinamente a sinistra, afferrando dalla nuca uno degli uomini. Il poverino aveva tentato la fuga.
Per un attimo Iblīs si era detto che forse vi era un altro modo per risolvere le cose; non doveva necessariamente ricorrere alla violenza e alla morte, giusto?
No, non doveva eppure oh, lui voleva farlo.
Si era quasi dispiaciuto nel capire che non avrebbe mai avuto il percorso di redenzione che un qualsiasi eroe aveva. Forse era stato destinato a una vita da cattivo, da antagonista.
Lo avevano dipinto così per anni, quindi tanto valeva dargli ciò volevano.
Aveva forzato il viso dell'uomo verso l'alto, costringendolo a guardare il soffitto proprio come aveva fatto lui.
"Salutami Osiride."
E così dicendo aveva aperto un lungo squarcio sulla gola dell'uomo, sentendolo annaspare, esanime, tra le sue braccia.
Dubitava che ne avrebbe uccisi altri. Quello era stato solo un esempio, un monito.
Chiunque gli fosse stato d'intralcio, sarebbe morto. Non era stata una sorpresa, quindi, quando aveva visto gli uomini fuggire verso l'uscita.
Sarebbero morti anche loro, ma prima doveva occuparsi di Uraeus.
"Cosa vuoi fare?" Il principe aveva schiuso le labbra, tentando di sembrare divertito. Non lo era. Il suo piano aveva appena fallito e questo significava dover accettare la sconfitta.
Ma non era disposto a farlo e mai lo sarebbe stato.
Iblīs non aveva risposto, limitandosi a girargli attorno. Passo dopo passo, il Re sentiva la pazienza di suo fratello farsi sempre più sottile.
Oh, e se gli avesse amputato le gambe? L'avrebbe costretto a strisciare fino alle scale, gli avrebbe concesso l'illusione della salvezza e poi, poi l'avrebbe finito con un colpo secco al cuore.
Cuore...si era portato la mano al petto, tastando con la punta dell'indice la spessa cicatrice che lui stesso si era inferto.
Quindi aveva spalancato il palmo, ascoltando l'orchestra trionfante che suonava nella sua cassa toracica.
Osiride doveva averglielo rimesso a posto, era l'unica spiegazione. Una parte di lui ne era stata scontenta. Voleva che lo tenesse Asteria.
Se glielo avesse nuovamente offerto, sarebbe morto per davvero. Non che gli importasse, comunque sia.
Si sarebbe strappato il cuore per altre mille volte se questo avesse significato la felicità di lei.
"Metti via il pugnale," aveva sbuffato Uraeus, scuotendo il capo con aria esasperata, "sai bene di non aver potermi uccidere."
A Iblīs era quasi venuto da ridere.
"Non poter morire non significa non poter soffrire."
Facendo roteare con eleganza l'arma, il Re aveva fatto uno scatto di lato, colpendo il minore al costato.
Si erano fissati per interminabili secondi, entrambi con gli occhi sgranati. Istintivamente, Iblīs aveva spinto la lama più a fondo.
Il sangue era schizzato, vermiglio, sul pavimento. Aveva un odore nauseabondo, marcio, eppure era ciò che di più vivo ci fosse.
Con la mano libera gli aveva afferrato i capelli, osservando il modo in cui stringeva i denti e tossiva.
Solo quando aveva visto la realizzazione farsi spazio nelle iridi di Uraeus aveva stretto la presa sui suoi capelli, spingendogli la testa verso il basso per colpirlo al naso con una ginocchiata. Il rumore dell'imminente frattura era stato come musica per le sue orecchie.
Abbassando lo sguardo, Iblīs aveva visto il fratello sputare a terra una generosa quantità di sangue. Con il volto ormai rovinato, al minore dei fratelli non era rimasto altro che inspirare ed espirare compulsivamente.
No ci sarebbe voluto molto prima che capisse che qualcosa non andava. Dopotutto, l'immortalità aveva regalato loro il dono di una guarigione veloce. Non importava il tipo di danno, il loro organismo si sarebbe rigenerato in tempi da record.
Per questo motivo, Iblīs aveva deciso di non potersi permettere perdite di tempo. Aveva lasciato la presa ferrea esercitata sul fratello per colpirlo al ginocchio teso, causandogli la seconda, inguaribile frattura.
"Come è possibile..." aveva sibilato Uraeus con la voce resa stridula dal colpo subito al setto nasale. Come prima cosa aveva tastato la bruciante ferita che si trovava sul costato. Inspiegabilmente, l'aveva trovata ancora aperta e sanguinante.
Quando aveva finalmente alzato gli occhi su suo fratello, si era sentito gelare. Un conato di vomito si era fatto strada su per il suo esofago e, non incontrando resistenza, l'aveva costretto a rigettare tutto il contenuto del suo stomaco sulle mattonelle incrostate di lerciume.
"Non meriti nemmeno una spiegazione." Iblīs si era inginocchiato davanti a lui, costringendolo a mantenere un contatto visivo. Uraeus era certo di non averlo mai visto tanto furioso come in quel momento.
Il Re gli aveva afferrato il braccio destro e, con un movimento fulmineo, glielo aveva torso e piegato verso la schiena. Più il principe urlava e più Iblis si sentiva in estasi.
Finalmente avrebbe pareggiato i conti.
Quando si era ritenuto stanco della semplice torsione, gli aveva premuto una mano sulla spalla, tirandogli il braccio con forza spaventosa.
"Sei un mostro." Aveva quindi sputato Uraeus, mentre gemeva e si contorceva al suolo, alla disperata ricerca di un'arma da afferrare.
E Iblīs aveva riso, sinceramente divertito, gettando la testa all'indietro.
"Sei stato tu a rendermi un mostro," si era strofinato le palpebre mentre i ricordi della sua infanzia riaffioravano in veloci e sfuggenti flashbacks, "l'unica persona che dovresti incolpare sei tu."
Ancora con le gambe tremanti, il maggiore era tornato a torreggiare dritto sopra il corpo devastato di suo fratello. Con un braccio e una gamba fuori uso, avrebbe potuto fare ben poco. Ma non poteva correre rischi, giusto?
Aveva adocchiato le catene che sporgevano dal muro e le aveva trovate identiche a quelle a cui, molti anni prima, era stato legato. Rammentava le lezioni di suo padre mentre, appeso per i polsi, veniva colpito.
Dopotutto, perché non condividere quell'esperienza con suo fratello?
Iblīs era tornato ad afferrarlo per la chioma morbida, ora sporca e tremenda sia alla vista che all'olfatto, trascinandolo verso le catene arrugginite e usurate.
"Lasciami andare! Ti ho detto di lasciarmi, maledetto!" Uraeus, il Re gliene dava atto, si dimenava con vigore. Non si sarebbe rassegnato così facilmente alla prospettiva di morte.
"Oh, non temere: io non ho affatto intenzione di ucciderti. Sarebbe troppo magnanimo, non trovi?"
Aveva tentato di sentirsi in colpa, di essere l'eroe che si aspettava di diventare, ma non aveva trovato altro che rancore. Odiava con ogni fibra del suo corpo suo fratello, tanto quanto odiava suo padre.
Iblīs li aveva amati per moltissimo tempo, abbastanza per superare quella linea invisibile che separava l'amore dall'odio, fino al punto in cui la sua concezione di affetto si era fusa con quella di dolore.
In un certo senso, li amava ancora; in un altro, avrebbe continuato a ucciderli per mille altre vite.
Senza nemmeno rendersene conto, Iblīs aveva costretto i polsi di Uraeus nelle spesse catene, immobilizzandolo. Per sicurezza, si era poi accertato di bloccargli anche le caviglie.
"Che cazzo pensi di fare, eh?! Quando uscirai di qui, i miei uomini ti uccideranno e verranno da me, mi salveranno e il tuo piano avrà fallito. Guarda in faccia la realtà, Iblīs: non hai mai ottenuto ciò che volevi, e questo non è il giorno in cui la fortuna inizierà a sorriderti.
Liberami ora e ti risparmierò la vita."
Per un attimo, mentre indietreggiava e contemplava suo fratello completamente incatenato al muro, il Re aveva riflettuto su quelle parole. Un tempo, forse, avrebbe acconsentito. Ma quel giorno, oh! Quel giorno sarebbe toccato a Uraeus il privilegio di possedere il torto, di esser tormentato dalla sfortuna.
"Per quanto ne sai i tuoi uomini potrebbero esser già stati uccisi, o magari hanno semplicemente scelto di fuggire lontano. Guarda in faccia la realtà, Uraeus: chi mai proverebbe a uccidere un essere immortale? Non importa che io non lo sia più, perché loro non ne hanno la minima idea!
Non incupirti a quel modo, dopotutto non ti ho mica ucciso. No, lascerò che il tuo corpo marcisca qui dentro, che la tua ferita si infetti e che ogni minimo movimento ti causi scariche abnormi di dolore. Ti lascerò morire proprio come tu hai lasciato vivere me: solo e in miseria."
Non aveva aspettato che rispondesse: non gli importava. Mentre le urla di suo fratello venivano fatte rimbombare dalle pareti basse e scure, Iblīs si era ritrovato a sorridere.
Finalmente, era libero.
**
Il ricongiungimento con Asteria era stato veloce, maniacale e sentito da entrambi come una liberazione. Solo quanto si era sentito avvolgere dalle braccia di lei, il Re aveva lasciato posto a un pianto disperato.
In cuor suo provava un dolore forse incurabile.
Non era dovuto al fatto che avesse condannato a morte suo fratello, ma più al pensiero che nonostante tutto non fosse riuscito a farsi amare dall'ultimo membro in vita della sua famiglia.
"Andrà tutto bene," aveva sussurrato Asteria al suo orecchio, stringendoselo al petto con fare materno, "andrà tutto bene, vedrai."
Lo aveva baciato sulle tempie e poi sul naso, sfiorandogli alla fine le labbra. Iblīs non era mai stato così caldo, vivo e umano come in quel momento.
Finalmente, Asteria in grado di sentire il cuore di lui battere contro il suo invece che dentro la scatola nella quale per giorni lo aveva tenuto.
Ancora con il petto scosso dai singhiozzi, Iblīs le aveva afferrato il viso, immergendo le mani nei ricci morbidi di lei. Avrebbe voluto dirle che l'amava, e quella volta l'avrebbe fato con la coscienza di un uomo in fase di guarigione, non più vittima completa della sua stessa psiche.
Avevano ancora tante faccende da sistemare, prima tra tutte la questione degli sfollati. Asteria, subito dopo esser stata restituita al mondo dei vivi, aveva implorato Nasser di radunare i medici del palazzo.
Avrebbero dovuto lenire i mali dei presenti, ridar loro un'adeguata sistemazione e, successivamente, prestare aiuto anche a coloro che erano stati liberati dalla maledizione. Al solo pensarci, Asteria aveva avvertito una fitta alla testa.
Ma potevano farcela, ne era sicura.
Si erano seduti sul pavimento, fuori la sala del trono in cui si trovavano tutti gli altri. I due si sarebbero appropriati di qualche altro minuto di quiete prima di iniziare a ricomporre quel tremendo e incompleto puzzle.
"Morirei per sempre e un giorno ancora, pur di rivederti." Aveva mormorato Iblīs, esausto.
Asteria aveva sorriso, baciandogli le palpebre umide dal pianto.
"Rinascerei per sempre e un giorno ancora, pur di rincontrati."
E allungandosi l'uno verso l'altra si erano baciati, sigillando la promessa di un futuro migliore.
FINE
.
.
O QUASI
Giù le mani dai fazzoletti, avete capito? La storia non è ancora finita! Manca l'epilogo quindi-ehi, ehi, ho detto niente fazzoletti!
Va bene, se proprio dovete...potreste passarmene uno? Adesso che manca un solo capitolo, mi sento un po' triste.
Ma almeno li ho lasciati in vita entrambi, no? E pensare che volevo davvero tanto farne morire almeno uno!
Ci vediamo tra pochissimi giorni, promesso.
Un bacio <3
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