37| Il Cadavere Di Iblīs

𝕻𝖊𝖗 𝕾𝖔𝖈𝖗𝖆𝖙𝖊 𝖑𝖆 𝖒𝖔𝖗𝖙𝖊 𝖓𝖔𝖓 𝖊𝖗𝖆 𝖚𝖓𝖆 𝖘𝖈𝖔𝖓𝖋𝖎𝖙𝖙𝖆, 𝖒𝖆 𝖚𝖓𝖆 𝖈𝖚𝖗𝖆.
-Serie tv, Hannibal Lecter

Ureus aveva bisogno di pensare e di concentrarsi per far uscire un piano degno di quel nome.

Il corso delle cose non era negativo, affatto, e Iblīs pareva invece scivolare giorno dopo giorno in uno stato sempre più poderoso di isteria.

Inizialmente, lui lo ricordava bene, suo fratello non era così. Nonostante la mancanza di rapporto, Uraeus era sempre stato molto attento a chiunque lo circondasse, familiari inclusi.

Pareva fosse un tratto di famiglia quello di diffidare e odiare coloro di cui più si aveva bisogno.

Sua madre, una concubina dagli spessi capelli castani, si era ritirata in un angolo del palazzo senza mai aver il coraggio di uscire.

Non sarebbe mai stata eletta Regina, a palazzo ne erano tutti consapevoli.

Il Re, dopo la morte della prima moglie, non aveva più posato gli occhi su un’altra ma, ahimè, la mancanza d’amore non gli aveva impedito di concepire un ulteriore figlio.

Così era nato Uraeus.

Per i primi anni di vita aveva vissuto nelle stanze della madre, costantemente protetto e avvolto dal profumo d’ebano della donna.

La concubina, però, aveva iniziato a divenire paranoica.

La solitudine e l’isolamento l’avevano distrutta, spezzandola come un ramoscello secco. Non era una donna debole, nessuno donna sarebbe mai stata giusta portatrice di quel titolo infausto, ma si sentiva instabile.

Credeva che Iblīs, assieme al padre, volesse uccidere il suo bambino, il suo meraviglioso dono del cielo. Uraeus era, dopotutto, l’unica forma tangibile del legame che s’era instaurato tra lei e il Re e doveva quindi proteggerlo a ogni costo.

Per anni era stata ella stessa a vietare al figlio di parlare o di interagire in qualsiasi maniera con il fratellastro, mormorandogli storie della buonanotte che vedevano Iblīs come antagonista e lui come eroe.

Un giorno, gli sussurrava la donna, avrebbe salvato l’Egitto dalla piaga che i reali portavano.

Qualcuno avrebbe detto che ci aveva visto lungo, che la concubina aveva percepito quanta malata quella famiglia fosse, ma questo non cambiò il corso degli eventi.

Si impiccò.

A trovare il corpo furono due domestiche che, in preda a un attacco di panico, tentarono in tutti i modi di salvare la donna.

Non ci fu nulla da fare e l’avvenimento fu presto dimenticato, come se la concubina non fosse mai esistita.

L’unica cosa per la quale era stata acclamata, comunque sia, era aver dato alla luce Uraeus.

Non era stata altro che uno strumento, usata e usata fino a quando il Re non aveva avuto ciò che per anni aveva sognato: un nuovo figlio, un bambino che poteva scrutare apertamente negli occhi senza essere invaso dal risentimento.

Uraeus aveva scosso la testa nel ripensare alla madre mentre tracciava le venature del legno sopra la porta.

Doveva sbrigarsi, non perché avesse poco tempo ma perché, al contrario, ne aveva fin troppo.

Iblīs era irrimediabilmente pazzo e l’Egitto aveva bisogno di un degno regnante; questo era quello che avrebbe detto al popolo.

La verità andava oltre la concezione umana di giusto e proprio per questo aveva deciso di divulgarla solo a Nasser.

Era stato in contatto con alcuni servi degli dei, chiedendo loro consiglio e promettendo ingenti somme di denaro.

Non importava quale fosse stata la somma da pagare: lui l’avrebbe versata.

Nonostante gli uomini a cui si era appellato fossero umani, avevano comunque sia accesso a un portale tra la dimensione divina e quella mortale.

Questo era proprio ciò che a Uraeus serviva: un consiglio divino, una certezza.

Gli dei, però, non avevano alcuna intenzione di reclamare l’anima di Iblīs perché troppo buia e scarna, priva di quella luce umana che loro tanto amavano e bramavano.

Cosa farne, quindi, dell’attuale Re?

Uraeus si era leccato le labbra mentre avanzava verso la finestra, osservando il mondo oltre il giardino del palazzo.

Il deserto si estendeva per chilometri, immutabile e crudele. Si era chiesto quanti uomini e quante donne fossero morti tra le dune e quante ossa gracili, persino di bambini, giacessero sotto strati e strati di sabbia.

Forse era l’intera terra a esser stata maledetta assieme a Iblīs.

Si era portato una mano al viso, rimuginando sul da farsi.

Le parole del sacerdote erano state chiare: l’unico dio che desiderava ardentemente la compagnia del Re era Osiride, dio degli inferi.

Lui sarebbe stato in grado di rompere la maledizione e di liberare tutti dall’immortalità, ma a una sola condizione: che gli venisse consegnata l’anima di Iblīs.

Estrarre l’essenza di un uomo, gli aveva saggiamente spiegato il sacerdote, era una procedura estremamente difficile e praticabile solo da abili esperti.

Quasi nessuno, però, era reperibile. Uraeus non era ancora riuscito a mettersi in contatto con uno di questi sciamani e si ritrovava quindi a mandare avanti una ricerca disperata e cieca.

Il secondo problema era che Iblīs non avrebbe mai acconsentito ad affiancare Osiride, perché adirato nei confronti di tutti gli dei.

Loro lo avevano abbandonato, si erano stancati di lui e avevano lasciato che diventasse difettoso.

Ora che il Re era inutilizzabile, nessun dio gli avrebbe più offerto la propria protezione.

Un regnante senza l’appoggio di una divinità, in qualsiasi caso, era ritenuto inetto e mostruoso. Se persino gli dei si rifiutavano di avvicinarsi a Iblīs, chi mai l’avrebbe fatto?

La risposta aveva, a quanto pare, diversi nomi: Miel, Asteria, dea delle stelle cadenti e via dicendo.

Quella maledetta ragazzina esercitava un’influenza innecessaria sul fratello di Uraeus, condizionandolo senza nemmeno rendersene conto.

Il Re desiderava spegnersi e termine quella sua misera esistenza, eppure lei s’era frapposta e l’aveva affiancato, illudendolo di poter tornare a com’era un tempo.

Se fosse riuscito a separarli totalmente, magari sarebbe anche stato in grado di persuadere Iblīs a raggiungere Osiride.
La prima opzione alla quale aveva pensato era stata ucciderla.

Avrebbe visto le sue orbite arrossarsi mentre le esplodevano i capillari e il suo colorito farsi cereo e, in seguito, cianotico.

Quindi l’avrebbe finita con un colpo secco al cuore, senza farle provare nemmeno una briciola di sofferenza.

Le avrebbe promesso una morte serena e veloce, molto più di ciò che altri avevano ricevuto. Nasser, però, aveva minacciato di rivelare ogni cosa se solo avesse messo in atto quel piano.

Era saltato tutto, quindi, e Uraeus si trovava alle strette.

Doveva far qualcosa o, per lo meno, iniziare a prendere in considerazione nuove idee. Come si separavano due persone? Lui era stato distaccato da Iblīs a causa, o grazie, a sua madre e l’aveva sempre visto come il cattivo, il malvagio uomo nero delle fiabe.

Aveva bisogno che anche Asteria lo vedesse così e che, in qualche modo, biasimasse lui di qualsiasi cosa brutta vi fosse al mondo.

Iblīs doveva smettere d’esser pazzo per iniziare a divenire un mostro a tutti gli effetti, uno di quelli che avrebbe fatto accapponare la pelle a chiunque.

Forse lo era già, ma non per la ragazza.

Uraeus aveva sorriso nel guardare la sabbia venir smossa dal vento. Aveva appena avuto un’idea, un'intuizione, sul da farsi.

A cosa teneva Asteria? E come avrebbe reagito se questa si fosse persa, danneggiata o rotta irrimediabilmente?

Doveva pur possedere qualcosa in grado di spezzarla e dilaniarla dall’interno, ferendola più di quanto un pugnale avrebbe mai potuto fare.

Uraues doveva solo capire cosa fosse questo oggetto prezioso e poi lo avrebbe fatto a pezzi, dando la colpa a Iblīs.

A quel punto lei lo avrebbe odiato, magari si sarebbe persino uccisa, e il Re sarebbe tornato a esser circondato solo da fantasmi e illusioni.

Gli avrebbe detto di sì, quindi, e ormai solo avrebbe accettato la fine della propria anima.

Finalmente Uraeus aveva un piano.

**

Asteria era sdraiata sul morbido materasso di Iblis, completamente incapace di prender sonno.

Chiudeva gli occhi e immaginava d’essere altrove, oltre il mare, ma nonostante la prospettiva del bel sogno non riusciva ad addormentarsi.

Le dita del Re avevano preso a massaggiarle lo scalpo, creando cerchi immaginari contro la pelle del suo collo. I capelli nuovi, più corti rispetto alla restante matassa, le si erano drizzati.

La ragazza aveva sentito lo stomaco rivoltarsi e stringersi, confondendola. Non capiva se fosse piacere, quello che stava provando, o puro e completo terrore.

Forse la seconda risposta sarebbe stata quella più ovvia, ma Asteria si rifiutava di accettarla senza prima analizzarla.

Più Iblīs la guardava, comunque sia, e più le pareva in fase di appassimento.

Sembra stanca, stanchissima, e spesso i suoi occhi perdevano di concentrazione, lasciando che le iridi s’appannassero.

Entrava e usciva continuamente da un ciclo di sonno che si alternava tra coscienza e incoscienza. A un certo punto Asteria non era più sicura di aver dormito o meno.

Le labbra del Re si erano accostate alla sua fronte, baciandogliela teneramente.

La ragazza era calda, forse troppo per esser considerata in salute, e il contatto con la pelle fredda, morta, di Iblīs l’aveva momentaneamente consolata.

Da quando dormiva assiduamente nelle stanze del sovrano?

Non riusciva a mettere le mani sul tempo, a fermarlo di qualche secondo per avere un momento necessario a capire. Era sempre più confusa, più agitata, ma il suo corpo non le rispondeva.

Sembrava che la sua mente fosse allo sbaraglio mentre il suo fisico rimaneva inerme, abbandonato a sé stesso.

Era così che si sentiva Iblīs? Si era distratta un attimo, ottenendo quel briciolo di coscienza che qualche ora prima aveva smarrito.

Aveva bisogno di staccare, di discostarsi dal Re per qualche ora, se non per un paio di giorni, e riflettere sull’avvenire. Sapeva che se si fosse impegnata, se il sovrano l’avesse lasciata in pace, si sarebbe rimessa.

Asteria, però, non era riuscita a impedire alla sua mente di ragionare e giudicare. Forse era lei a dover lasciare in pace Iblīs, forse era lei quella folle, sfrontata, che influenzava negativamente l’uomo che giaceva al suo fianco.

Il Re era rimasto in quello stato di pura follia per decenni e cambiare gli era quindi impossibile; lei, invece, si trovava a cedere dopo una vita di rettitudine e buonismo.

A cosa le era servito esser gentile e pacata? La sua apparente anima candida non le sarebbe stata utile, in quel caso.

L’uomo era fatto per adattarsi, dopotutto, e quindi o si adattava o moriva e lei, proprio come qualunque altro umano, aveva un profondo terrore della morte.

Al tempo stesso, però, si rifiutava di non morire.

Aveva accarezzato il collo di Iblīs, quasi impietosita.

Quel palazzo era la sua tomba e lui ne era il cadavere.

Bianco e smilzo, il Re bambino dall’animo buono era morto molti anni prima.

Asteria non lo biasimava affatto e più che per Iblīs provava pena per il ragazzino solo e dagli occhi lilla che era stato percosso e deriso.

Giorno dopo giorno era stato piegato e pugnalato ma mai era morto e ora, a distanza di decine e decine di anni, non sarebbe più stato in grado di farlo.

“C'è qualcosache ti manca? Qualcisa che desideri rammentare.” Gli aveva mormorato lei, sfiorando le braccia calde e profumate di Morfeo per rispingersi in superficie, verso il gelo di un cadavere che, chissà come, era ancora in grado di parlare e pensare.

“Vorrei ricordare la mia infanzia.”

Il Re si era leccato le labbra mentre lei si sdraiava su di un fianco, tentando di accomodarsi come meglio possibile.

Lui era sgusciato dietro di lei, cingendole la vita con un braccio mentre l’alto lo incastrava tra i suoi capelli bruni e il cuscino.

Le aveva baciato il retro della testa, volgendo lo sguardo verso il cielo oltre la finestra. Le stelle, quella notte, parevano esser spente.

La luce era fornita solo dal pallido viso della Luna e le compari, invece, sembravano lontane, spente e prive di quella luce che gli uomini tanto amavano.

Quand’era piccolo, Iblīs era solito contare quei puntini luminosi in giardino.

Quando ormai il Sole era completamente sparito, il piccolo principe usciva dalle proprie stanze per sgattaiolare verso il retro del castello.

Lì, circondata di fiori importanti da oltre mare, vi era la tomba di sua madre.

Una nuova lastra decorativa doveva esser comperata e quindi, per qualche giorno, il corpo deformato e in putrefazione della donna era coperto solo da terra.

Iblīs ci si sedeva sopra e con la mano scavava un piccolo solco laterale, a sinistra, sentendo la terra smuoversi e i vermi arrampicarglisi sulle falangi, stringendogliele senza però disgustarlo.

Erano solo animaletti inutili, senza alcun reale potere su di lui, quindi perché temerli?

Una volta scavato un buco abbastanza profondo, l’allora principe era in grado di toccare con mano il cadavere della defunta madre.

Questo poteva esser fatto solo due o tre volte l’anno, quando suo padre dava l’ordine di ripulire la lastra decorativa.
Iblīs aveva fatto affondare il braccio nel solco, sfiorando senza guardare.

Non era sicuro che avrebbe avuto lo stomaco di vedere le carni di sua madre putrefatte, i capelli sfibrati e sporchi o gli occhi ingrigiti con l’iride pallida.

Preferiva immaginarla con l’aiuto di qualche dipinto che aveva trovato nelle stanze del padre. Prima o poi, si era detto il bambino, sarebbe stato in grado di dipingerla anche lui.

“Ciao mamma”, sussurrava alla terra, afferrandole la mano scarna, fredda, quasi completamente priva di pelle.

Stava parlando con delle ossa, eppure gli parevano infinitamente più comprensive di qualsiasi essere fatto di carne che lo aveva mai circondato, “contiamo le stelle.”

Stringeva la mano dello scheletro fino a quando il sonno lo privava della capacità di farlo e a quel punto tornava nelle sue stanze, addormentandosi.

Il ricordo lo aveva scosso, forse persino turbato, ma non lo aveva dato a vedere.

“Mi uccideresti?” Aveva domandato lui, accarezzandole una guancia, “Se ne avessi la possibilità, mi uccideresti?”

Aveva ripensato agli avvenimenti di qualche ora prima e la risposta che s’era dato era si, si l’avrebbe volentieri fatto a pezzi.

L’aveva sentita tremare sotto le dita e istintivamente se l’era avvicinata, stringendola.

Asteria si stava lasciando abbracciare da un cadavere, dall’anima morta di un bambino solo, dalla mente lacerata di un adolescente immortale.

Iblīs era tante cose e al tempo stesso non era nulla.

Impossibile da classificare, difficile da raggiungere e arduo da comprendere.

L’avrebbe ucciso? Se il Re fosse stato fatto di carne umana, debole e mortale, avrebbe affondato un pugnale nel suo petto? E se ne avesse avuta l’opportunità, avrebbe fatto scorrere la lama sulle guance rosate di lui, tingendogliele di un rosso scarlatto?

Asteria si era immaginata quasi dieci modi efficaci con i quali l’avrebbe assassinato.

Nessuno di questi, però, era indolore o magnanimo. La vita non lo era quindi perché esserlo a sua volta?

Cosa avrebbe provato nello strappargli la vita? Miseria, ecco cosa aveva percepito.

“No, non ti ucciderei.”

Iblīs non comprendeva. Perché non l’avrebbe ucciso? Era sicuro al cento per cento che quello fosse il desiderio cupo che Asteria nascondeva.

In parte aveva ragione: la ragazza era stata riempita da un nerissimo risentimento, ma questo non era abbastanza per portarla all’assassinio.

“Perché no?”

“Non lo so.” Negli ultimi giorni pareva non sapere più nulla, né come agire né come pensare. La sua ragione s’era completamente fusa con il cuore, rifiutandosi di produrre ragionamenti sensati.

Ora agiva più per emozione che per altro.

Non le piaceva quel modo di fare perché troppo sentimentale, eppure non riusciva a impedirselo.

“E invece credo che tu lo sappia, Miel.” Iblīs aveva osservato il radunarsi di verdi falene contro la superficie lucida del vetro, spingendo per chiedere asilo.

A quei piccoli insetti, aveva rammentato il Re, erano associati diversi significati. Si vociferava che fossero gli spiriti di streghe, talvolta fate, che freneticamente cercavano i loro corpi.

In altre parti del mondo, invece, sembrava portassero sfortuna.

Spesso, ricordava il Re, si erano radunate attorno alla ragazza.

Asteria si era voltata verso di lui solo con la testa, affondando gli occhi umani in quelli mostruosi di lui. Come potevano esser considerati tali? Lei era certa di non aver mai visto iridi più cristalline e belle di quelle.

Se fosse stata una ladra, glieli avrebbe strappati via, recidendoglieli con precisione chirurgica per non rovinarli.

Inizialmente non gli aveva risposto, decidendo di ignorare l’affermazione che il Re aveva fatto.

Mentalmente, però, aveva iniziato a rimuginarci sopra. Forse aveva ragione, forse era pienamente consapevole della risposta.

Asteria era finita con l’innamorarsi di Iblīs e il mondo non possedeva una cura per simile patologia.

Questo suo sentimento, ne era consapevole, l’avrebbe portata a morte certa.

Ogni volta che lo guardava, che lo toccava, si sentiva mancare. Era spesso un misto tra adorazione e nausea, amore e odio, che non riusciva a conciliare.

Aveva molte volte pensato che il mondo dovessero trovare un equilibrio, il grigio tra il nero e il bianco, ma in quella situazione non poteva rimanere su terra neutra.

Era necessario che Asteria scegliesse a quale sentimento dare la precedenza, così da sollevarsi di un minimo da quella situazione impara e non equilibrata.

Come avrebbe reagito, il Re, nel sentirsi amato?

La ragazza pensava di doverglielo dire, eppure non trovava il coraggio di farlo.

Stupidamente pensava che, se glielo avesse rivelato, lui sarebbe stato ripulito da tutto il male che lo infestava.

L’unica parte razionale di lei che rimaneva, comunque sia, aveva affermato che Iblīs non sarebbe mai riuscito a lasciarsi indietro quel velo di follia che lo sovrastava.

L’amore non era così forte ma l’odio lo era, dopotutto pareva esser stato proprio quello a ridurlo così.

Inoltre era certa che l’affetto fosse mutevole, sempre in fase di cambiamento, e che prima o poi uno dei due si sarebbe stancato dell’altro.

A quel punto cosa avrebbero fatto? Si sarebbero pugnalati a vicenda, tentando di estirparsi dalla vita del partner?

E, si era chiesta Asteria, se fosse solo ossessione piuttosto che amore? Forse Iblīs, proprio come lei, non era consapevole di quale fosse la differenza tra le due emozioni.

Prima o poi lui si sarebbe stancato di lei e l’avrebbe uccisa, torturata, fino a renderla difettosa proprio come lui.

Asteria non poteva salvare Iblīs, o meglio: Iblīs non poteva esser salvato da nessuno.

Questo non voleva dire, però, che non ci avrebbe provato.

“Dormi con me,” aveva sussurrato lei, affondando il mento nell’incavo pallido del collo di lui, “mostrami come ami.”

A T T E N Z I O N E

Ho dormito tre ore ma ho scritto due capitoli, so come far finire la storia ma oscillo tra un finale tragico (molto ma molto tragico) e uno un po' più tranquillo ma comunque sia coerente alla storia.

Dopo TCK credo che finirò tutti i libri che sto scrivendo e, ovviamente, potrei iniziare una nuova storia, ma non ne sono sicura. In qualsiasi caso mi sono affezionata al genere DARK FANTASY, quindi penso che manterrò quella strada.
Un bacio <3

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