43||Quattro Donne Mascherate
𝕮𝖍𝖎 𝖊' 𝖎𝖑 𝖕𝖆𝖌𝖑𝖎𝖆𝖈𝖈𝖎𝖔, 𝖆𝖉𝖊𝖘𝖘𝖔?
-John Wayne Gacy
Iblīs era stato scortato da una guardia verso le sue stanze, ma per qualche strana ragione più camminavano e meno riusciva a riconoscere la strada che stavano percorrendo.
La mano del suo servitore, adagiata a palmo aperto contro la sua schiena, tutto a un tratto gli era parsa fredda, sbrigativa.
Per un attimo gli era persino sembrato che l'avesse spinto, incoraggiandolo a proseguire con passo sostenuto, ma poi si era dovuto ricredere: chi mai avrebbe osato fare una cosa simile al Re?
A Iblīs mancava qualcosa, ne era certo, ma più frugava nella sua mente e più si ritrovava a rincorrere ricordi inesistenti e nebulosi. Era davvero condannato a vivere così?
Si era incurvato in avanti, nascondendo il viso tra le spalle, mentre le ombre del palazzo gli rendevano il viso più cupo. Dove stavano andando? Aveva spostato lentamente gli occhi e li aveva sentiti muoversi nelle cavità oculari, sfiorando i nervi.
I piedi dell'uomo si muovevano in fretta, un passo seguiva sempre l'altro in un ciclo continuo, e alle volte zoppicava. Alla guardia doleva la caviglia destra, ma mai aveva rallentato ciò che era divenuta una camminata veloce.
Il ritmo sostenuto, le sopracciglia che si scontravano tra di loro e lo sguardo serio e agitato dell'uomo avevano, chissà per quale strambo motivo, agitato Iblīs. La consapevolezza di star perdendo un ulteriore pezzo del puzzle lo aveva annegato, facendogli assumere un'espressione scontenta.
Quindi aveva stretto le labbra in una fine riga di risentimento, rallentando il passo. Non aveva nessunissima voglia di tornarsene in camera, non ora che la malinconia gli stava abissando i polmoni.
Tutto, ma non il cuore.
Il Re aveva portato una mano al petto, sentendo la mancanza di quel pompare lento e stenuante. Dov'era andato a finire il suo organo più importante? Per un attimo si era detto che forse s'era semplicemente fermato, che finalmente il suo corpo aveva ceduto sotto i colpi dell'immortalità.
Ma che importanza aveva la morte fisica, quando il suo spirito continuava a vivere? Certo, la sua ragione era deceduta molto tempo prima, quindi cos'era divenuto Iblīs? Forse era soltanto un guscio vuoto, scarno e privo di ogni essenza.
Erano passati di fianco la stanza dei dipinti, i suoi dipinti, e colmo d'adorazione si era lasciato andare a un lungo e profondo sospiro. Aveva ricordato qualcosa, ma solo a livello emotivo.
Non riusciva a mettere le mani sulla memoria vera e propria, ma era certo che dietro quella porta fosse accaduto qualcosa degno di nota.
"Cammina." La voce della guardia lo aveva colto alla sprovvista, lasciandolo momentaneamente confuso. Dove stavano andando? Quella domanda, comunque sia, era presto stata rimpiazzata da un puntiglioso senso di fastidio.
Cammina, perché mai qualcuno si sarebbe dovuto rivolgere a lui in quel modo? I piedi del Re si erano fermati, mentre i suoi occhi si aggiravano lividi sul viso dell'uomo. Cammina, perché avrebbe dovuto dar retta agli ordini di un servo?
Se la guardia si fosse limitata a dargli del tu, Iblīs avrebbe anche potuto passarci sopra; ma così non era stato e ora, ora che drizzava la schiena in una tacita affermazione di potere, il Re era infastidito.
Ordini, aveva preso ordini per tutta una vita, ne era certo, e questi mai cessavano di arrivare. Si era leccato le labbra secche, sentendo il sapore ferroso del sangue contro la lingua.
"Credo di aver capito male," aveva inclinato la testa di lato, ghignando, "spera che io abbia capito male."
La mente gli si era annebbiata, mentre avanzava di un passo verso il suo accompagnatore, fissando gli occhi appannati in quelli scuri dell'altro. A Iblīs era parso di starsi guardando dall'esterno, come un osservatore scruta uno spettacolo senza però farne parte.
Era nervoso e probabilmente non era nemmeno a causa dell'ordine dell'uomo; eppure quell'unica parola era tutto ciò a cui poteva appigliarsi. Finalmente aveva un motivo per il quale essere arrabbiato e non l'avrebbe lasciato andare così facilmente.
Le mani avevano iniziato a prudergli, irradiando un senso di intorpidimento in tutti e due gli arti superiori. Guardava attraverso gli occhi, eppure gli sembrava di essere rinchiuso dietro le proprio sclere, incapace di accedere alla scena.
Non si controllava, ma poco importava. L'uomo era capitato nel posto sbagliato e nel momento sbagliato, quindi perché non punirlo? Aveva avvertito un paio di mani viscide afferrargli i polsi, sollevandogli.
Iblīs era divenuto una marionetta nonostante non avesse la più pallida idea di chi fosse il burattinaio.
"Io non ho detto nulla, vostra Maestà." La guardia aveva aggrottato le sopracciglia, facendo un passo indietro. Sapeva di non poter evitare un attacco, ma certamente poteva prevenirlo, quindi tanto valeva spostarsi e lasciare al Re il tempo di calmarsi.
Le iridi dure dell'uomo avevano avuto un guizzo verso sinistra, lungo il corridoio centrale e verso le scale a chiocciola che tanto pregustava. Non riusciva a vederle con chiarezza, ma poteva percepirle sotto le piante dei piedi.
Lo aveva visto sorridere e passarsi una mano sul volto, interrogandosi sulla veridicità delle sue parole. Come poteva un pazzo consapevole d'esser folle non mettere in dubbio le proprie convinzioni?
Iblīs avrebbe accettato qualsiasi spiegazione pur di avere la convinzione, che tale rimaneva e mai diveniva realtà, di essersi minimamente liberato da quello strato di follia che gli annebbiava il cervello.
Quindi aveva annuito, toccandosi la gola con le punte delle dita. Non aveva avvertito il pulsare dell'arteria e s'era rilassato, convincendosi di esser morto.
Il palmo della guardia era tornato a scaldargli la schiena, dandogli il voltastomaco. Oltre le vetrate, il sole aveva iniziato a dileguarsi, cercando di evitare la luna come un amante spaventato.
Altri due passi e i vetri avrebbero lasciato il suo campo visivo; qualcosa non quadrava e lui non riusciva a spiegarsi il perché. Gli era parso di star cercando qualcuno oltre i cancelli, eppure non era in grado di ricordare chi e perché.
"Dove stiamo andando?"
Aveva visto le labbra della guardia muoversi nel tentativo di formulare una frase, una risposta, ma Iblīs non era stato in grado di percepirla. Le sue orecchie erano state tappate da profondi lamenti di donna.
Grida atroci si erano tramutate in corpi e, successivamente, in ragazze dai corpi diversi. Il Re ne aveva contati quattro; la prima possedeva una meravigliosa pelle d'ebano, in grado di far invidia alla pece dell'universo.
Questa aveva però due teste, l'ultima delle quali si trovava attaccata al retro del collo.
La seconda, invece, gli era parsa malata: la pelle giallognola della femmina gli aveva rammentato i bambini colpiti dall'ittero mentre le sue costole sporgenti sembravano starsi allungano in avanti.
Quest'ultimi avevano preso le sembianze di ramo, e lei di albero, mentre pian piano si stiracchiavano verso di lui, minacciandolo di perforargli la gola con le loro punte acuminate.
La terza aveva la gobba e tra le mani stringeva due sacchetti in stoffa bianca, uno contenente dieci monete d'oro e l'altro dieci in argento. Iblīs aveva notato che più le teneva in equilibrio sui palmi e più la ragazza si piegava su sé stessa, facendo sì che la spina dorsale premesse contro l'epidermide.
Il Re non si sarebbe sorpreso se questa avesse trafitto la pelle per far compagnia alle costole della seconda donna.
Aveva mandato giù un groppo amaro, terrificato mentre la fronte gli si imperlava di sudore e i polmoni si espandevano freneticamente. Non aveva mai visto fantasmi tanto orrendi.
La quarta donna aveva il ventre lacerato e con le mani impediva alle budella di fuoriuscire, lamentandosi mentre grossi vermi verdastri sgusciavano fuori dalla ferita.
Tutti e quattro i fantasmi, comunque sia, avevano una cosa in comune: indossavano una pallida maschera raffigurante il volto di Osiride. Ondeggiavano come foglie in preda al vento senza mai toccarlo.
Lo guardavano attraverso le nivee sembianze del dio, incrociando le mani tra di loro per poi roteare su loro stesse, svanendo tra le mattonelle e gli angoli bui.
"Una promessa è una promessa," aveva mormorato la prima donna, stringendogli le spalle; "ogni mamma ama il suo bambino, non è così?" la seconda aveva ansimato nel toccarsi le costole.
Le ultime due si erano prese per mano, inclinando la testa di lato. Iblīs non si era accorto di star scendendo le scale a chiocciola, così come non aveva sentito la mano della guardia stringergli le spalle per strattonarlo in avanti.
Mormorii e parole nefande lo avevano attraversato, senza però toccarlo realmente. Era concentrato sulla visione immonda che gli si stava presentando davanti al punto che non si era reso conto di suo fratello.
Uraeus aveva indossato un sorriso di soddisfazione mista a maniacalità mentre osservava il maggiore scendere l'ultimo, ripido scalino. Aveva trovato, dopo giorni di ricerche, un sacerdote in grado di compiere il rito.
La vittoria era sua, la pedina principale del suo gioco aveva appena assistito al massacro della sua città e il suo avversario farneticava contro l'aria rarefatta del piano sotterraneo.
"Cosa gli prende?" Aveva borbottato l'uomo, a disagio. Fingersi una guardia era stato più facile del previsto; dopotutto Iblīs non ricordava nemmeno sé stesso, figuriamoci i volti dei suoi servitori.
Chissà come avrebbe reagito, se avesse saputo che lui era tra coloro che il Re reputava morti.
Uraeus aveva scosso la testa, facendo scontrare la lingua contro il palato. Non aveva alcuna idea di cosa stesse guardando suo fratello, tanto meno poteva dirsene interessato, e così aveva semplicemente lasciato che la domanda scivolasse via.
Dove diamine era Nasser quando gli serviva? Aveva sbuffato, infastidito, mentre si passava una mano sul viso. Non importava, poteva rinchiudere il regnante anche da solo, aiutato dall'apparente psicosi che sembrava star avendo.
Il sacerdote avrebbe impiegato un'altra ora per arrivare e poi avrebbero iniziato il rito per estrapolargli l'anima e donarla a Osiride. Per farlo, però, serviva una piccola spinta da Asteria.
Era necessario che lei lo convincesse ad andarsene, a morire, e lui era sicuro che lo avrebbe fatto. Dopotutto aveva appena visto la sua cittadina venire assediata da soldati che solo il Re poteva comandare.
Poteva davvero continuare ad amare e a provare pena per l'assassino della sua città Natale?
Iblīs, ancora perso tra le maschere, aveva ascoltato le risa della terza e della quarta donna.
"Un figlio deve pagare per gli errori dei genitori," rumori di cigolii e di urla di infanti gli avevano fatto serrare i pugni, "ias asoc idev?"
L'ultima frase gli era risultata lontana, incomprensibile, mentre le mani di qualcuno lo sospingevano in avanti. Il contatto con la realtà era stato duro, doloroso, mentre si ritrovava a sbattere la mascella contro il pavimento.
Aveva sentito la mandibola uscire dalla sua sede, riposizionandosi dopo il secondo impatto. Qualcuno gli stava spingendo la testa contro il marmo, usando il piede per tenergli fermo il collo.
Il terzo colpo gli aveva rotto il naso, rovinandoglielo.
Iblīs era certo di aver sentito la cartilagine gemere e sgretolarsi.
Aveva riso, annegando nel suo stesso sangue mentre la sensazione di dolore gli inebriava i sensi. Si sentiva vivo, euforico, mentre teneva la testa bassa. Le mani del Re avevano preso a tremare per l'eccitazione e i suoi occhi si erano sbarrati, iniettati di sangue.
"Ancora, ancora!" Si era tirato i capelli, confuso, mentre Uraeus gli si inginocchiava davanti.
Si erano osservati, entrambi colmi di inspiegabile euforia mentre tentavano di studiarsi a vicenda. Se fossero cresciuti assieme, se il padre fosse stato un'anima gentile e un genitore amorevole, forse le cose sarebbero state diverse.
Forse le loro esistenze sarebbero terminate anni prima, forse avrebbero vissuto serenamente, senza il peso dell'immortalità a gravargli sulle spalle. Ma questo non era successo e non importava quanto la situazione fosse triste: era successo ciò che doveva succedere.
"Provo pena per te, fratello."
E lo pensava davvero, ma non per questo avrebbe cambiato decisione. Se Iblīs fosse stato cosciente, si sarebbe dato dello stupido. Nulla poteva perforare la bolla in cui era entrato, non dopo l'apparizione delle quattro donne.
Dove si trovavano, adesso? Le aveva cercate con lo sguardo, senza riuscire a notarle. Se ne erano andate anche loro; lo avevano distratto, tratto in inganno, per poi lasciarlo solo.
Iblīs provava un senso di infelice divertimento. Non aveva la più pallida idea di come fosse arrivato a quel punto e forse nemmeno gli interessava.
Chissà cosa avrebbe detto Asteria nel vederlo in condizioni tanto misere. Il pensiero l'aveva fatto rabbrividire.
"Non capisco."
"Lo so." Uraeus si era alzato velocemente da terra, raggiungendo la schiera di uomini e donne che, alle sue spalle, tacevano. Qualche volto gli era parso familiare, ma nulla più.
Aveva tentato di aprire una finestra sul passato per ricordare, ma l'unica cosa che aveva visto era stata nebbia su ghiaia. Suo fratello gli avrebbe spiegato tutto solo per vederlo aggrottare le sopracciglia, confuso, e spalancare gli occhi per lo stupore.
Iblīs stesso avrebbe applaudito l'intelligenza di quel maledettissimo piano. Entrambi si trovavano nella catena alimentare, e il Re pareva essere appena sotto suo fratello, il principe.
"Lascia che ti spieghi, suppongo di doverti almeno questo."
**
Asteria e Lyeak erano riusciti a bendare solo tre dei venti feriti. Enormi pustole giallastre avevano abbracciato le pelli liquefatte degli abitanti, marchiandoli a vita.
L'odore della cenere aveva solleticato i nasi dei presenti, nauseandoli fino al vomito. Asteria si era dovuta concentrare con tutte le sue forze sui movimenti dell'amico per impedire al suo stomaco di arrotolarsi su sé stesso.
Lo scrittore le aveva mostrato come applicare un bendaggio d'emergenza, ordinandole di continuare mentre lui si aggirava tra le fiamme. Dopotutto, le aveva detto Lyeak, lui non poteva morire.
"Fa male," si era lamentata la bambina alla quale Asteria stava tamponando la fronte. La ragazzina era tra i fortunati che non erano stati attaccati dalle fiamme; i suoi polmoni, però, erano stati talmente tanto macchiati dal fumo da costringerla a tossire ogni cinque secondi.
Asteria aveva interrotto i movimenti circolari del panno, dandole il tempo di abituarsi mentre le accarezzava i capelli rovinati. Gli sguardi degli abitanti si erano incupiti mentre fissavano le cose più svariate.
Il silenzio aveva inghiottito tutto, lasciando allo scoppiettare del fuoco l'onore di colmare le orecchie.
Non riuscivano a trovare le parole, i gesti per consolarsi a vicenda. Asteria aveva contato tre cadaveri, senza azzardarsi a far la stessa cosa con i feriti: temeva il risultato che avrebbe ottenuto.
Il viso scarno del bambino defunto le aveva macchiato le palpebre, palesandosi ogni qual volta le sbatteva. Per qualche secondo aveva tentato di non chiudere gli occhi, fallendo miseramente,
Sentiva il bisogno di piangere stritolarle la gola e graffiarle le cosce, ma non si era accordata il diritto di lasciarsi andare. Temeva che i suoi concittadini l'attaccassero, incolpandola di tutto.
Aveva ripreso a consolare la bambina, intrecciandole i capelli per staccarglieli dal viso. Il sudore aveva fatto da colla, creando un miscuglio di elementi sul volto giovane e stanco della minore.
Asteria l'aveva vista solo un paio di volte e non si erano mai rivolte altro che un semplice 'buongiorno'. Non avrebbero mai più percorso le stesse strade, tantomeno si sarebbero recate a casa.
Si era costretta a stringere gli occhi un paio di volte mentre si chiedeva dove fosse finito Azef. Aveva setacciato la parte centrale della città nel tentativo di trovarlo, ma nulla.
Casa loro era crollata e con essa tutti i loro possedimenti; l'unica consolazione era stata il non averlo trovato tra le macerie, esanime e con un ultimo respiro a fior di labbra.
Lyeak l'aveva costretta a ricoprire il ruolo di medico, andando a cercare gli altri sopravvissuti al posto suo. Avrebbe preferito partecipare alla ricerca, ma le era stato negato. Sperava di vederli tornare assieme, entrambi vivi.
Asteria aveva terminato di ripulire il viso della ragazzina, sospirando nell'osservarsi le mani macchiate di nero. Non riusciva a credere che Iblīs avesse fatto una cosa del genere, non dopo tutto ciò che le aveva detto e promesso.
Doveva esserci stato un errore.
I suoi occhi avevano scansionato i corpi anneriti dei suoi ex concittadini, mugugnando disperata nel vederli così sofferenti.
Senza sentirsi in grado di affrontare i loro sguardi, Asteria era tornata a osservare le ceneri della sua città. Tutto era precipitato, andato a pezzi, e non sapeva chi incolpare. Possibile che fosse successo tutto a causa sua?
Se non avesse accettato la proposta di Iblīs, magari le cose sarebbero andate diversamente; lei avrebbe avuto il suo negozio e la sua città sarebbe rimasta come sempre, immutata e immutabile.
Mani pallide e occhi viola si erano affacciati tra le lingue di fuoco, adocchiandola.
Asteria aveva schiuso le labbra, frustrata con sé stessa mentre premeva i palmi delle mani contro le palpebre.
"E' tutta colpa mia," aveva sentito gemere lei, sempre più vicino. Ancora con gli occhi serrati, la ragazza si era ritrovata con la gola secca.
Non avrebbe alzato la testa nemmeno se glielo avessero ordinato. Temeva di vedere qualcuno, qualcosa, che non avrebbe dovuto vedere.
Eppure la voce risuonava familiare contro le sue orecchie, spigolosa e intrisa di risentimento mentre le rimbalzava sul cuore.
"Ma l'ho fatto per lui, l'ho fatto per lui!" Singhiozzi e colpi di tosse l'avevano raggiunta, afferrandole i calcagni per reclamare la sua attenzione.
"Lasciami stare, ti prego, lasciami stare." Aveva boccheggiato Asteria, senza fiato. Sperava che nessuno la stesse guardando mentre borbottava contro il buio delle sue palpebre e verso una voce che solo lei riusciva a sentire.
Forse lo shock l'aveva finalmente sommersa, prendendosi la rivincita e disarcionandola da cavallo per farla scontrare contro la tremenda verità dei fatti. Non voleva guardare perché sapeva chi si celava dietro quella voce, tra quelle corde vocali, ed era cosciente del fatto che sentirla fosse tutto tranne che positivo.
La madre di Iblīs aveva continuato a scavare con le unghie nei suoi calcagni, reclamando un'attenzione che Asteria si rifiutava di darle.
"Devi aiutare il mio bambino," aveva gridato lei, allungandosi verso le orecchie della giovane per strattonargliele, "o se lo porteranno via! Non è stato lui, il mio bambino non lo farebbe mai!"
Il fantasma si era accovacciato a terra, davanti a lei, con le lacrime a renderle gli occhi ancor più liquidi.
La morte le donava, o forse era semplicemente questione di abitudine. Asteria aveva fatto saettare gli occhi verso quelli violacei dell'entità, rabbrividendo nel guardarla. Si era quindi portata una mano allo stomaco, sentendo i succhi gastrici ondeggiarle nel corpo.
La madre del Re aveva un aspetto umano mentre sedeva a terra, le gambe ben divaricate per mostrare la fuoriuscita di sangue e ulteriori liquidi.
"Capiscimi," aveva singhiozzato ancora lei, "non potevo lasciar solo il mio bambino."
A T T E N Z I O N E
Scusate, scusate e ancora: SCUSATE! Ho iniziato il mio secondo stage e sono davvero impegnatissima, con turni improponibili e una voglia di mettermi al Pc pari a due (comunque meglio di zero).
Ora, so che questo capitolo potrà sembrare confuso, ma conto di spiegare tutto nel prossimo. Eh già, potreste finalmente trovare risposte ai vostri dubbi! Un bacio <3
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